Perché i selfie e la realtà aumentata non sono nuovi come pensiamo
Intervista ad Andrea Pinotti, studioso di Estetica dell'università degli Studi di Milano
Milano. I visori a realtà aumentata? “Già nel mito di Narciso”. I selfie? “Nulla di nuovo, basta guardare le impronte nelle grotte di Lascaux”. Nel sottotetto del dipartimento di Filosofia della Statale di Milano lo scorso marzo è stata ufficializzata la vincita di una borsa dell’European Research Council di oltre 2 milioni e 300mila euro. Andrà a un gruppo di undici filosofi, giuristi e informatici che studieranno gli ambienti virtuali da un punto di vista storico, teorico e pratico, guidati dal professore di Estetica Andrea Pinotti. Riconoscere persino tra selfie e impronte di Lascaux un’“aria di famiglia”, come la chiama lui citando Wittgenstein, all’inizio sembra una boutade sull’onda dall’entusiasmo. “Perché no?”, dice invece Pinotti, “è come se l’uomo del Paleolitico cercasse di trasferire la propria identità sulla roccia per poi osservarla da fuori: un autoritratto di mano, chi l’ha detto che gli autoritratti devono essere solo di faccia? Lo stesso si fa con i selfie”.
Il suo metodo è quello dello storico dell’arte Aby Warburg, che Pinotti studia da sempre, il quale di fronte alla “Colazione sull’erba” di Manet (foto sotto) spostò l’attenzione dall’apparentemente scandalosa novità dell’opera a ciò che invece quella riproponeva di identico rispetto al passato. I tre personaggi al centro erano gli stessi rappresentati da Marcantonio Raimondi (foto sotto), e prima di lui da Raffaello, che a sua volta li aveva copiati da un sarcofago ellenistico conservato a Villa Medici. Ad aver scandalizzato la giuria del Salon nel 1863, dimostrò, era un impianto figurativo che attraversava la storia dell’arte da secoli con pochissime variazioni.
Colazione sull’erba di Édouard Manet
Giudizio di Paride di Marcantonio Raimondi
Un contenuto identico infinitamente modificato, la copia del sempre diverso: con un approccio warburghiano le novità sono sempre variazioni sul tema. E per capirle bisogna prima aver riconosciuto il tema sottostante rimasto immutato, ciò che sembra nuovo ma in realtà ha solo cambiato forma o contesto. Che si tratti di tre figure sedute sull’erba o dei cambiamenti portati dalle tecnologie non cambia molto. “Il desiderio di immergersi in un’immagine, oggi soddisfatto dalla realtà aumentata, è antico e attestato da diverse leggende e dal mito di Narciso, che si tuffa nella sua stessa figura. Una volta concepita la soglia dell’immagine come varcabile, ci si è cominciati ad aspettare che qualcosa da lì uscisse anche, come succede nella ‘Rosa purpurea del Cairo’ o in ‘Videodrome’”, spiega Pinotti. “La novità del visore a 360° è che non è più possibile distogliere lo sguardo perché l’immagine è ovunque, mentre al cinema puoi benissimo guardare l’orologio o la luce della toilette. Con questo strumento viene portata alle estreme conseguenze l’ambientalizzazione dell’immagine: non più come oggetto separato e incorniciato che vive in un suo mondo, ma ambiente che si pone in continuità con il nostro spazio-tempo e offre possibilità di azione e interazione reali”. Le nuove domande da porsi sono quindi di natura politica e giuridica, come già accaduto in Spagna nel 2015, quando per protestare contro una legge che vietava di manifestare davanti al Parlamento, scesero in piazza duemila ologrammi. Nessun legislatore aveva considerato prima l’idea di dover considerare le proiezioni tridimensionali dei cittadini.
Il problema, spiega Pinotti, è che con il virtuale sta succedendo più o meno quello che Walter Benjamin denunciò essere accaduto con la fotografia: “Tutti discutevano se fosse o meno considerabile un’arte e nessuno si accorse che la fotografia aveva già cambiato i confini stessi dell’arte, trasformando irreversibilmente il nostro modo di guardare a essa. Non era già più possibile vedere la Gioconda come un viaggiatore del Settecento, perché era diventata infinitamente riproducibile e manipolabile su cartoline, cravatte, puzzle”. Oggi la stessa miopia di analisi invalida le letture di tecnofobi e tecnoentusiasti: gli stolti guardano la luna, ogni notte illuminata in modo diverso ma che mostra sempre la stessa faccia, e nessuno bada al dito, cioè ai sensi, che sono invece ciò da cui uno studioso di Estetica parte per ragionare sul virtuale: “Si sente dire che la realtà virtuale è smaterializzata, intangibile. Ma la materia ha solo cambiato casa, non è scomparsa: la memoria degli smartphone a un certo punto “si riempie”, un server si può rompere e anche un cloud ha la sua sede fisica. Se metti una vecchia fotografia in mano a un bambino, cercherà di allargarla con le dita: la verità è che non si è mai visto un mondo più tattile di quello digitale”.
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