Stacanovisti della notifica
Perché siamo tutti condannati a essere spie, in questa vita che è un pendolo tra online e offline
Perdere l’amore, quando si fa sera, quando tra i capelli un po’ di argento li colora e, come se non bastasse, lui o lei o * non ti ha guardato la storia di Instagram, che gli/le era implicitamente dedicata. E’ la prova definitiva, la verità incontrovertibile, e quando la annunci alle tue amiche – “non mi ha neanche guardato la storia!” – persino loro, che pure sono ottimiste irragionevoli e più controintuitive degli aeroporti, ti dicono “Ah”, e ordinano un altro drink, e dentro agli occhi hanno un telegramma di condoglianze. A volte aggiungono “però le mie le ha guardate”, e allora tu pensi che sia troppo grande Instagram per due che come voi non sperano però si stan cercando e quindi è il caso che tu ti metta a rintracciare le sue tracce sui profili altrui, perché se lui guarda le storie delle tue amiche ma non le tue significa che vorrebbe fare a meno di te ma non ci riesce, pertanto ti cerca dove crede che tu non possa arrivare, e insomma vai sul pratico e chiedi alle tue amiche che, d’ora in avanti, tutte le volte che faranno delle storie Instagram, dovranno avvisarti se lui le guarda o no, e dopo quanto tempo dalla pubblicazione. Abbiamo tutti almeno una visualizzazione da piangere. Siamo messi tutti così. E non è che una piccola parte della lunga, tossica strategia del controllo a cui siamo indotti dai social network che ci portiamo in tasca, e non dite che siete immuni, che questa è roba per ragazzini e non vi riguarda, non fate come quei titoli ipocriti del Wall Street Journal sulla dipendenza da tutto (Facebook, Instagram, Telegram, TikTok, WhatsApp, persino posta elettronica), che finiscono sempre in “Teen’s addiction”. “Mi stai dicendo che mia figlia sa che le guardo le storie? C’è un modo per fare in modo che non lo sappia?”: quante volte lo avete detto a qualche collega più giovane, a un nipote che può capirvi e che chiamate quando vi s’impalla tutto, a un genitore più agile di voi, di quelli che si presentano al ricevimento insegnanti con le scarpe da ginnastica, a volte anche sporche d’erba.
Alla notifica lavoriamo di più per lavorare tutti da molti anni, è il nostro secondo impiego, per alcuni addirittura il primo
Non che nell’a.I., il tempo prima di Instagram, non avessimo a disposizione strumenti che facessero di noi forme uniche della continuità nello spazio, capaci di esserci senza esserci, monitorare da invisibili il visibile e il suo contrario, l’esplicito e il subliminale, il reale e il pensato, il fenomeno e il noumeno, il voluto e l’involontario. Alla notifica lavoriamo di più per lavorare tutti da molti anni, è il nostro secondo impiego, per alcuni persino il primo. Apriamo gli occhi e pensiamo e abbiamo in mente lei, la notifica, in tutte le sue forme. Primo: la spunta blu di WhatsApp, che non solo ci dice se un nostro messaggio è stato letto, ma pure quando, e così diventa importante il tempo che passa dalla ricezione alla risposta (ci importa la risposta? No, certo che no: noi vogliamo essere ascoltati e basta, chissenefrega dell’interazione, altrimenti perché non telefoniamo più, e mandiamo, invece, messaggi vocali, a volte di dieci minuti, la maggior parte delle volte per dire quanto siamo infelici senza che nessuno possa interromperci con la sua infelicità, la sua lagna, la sua doglianza?). Secondo: l’ultimo accesso della persona con cui comunichiamo, o con cui non comunichiamo più e che però vogliamo controllare, e sulla cui vita senza di noi fantastichiamo drammaticamente (s’è connesso alle tre di notte, questo mascalzone, ma con chi chatta, di notte, non farà mica sexting, e con chi poi?!). Terzo: l’avvenuta o non avvenuta consegna di una mail di lavoro, di modo da dedurre, del tutto arbitrariamente, che il nostro capo o un nostro collega ci considerano e stimano in maniera inversamente proporzionale al tempo che ci mettono a risponderci. Quarto: i “mi piace” agli status di Facebook, i retweet ai nostri tweet, che da qualche tempo ci mostrano anche da quante persone sono stati letti, persone tuttavia coperte dall’anonimato, che però vorremmo tantissimo sapere chi sono e interrogare sulla ragione per cui, sebbene ci leggano, non ci condividano, ma com’è possibile. Quinto: le visualizzazioni delle storie su Instagram. Non tutti lo sanno (a parte qualche genitore e qualche maschio ultratrentenne), ma sotto le Instagram Story s’apre un elenco di tutti gli utenti che le hanno viste, serviti in un ordine che è oggetto di studio e ossessione e nevrosi: come mai ai primi tre posti ci sono quasi sempre gli stessi visualizzatori? Può significare che sono i primi a vederle, e che quindi ci tampinano. Può significare che siamo noi a tampinare loro. Può significare che il tampinamento è reciproco e quindi lo è anche l’amore, e ci tiene a mostrarcelo l’algoritmo, che ha fatto anche cose buone (avremmo mai comprato quel prezioso aspira punti neri, se non ne avessimo trovato l’annuncio nello spam – che comunque scrolliamo sempre, fosse mai che ci troviamo la risposta a quella mail che scrivemmo al nostro ex cinque anni fa – dopo aver comprato una maschera purificante coreana su Amazon?). Quanti significati, e tutti da scegliere, che bellezza, che portentoso trionfo del discrezionale sul reale.
