Il mito delle “città felici” in un libro (liberale) che parla di noi fra trent'anni
Per Robin Rivaton "la vita nelle metropoli migliora in maniera considerevole. Domani, senza le macchine, saranno dei posti ancor più piacevoli"
Parigi. Attorno alla Tour Eiffel, nel 2024, sorgerà “il più grande giardino della città”, firmato dalla paesaggista americana Kathryn Gustafson, che ha vinto il concorso “Grand site Tour Eiffel: découvrir, approcher, visiter” lanciato dal comune di Parigi nel gennaio 2018. “Sarà un giardino straordinario dove si sentirà il canto degli uccelli”, ha dichiarato la Gustafson, una promenade vegetalizzata che si estenderà su 54 ettari. La notizia si inserisce nel vasto piano di riorganizzazione urbana verso una Parigi più verde promosso dal sindaco socialista Anne Hidalgo e in un dibattito più ampio sulle metropoli del futuro che Robin Rivaton, giovane pensatore liberale con un’esperienza da consigliere regionale dell’Île-de-France accanto alla presidente Valérie Pecrésse, ha portato al centro dell’attenzione mediatica con il suo ultimo saggio: “La ville pour tous”, uscito per le éditions de l’Observatoire. La concentrazione delle persone, così come delle ricchezze e dei capitali nelle grandi città, non è soltanto un fenomeno giacobino, eminentemente francese, ma una direzione mondiale che porterà due terzi degli esseri umani, all’orizzonte 2050, a vivere nelle megalopoli del futuro (nel 1900, uno su dieci abitava in città). L’urbanizzazione, anzi la metropolizzazione, come preferisce chiamarla Rivaton, è ineluttabile, ma a differenza di un certo discorso dominante l’economista sostiene che le capitali del futuro, ma anche i comuni di media grandezza, saranno delle “villes heureuses”, delle città felici, dove le persone troveranno il loro paradiso bucolico, ecosostenibile e green, che fino alla fine del Novecento era considerato esclusiva delle campagne e dei territori profondi.
Di quel mondo nascosto, fatto di paesi sperduti e dimenticati dalla globalizzazione, non ha senso avere nostalgia, dice Rivaton, basta con il “mito del paesello” perché la metropolizzazione può essere altrettanto felice e ugualmente dolce, a condizione però di favorire la mobilità delle persone che faticano a raggiungere i grandi centri urbani e di lottare contro l’esplosione del prezzo dell’immobiliare che sta provocando una diaspora interna. “La miglior soluzione è permettere a sempre più persone di accedere alle città dinamiche”, ha detto al Point Robin Rivaton, dove per città dinamiche, in Francia, si intende non solo Parigi, ma anche Bordeaux, Lione, Nizza, centri urbani che si stanno trasformando in metropoli, attraggono la maggior parte degli investimenti e concentrano i migliori poli accademici e di ricerca. Oggi, spiega l’economista, la letteratura del Ventesimo secolo che dipingeva le città come sporche e corrotte in contrasto con le campagne pulite e incontaminate, è distante anni luce, perché è in corso un “grand renversement”, un’inversione spettacolare. “Le città erano inquinate, e ora diventano verdi. La vita in città comporta un minor consumo di energia”, osserva Rivaton, prima di aggiungere: “Oggi si punta il dito contro le zone che si trovano lontano dalle città e che un tempo erano considerate più sane e rispettose dell’ambiente. La vita nelle metropoli, invece, migliora in maniera considerevole. Domani, senza le macchine, saranno dei posti ancor più piacevoli. Si avranno tutti i vantaggi economici e educativi, e in più non ci sarà né inquinamento, né rumore”.
E’ innegabile, come spiega l’autore, che Parigi e le altre grandi città francesi, ma anche europee come Milano, Berlino e Amsterdam, siano diventati dei posti più sexy per vivere rispetto a vent’anni fa, dove lo sviluppo della micromobilità dolce – monopattini elettrici e bike sharing – si sposa con progetti di edifici residenziali ecosostenibili, e dove il verde primeggia sul grigio del cemento. Tuttavia, il rischio maggiore è quello di provocare una frattura insanabile tra il mondo metropolitano e il mondo periferico, di aggravare il sentimento di esclusione provato da chi abita lontano dai centri urbani e non può accedere a tutti quei servizi della new economy di cui beneficiano i cittadini inurbati. “Al di là delle diseguaglianze materiali, ciò a cui assistiamo è l’emergere di due mondi con divergenze culturali e modi di consumo diversi. Questo genera sempre più rabbia in chi ne è escluso. Non poter appartenere a un mondo che viene descritto come la nuova frontiera del progresso e della civiltà (…) crea una grande frustrazione”, dice Rivaton. La principale sfida sarà avvicinare questi due mondi e lottare contro quel sentimento di isolamento che Rivaton considera il principale “motore del populismo”.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio