Per un po' al Plaza abitarono pure i Savoia, che da lì guardavano il carnevale sul Corso, mentre si cambiavano le serrature al Quirinale (Foto presa dal sito del Plaza)

Tutte le vite del Plaza

Michele Masneri

I suoi saloni di un fasto un po’ pretesco. I marmi, i broccati, “il tappeto più lungo di Roma”. Qui, racconta lo storico portiere Gigino Esposito, hanno abitato Mascagni e De Michelis. Oggi gran turismo orientale

Certo c’è la fidanzata del premier, o presunta tale, Olivia Paladino, che sarebbe appunto compagna di Giuseppe Conte, e certo il first suocero, Cesare Paladino, ne è proprietario: e questo non fa che accrescere frissons di curiosità e contemporaneità: e certo vi visse e operò Gianni De Michelis, appena scomparso; insomma tanto basterebbe per stilare delle classifiche tra un “prima” e un “dopo”, e forse “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma l’hotel Plaza, il Plaza romano, non quello newyorchese, è, se non autobiografia della Repubblica, almeno dell’hotellerie. Luogo della storia, almeno di tante altre storie. C’è quella che lo inchioda alla contemporaneità, ed ecco allora l’imprenditore-suocero, questo Cesare Paladino, indagato ultimamente perché si sarebbe scordato di corrispondere alle casse pubbliche gli introiti delle tasse di soggiorno. E la figlia, la première fiancée Olivia, bionda erede sua e di un’attrice svedese in voga negli anni Settanta, dal nome farmaceutico Ewa Aulin, la figlia è “editorial manager” del glorioso albergone di via del Corso, cinquestelle dorate conficcate nel grandioso portale marmoreo. Ma chissà se sarà vero, in epoche di fidanzati virtuali, e “posati” con baci di scena.

 

Il Plaza è misterioso, si scrive un’email, e non risponde nessuno; si va, dunque. Superata la porta rotante una gentile ma inflessibile concierge dice che il direttore è in riunione, “se possibile fissare appuntamento”, si lascia un biglietto e però non richiama nessuno. Il proprietario, alla Federalberghi lo vedon poco, dicono, e nei saloni fastosi si percepisce che questo Plaza è fastoso ma di fasto insieme allegro, fuorimoda e un po’ pretesco, coi broccati, e il “tappeto più lungo di Roma” come narra la leggenda.

 

Il proprietario è Cesare Paladino. E la figlia, la première fiancée Olivia, è “editorial manager” del glorioso albergone 

Nelle memorie, uno slittamento. Tutti si confondono. “Ah, quanti ricordi”, dice Claudio Martelli al telefono. “Ci ho scritto un capitolo del mio libro”. Il riferimento è al notevole “Ricordati di vivere” uscito qualche anno fa, il biopic martelliano. Però, onorevole, quello è il Raphael. “Ah! Allora non so niente, pazienza, arrivederci”. Anche un altro “top” socialista sta per abbandonarsi al flusso di coscienza: “Ah, quanti ricordi”, “ci ho passato una vita”, addirittura; ma poi, mentre i ricordi li dipana, cresce il sospetto, e ci si permette di dire: parliamo del Plaza; “ah, no, lì non ci son mai stato, mi scusi”. Confusioni, rimozioni, si capisce, e però il Plaza è chiaro che è hotel residuale almeno nell’epos socialista rispetto all’hotel delle monetine.

 

Differenze alberghiere, tra i due compound distanti poche centinaia di metri. Certo c’è quella dimensione comunque di precarietà, di provvisorietà giovane e roboante, di una classe dirigente nuova che si prese l’Italia e scelse la vita d’hotel. Asciugamani buttati a terra. Forse l’idea e premonizione che tutto sarebbe stato provvisorio? Però al Plaza i ricordi non son stati codificati, manca lo storytelling, e non c’è l’epos, l’epos martelliano di quando lui tornava a tarda ora e “Bettino sbrigava metà del lavoro. A colazione, a pranzo e prima di cena, riceveva compagni, amici, conoscenti e sconosciuti nella sua camera che, per successivi allargamenti, diventerà quasi un loft, ma che dico loft, un museo, un magazzino di carte e cianfrusaglie, quadri e statue, souvenir di mezzo mondo e di una vita vissuta di corsa”.

