Il coraggio e la lingua. Vogliamo allevare una generazione di rapper, trapper?
Nota esplicativa sul pischello eroe di Torre Maura che parla in modo sgrammaticato
Roma. L’intellettuale è quella persona che dice esattamente quello che vuoi sentirti dire e nel modo in cui lo diresti tu. Che si accoda senza esitazione all’entusiasmo giornaliero per un qualsiasi fenomeno mediatico. Un amplificatore, un divulgatore a mezzo social di quello che hanno già detto tutti quanti. E’ una persona simpatica, il vicino di casa bonario, per bene, a modo. Scansa il pensiero complesso, perché la complessità porta con sé necessariamente anche dissenso, e il dissenso va evitato a tutti i costi. L’intellettuale deve cercare il consenso più ampio possibile, e per farlo deve limare tutte le asperità. Ovunque: quando si esprime in pubblico, quando scrive sui giornali e massimamente nei romanzi. Via tutto, via asperità, buio, ambiguità. La cosa più importante per l’intellettuale è che chiunque, senza esclusione, possa riconoscersi in quello che dice e scrive. Immediatamente, con entusiasmo e senza farsi nessuna domanda, senza avere alcun dubbio.
Questo ho imparato da quando, quattro giorni fa, dopo aver visto il video di Simone di Torre Maura che fronteggia i tizi di CasaPound (quello lì, ormai celeberrimo), ho scritto un tweet. Ribadendo il coraggio del pischello (una delle parole romanesche che preferisco, allegra e piena di grazia) mi chiedevo se non facesse impressione a nessuno il modo sgrammaticato in cui si esprimeva. Questo mio tweet ha scatenato l’indignazione. Ne ho scritti ancora un paio nei quali ribadivo che secondo me sapersi esprimere in un italiano corretto è condizione necessaria per crescere, mettersi nel mondo, combattere le proprie battaglie. Ho detto che fare di quell’adolescente l’eroe dei quindici minuti di notorietà non sarebbe servito a lui, ma soprattutto mostrava la nostra viltà. Che ci nascondiamo dietro il coraggio di un ragazzino perché non abbiamo saputo articolare risposte sensate alla rabbia e al nuovo fascismo. Togliamo i soldi alla scuola pubblica, sputiamo sulla scienza, ridicolizziamo il sapere.
Mentre se c’è una cosa che dovremmo fare noi adulti è cercare di smontare gli slogan, anche quelli giusti, perché solo così si cresce, ci si libera dal ricatto della nascita. Per potersene andare da lì, o anche per poterci rimanere se è quello che vogliamo, ma solo dopo averlo scelto. La sindaca di Roma, che ha trascinato questa città ancora più giù di dove l’ha trovata, fino al disastro che sappiamo, ha twittato l’invettiva di Simone dal suo account. Non riesco a pensare a niente che restituisca con maggiore efficacia il cortocircuito di responsabilità. Il folklore è paternalistico, allieta le nostre pagine Facebook, è lo spunto per generici articoli di costume, ma non serve a niente. Non sarebbe il caso di smettere di chiedere a persone come Simone di Torre Maura di essere i supplenti della nostra inefficacia?
Immediata e quasi unanime la risposta. Migliaia di tweet nei quali mi veniva consigliato di suicidarmi, si storpiavano miei rubriche di anni fa per dimostrare la mia omofobia, si ritirava fuori la mia foto al premio Strega quando, esausta, avevo poggiato i piedi sulla poltrona davanti alla mia (creando una scandalo che, evidentemente, ancora turba il sonno di qualcuno) si evidenziava la mia “spocchia” il radicalchicchismo, i salotti, i Parioli, il Rolex, il cachemire… il solito repertorio di paccottiglia ideologica di cui, sinceramente, non sento il bisogno di occuparmi. Anche perché sono convinta che l’offesa rituale ha una sua curva di esistenza che termina, ogni volta, nell’autodistruzione. Come ogni liturgia mal interpretata, si dissecca in una filastrocca senza senso,
Piuttosto, facendomi largo nel letame, parlerei della questione del dito e la luna. Molti mi accusano di aver evidenziato, di quell’episodio, la cosa meno importante, dimostrando la mia miopia e la mia incapacità di leggere la realtà. Ai ditalunisti della mia timeline, che sono moltissimi, voglio dire che il modo in cui Simone si esprime non è affatto un corollario, ma il centro della questione. Infatti – e in questo tiro dentro anche i formacontenutisti (a loro volta tantissimi tra i miei insultatori) – non c’è alcuna differenza tra il modo in cui Simone parla e quello che dice. La sua forza, o la sua debolezza, sta infatti in quella lingua stilizzata, gergale. Che tutti riconoscono come sorgiva ed efficace e a me sembra invece pericolosa, una gabbia. Le persone come Simone devono avere la possibilità di diventare tutto quello che desiderano, e per questa ragione mi batto nei modi che ho a disposizione.
Oppure vogliamo allevare una generazione di rapper, trapper, uomini e donne che fanno hip hop? Tutti cantanti, musicisti, attori, poeti, tutti Totò, Gioacchino Belli, De Filippo? Per rassicurarmi sul fatto che Simone conosce anche l’italiano, è addirittura intervenuto il suo professore, allegando voti e risultati. Se lui ha parlato in quel modo, dicono tutti, è perché si è adeguato all’interlocutore, cioè alle bestie ignoranti di CasaPound. Mi spiace, ma questo proprio no. Persino uno scrittore italiano mi ha spiegato che bisogna usare il dialetto, e quella postura, perché se non gli parli così quelli ti spaccano la testa. Senza tirar dentro Pasolini o Gramsci, lasciamo stare anche Gadda e Umberto Eco citati a caso, siamo tutti cresciuti guardando i film di Nanni Moretti: almeno quello. Siamo talmente inebetiti da non riuscire più neanche a dire che per combattere i bruti servono parole sublimi?
Da giorni mi viene chiesto di scusarmi, di ammettere di aver detto una cazzata. Come se la questione fosse questa: poter sventolare l’abiura firmata, gettarla danzando nella bocca schiumante di rabbia dell’inquisitore. Rivendico invece la possibilità di ragionare in maniera complicata, antipatica, fastidiosa. Rivendico le parole violente, l’ostinazione, il disagio. Rivendico persino la possibilità di dire cose sbagliate, o che sembrano sbagliate appena dette e forse, tra un po’, saranno lette in un altro modo. Questo sento di dover fare e questo continuerò a fare.
Chiudo con le parole che il rabbino scrive a Philip Roth in occasione della pubblicazione sul New Yorker del racconto “Difensore della fede”, per il quale lo scrittore fu accusato di antisemitismo. Sostiene il rabbino che “su certi argomenti non bisogna scrivere, che certi argomenti non vanno portati all’attenzione dell’opinione pubblica, perché altrimenti potrebbero essere fraintesi da persone deboli di mente e istintivamente maldisposte. In tal modo” qui è Philip Roth che parla “permette ai maldisposti e ai deboli di mente di essere loro a stabilire se e come si può parlare di certi argomenti. Questo non è combattere l’antisemitismo, è sottomettersi all’antisemitismo: sottomettersi a una limitazione della consapevolezza e della comunicazione, perché essere consapevoli ed essere schietti sarebbe troppo rischioso”. Conto fino a tre e poi indigniamoci tutti insieme per il termine “intellettuale” usato all’inizio di questo articolo.
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