Instagram, che sa bene in che stato ci ha ridotti, non ha mai spiegato a quali regole obbediscano le cronologie e gli ordini delle visualizzazioni, così che noi possiamo continuare a baloccarci nelle ipotesi e ad accoccolarci in quelle che più ci confortano. Per i non peripatetici, che sono come noi ma non parlano con noi e si sentono meglio, esistono applicazioni che consentono di “spiare Instagram”, e il sacerdote digitale Aranzulla ne ha scritto approfonditamente: i più hacker di voi possono persino arrivare a controllare le visualizzazioni delle storie altrui, mentre i più imbranati, gli analogici dentro, possono con non troppa difficoltà scaricare Cerberus, Story Saver for Instagram e Story Reposter e usarle per guardare le storie degli altri senza lasciare traccia della propria visualizzazione, godendo del medesimo anonimato che Facebook assicura (nessun utente, anche scafato, è attualmente capace di risalire a chi visita il profilo di chi, e quante volte al giorno).
La scorsa settimana, Zuckerberg ha fatto sapere che Facebook ha a cuore la privacy dei suoi utenti e quindi molto presto attiverà serratissimi controlli che la tutelino, sebbene “molte persone non ritengono che Facebook avrebbe mai potuto voler costruire questo genere di piattaforma basata sulla privacy”. Abbiamo tutti reagito simulando sollievo, tuttavia tremando nascostamente al pensiero che il Facebook di domani potrebbe rendere difficoltose se non impossibili le nostre indagini su chi va a letto con il nostro uomo (non importa se in carica o ex), sul tempo che chi ci ha lasciato trascorre su Messenger a chattare con qualcuno che non siamo noi, sulle cene a cui non veniamo invitati, le feste a nostra insaputa, la situazione reddituale dei nostri ex compagni di scuola.
Mark, ripensa al tuo contrordine, non puoi averci trasformati in spie, in genitori perenni, in segugi privati, e adesso pretendere di fondare, con noi, la prima razza umana che non ficca il naso negli affari degli altri. Su, sii buono, sii umano, non siamo quelli che stanno ore e ore su WhatsApp, a contare il tempo che ci stanno gli altri, per poi incastrarli: “Ieri sera hai parlato tre ore con qualcuno, ti ho visto, sei rimasto online dalle 20.00 alle 23.00, ma non andavi in piscina al giovedì?”, “Cosa ci facevi attivo su Instagram, alle 4 del mattino, sei forse rimasto disoccupato, vuoi trasformare la nostra vita nell’Avversario di Carrère?”, “Volevi dirmi qualcosa, l’altro giorno? Ho visto che digitavi, e però non mi è mai arrivato niente” (disconnettetevi sempre quando preparate missive, specie se non siete certi di inviarle: non illudete i destinatari, che potrebbero aver visto l’infernale “sta scrivendo”, e potrebbero quindi sapere che avete provato a contattarli).
La nostra vita prima pendolava tra dolore e noia, poi tra ti telefono e no io non cedo per prima, e adesso tra online e offline.
L’inferno sono i social degli altri e non tanto perché ci danno in pasto vite irraggiungibili, finte e perfettamente recitate (invidio dunque sono, ha scritto Valentina Farinaccio sulla Repubblica), quanto perché ci mettono continuamente in contatto con il punto cruciale dell’abbandono: non siamo indispensabili, la vita di quelli che ci hanno giurato indissolubilità in salute e in malattia continua anche senza di noi, e noi ce l’avremo per sempre davanti sotto forma di pallino verde che brilla. Una quotidiana guerra contro “il cliente da lei chiamato è impegnato in un’altra conversazione – ma se la vuole sapere tutta è impegnato anche in un’altra relazione”. E’ un disastro.
Jordan Shapiro ha pubblicato un libro che si chiama “Il metodo per crescere bambini in un mondo digitale” e ha detto a Natural Style che dobbiamo stare tranquilli perché “i giovani non si stanno perdendo nei dispositivi, ma si stanno trovando”, e ha ragione: i soli a temere gli effetti nefasti della reperibilità social siamo noi adulti avviati all’anzianità, che naturalmente esorcizziamo la tragedia assoluta della nostra dipendenza da notifica proiettandola su quelli che hanno vent’anni meno di noi e che non si sognerebbero di cercare un ex neanche sotto tortura. Shapiro ha anche detto che “i ragazzi saranno in grado di creare nuovi modelli di cittadinanza globale, connessione e comunità, a patto che insegniamo loro a vedere le nuove tecnologie come qualcosa di potente, positivo e creativo”. Ma gentile Shapiro, per carità, non ci dia anche quest’onere, non vede che neanche un gruppo WhatsApp ci lascia incolumi, si figuri se siamo capaci di educare dei minorenni a tenere la giusta distanza dalla vita espressa e da quella soltanto comunicata. Gentile Shapiro, se può, ci dica come possiamo salvarci noi, ché ai ragazzini ci pensa la gioventù, con il suo tutto o quasi tutto da sbagliare.
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