 

Nessuno invece lo vuole ricordare, questo Plaza, ma dopo giorni di indagini e misteri, quando si sta per gettare la spugna, ecco che finalmente si riesce a rintracciare Luigi Esposito, leggendario concierge, dal 1943 agli anni Novanta. Lo si stana in un bar di Montesacro. Gagliardo novantaduenne, berretto e foulard, lo spirito di questa categoria speciale tra diplomatici e spie che son state le vite da grand hotel. “Arrivai al Plaza a sedici anni, da Napoli, dove le bombe ci avevano buttato giù casa, e mia madre mi disse: vai a Roma, almeno studi”. Invece passa da via del Corso e legge un annuncio, “cercasi ragazzo”. Entra come addetto alla distribuzione dei giornali, e ne uscirà cinquant’anni dopo.

 

La morte del magnate John Pierpont Morgan, che a Roma veniva a curarsi certe depressioni. La funzione funebre nella hall 

 “Mi dicono: non dimenticare il maestro. Che ieri non ha avuto il suo quotidiano”. Il maestro è Pietro Mascagni, “che avevo già visto dirigere a Napoli, dove vendevo bibite e frutta in teatro. Il maestro dirigeva in camicia nera e fascia, un giorno a teatro la fascia gli cadde e gliela raccolsi. Quando me lo ritrovai in camera – la 114, al primo piano – lui finse gentilmente di ricordarsi”. Mascagni vive “molto bianco di capelli, con una moglie che si dava la cipria sul cranio forse a seguito di una operazione che l’aveva lasciata menomata”. Sta al Plaza dal ’27 al ’45, anno della morte. Il musicista della “Cavalleria rusticana” oggi ha un curioso busto in facciata, come una faccia che salta fuori da una finestra, gridando “aiuto!”, in attesa dei vigili del fuoco, come un coraggioso di qualche giorno fa in un incendio all’Appio, che se n’è stato lì buono buono ad aspettare i pompieri. “Abitò, visse e operò e passò alla immortalità”, dice la targa, tra le bandiere italiana, europea e giallorossa che sventolano di fronte alla chiesa di San Carlo al Corso. E giocò a carte. “Io gli portavo dei partner per la scopa, scelti tra i vetturini che passavano da via del Corso, ‘la vuoi fa’ ’na partita col Maestro?’”, ricorda Esposito. Il maestro che dirigeva in camicia nera ebbe la sventura di perire a fascismo avvenuto, dunque “niente funerali di stato, anzi molto in sordina, i francesi che stazionavano nell’hotel lo lasciarono restare fino agli ultimi giorni e acconsentirono a una cerimonia silenziosa lì di fronte, a San Carlo al Corso. Ma Beniamino Gigli, che pure abitava in hotel, mi disse: vai alla scuola di musica qui all’angolo; portai qualche ragazzino e gli suonammo un po’ di ‘Cavalleria rusticana’, era tutto quello che potemmo fare”.

  

Imitatori e mafiosi. Ciancimino ai domiciliari nella 401. Voci di un “patto del Plaza”, a rinsaldare le direzioni dell’informazione Rai

Meglio andò tanto tempo prima – Esposito non c’era ancora – con le esequie d’un altro illustre ospite, John Pierpont Morgan, eminente baron robber e finanziere, proprietario tra l’altro del Titanic, che a Roma veniva spesso, a curarsi certe depressioni (dovevano essere altri tempi, quando Roma era antidepressiva), e nel ’13 arrivò e prese come al solito la suite reale, 500 dollari al giorno, e la consueta ressa di antiquari e piazzisti nella hall (Morgan come tutti gli americani liquidi dell’epoca era collezionista-maniaco). Sbarca a Roma dopo una tappa in Egitto, dove mangia delle porcherie, passa la Pasqua tra maldipancia e certi “breakdown”, riceve messaggi dal Papa e dal Re d’Italia, ma sta male, male di testa e di stomaco, assistito dal professor Giuseppe Bastianelli, eminente gastroenterologo romano, e dal dottor Allen Starr, specialista di nervi newyorchese. Si progetta un treno privato per portarlo a Parigi o Londra perché il frastuono di via del Corso lo fa soffrire, ma non è trasportabile. Alla morte, 4 mila lettere di condoglianze, la Borsa di New York chiusa per due ore. Scrive il Messaggero: la funzione nella hall del Plaza; un picchetto militare; in treno a Parigi, poi a Le Havre; altri onori armati (Le Figaro: “Nessun americano ha ricevuto dall’Europa altrettanti segni di rispetto, nessuno avrebbe meritato simile omaggio”).

