Di che cosa parliamo quando parliamo di “Arancia meccanica a Manduria”

Antonio Gurrado

Burgess, Kubrick e il male che siamo indotti a compiere

Arancia meccanica a Viterbo, Arancia meccanica a Manduria. I recenti casi di cronaca dello stupro di gruppo, in cui sarebbero coinvolti due esponenti laziali di CasaPound, e della baby gang pugliese, che ha picchiato a morte un anziano disabile, sono stati inevitabilmente accostati al romanzo del 1962 di Anthony Burgess, tanto più ora che dalle sue carte postume emerge un seguito intitolato “The Clockwork Condition”, “La condizione meccanica”. L’accostamento è facile ma forse più ispirato dal film di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo nel 1971, che diverge per un dettaglio cruciale: la scena finale non corrisponde all’ultimo capitolo del testo pubblicato. Kubrick infatti conclude mostrando il protagonista Alex che, pur sottoposto a un crudo trattamento antiviolenza, è pronto a ricominciare come se nulla fosse e dichiara: “Ero perfettamente guarito”. Burgess invece aveva aggiunto a questa scena pagine in cui, dopo un salto temporale, Alex ormai adulto ha messo la testa a posto e rinunciato all’ultraviolenza come a un balocco infantile.

 

La differenza è sostanziale poiché determina il modo in cui noi, tramite l’occhio del regista o dell’autore, scegliamo di guardare alla violenza giovanile oggi. Se siamo kubrickiani, la storia di Alex e dei suoi drughi verte sull’ultraviolenza fine a se stessa, praticata per noia (come è stato detto riguardo al gruppo di Manduria) soprattutto nelle scene in cui picchiano a morte il barbone ubriaco o violentano la donna nella casa di campagna. Le somiglianze con l’attualità sono rimarchevoli ma bisogna scavare più a fondo: se siamo invece burgessiani, infatti, la storia diventa un interrogativo sul trattamento con cui Alex viene neutralizzato. È giusto, pur di debellare il male, privare un uomo della libera scelta e imporgli meccanicamente di provare repulsione ogni volta che sente insorgere istinti violenti nell’animo? Burgess risponde che non è giusto; infatti Alex guarisce non quando viene curato (il film mostra plasticamente la ricaduta) bensì quando cresce assumendosi le proprie responsabilità di individuo, le cui colpe e la cui innocenza non dipendono dalla società o dalla noia o dall’esempio altrui.

 

L’equivoco in realtà è poco filosofico anzi nasce da un misfatto editoriale: in America, il romanzo di Burgess venne pubblicato monco del finale sul ravvedimento e così giunse nelle mani di Kubrick, che restò talmente spaventato da ciò che aveva filmato da impedirne la circolazione fino alla propria morte: le prime proiezioni avevano scatenato la proliferazione di imitatori di Alex e compagnia. Il testo inedito di Burgess (che va atteso con curiosità non priva di scetticismo: l’autore era un grafomane seriale, se scartava qualcosa proprio non era convinto) pare si interroghi sugli effetti morali del film di Kubrick e nuovamente incentri la propria riflessione sulla meccanicità con cui l’uomo è indotto a compiere il male o il bene. Questa meccanicità preoccupava Burgess più della violenza in sé e dovrebbe preoccupare anche noi.

 

L’automatismo con cui, ogni volta che la cronaca ci pone di fronte a questi atti malvagi, li cataloghiamo con etichette impolverate (“il branco”, “la baby gang”, “Arancia meccanica”), c’interroghiamo con stanca retorica e ci ripromettiamo inorriditi che non accadrà più, è un tentativo di estirpare il male con la stessa artificiosità del trattamento di Alex, cioè senza accettare che sia una parte integrante dell’animo con cui ognuno deve combattere quotidianamente per conto proprio. Nel frattempo tuttavia fomentiamo l’Alex in noi stessi ritenendoci superiori a ogni legge morale assoluta (Burgess spiega espressamente che è un nome con l’alfa privativo: a-lex, senza legge) e costruiamo i nostri giudizi di valore su questa preminenza dell’individualismo e del relativo, salvo poi scandalizzarci quando i più cattivi esagerano. E’ per questo che di volta in volta, dopo essere inorriditi di fronte alle cronache più atroci, ci convinciamo di essere perfettamente guariti mentre non lo siamo mai.