 

Ma i ricordi più gloriosi dell’hotel sono legati a Gianni De Michelis, che qui visse e amò. Il politico italiano con più tentativi di imitazione (dell’epoca). “Il Doge”, “Falstaff”, “Big Gianni”, “Ciccio Ballerino”, i soprannomi. La testa più brillante del Psi sotto quei capelli, il me-me-me lagunare: “Io sono l’ unico ministro in grado di misurarsi davvero con i problemi dell’ economia”. “Io invidioso”, “io dispersivo”, “io timido”, “io veneziano”, “io protestante”, “io benestante a reddito zero”, “io argonauta ” “io planetario”, “io single”, “io vorace quando mangio e quando guido”, “io, per i miei gusti, sono diventato fin troppo notabile” (1987). Fino a “io mi sono molto simpatico”. I capelli, come scrisse Filippo Ceccarelli sulla Stampa, usati anche dall’acqua Ferrarelle per il trittico consueto (liscia gassata o…).

  

 

“Venne la prima volta negli anni Ottanta insieme al sindaco di Venezia, e mi si attaccò come un francobollo”, e non è vanteria d’Esposito, perché poi Gigino fu visto ai congressi, alle feste, alle riunioni, sempre appresso al suo De Michelis. Valletto tipo “Downton Abbey”, smistava visite, corrispondenze, “lo portavo a farsi i vestiti da Caraceni a via Veneto, gli facevo venire il barbiere”. Talmente intimo che a un certo punto fu arrestato anche lui, per la proprietà transitiva, in quell’epoca gioiosa in cui si indagavano tutti, perché aveva custodito le “agende di De Michelis”, prima delle agende Borsellino. “Sì, le avevo, quelle agende, ma non c’era scritto niente. Solo cazzate”. Ma lui finisce tre mesi ai domiciliari, “grazie al fatto che avevo un problema alla prostata”.

“De Michelis Viveva nella 409-10, due stanze unite, una con salotto e una singola”. Disordine? “Un disastro”. Qui viveva e teneva corte, con la segretaria Barbara Ceolin, il segretario Giorgio Casadei (“Ma chi, quello del ballo liscio?”, chiese una volta Andreotti), questuanti vari, ragazze in fiore. “Erano loro che gli si attaccavano”. Anche Lori del Santo stava al Plaza. “Amica del vecchio proprietario”, trattamenti di favore. Ah, se quel tappeto, il più lungo di Roma, potesse parlare. Intanto negli anni d’oro Gigino ha sul suo banco da concierge il telefono “direttamente collegato con la batteria del Viminale. Telefonava Cossiga, spesso, che andava a messa di fronte, alla chiesa di San Carlo, di cui era devoto. Mi fece anche commendatore. Quando te la vieni a prendere ’sta commenda?”, annuncia una volta nel telefono riservato, allegro. “Bettino invece mi chiamava il carbonaro”, e col Raphael si capisce che c’era “un po’ di rivalità”.

 

Un’altra manifestazione del karma manettaro del Plaza si ebbe il 17 giugno 1983 quando Enzo Tortora viene prelevato alle 4 di mattina dalla sua camera. “La 224, una singola, piccola. A volte prendeva anche una stanza senza bagno privato. Io quando vennero a prenderlo non c’ero perché staccavo alle nove di sera”. Tortora dal Plaza finì – in favore di telecamera – alla caserma di via in Selci, accusato d’essere spacciatore e camorrista dai tre tenori del pentitismo, Giovanni Pandico, scrivano del boss Raffaele Cutolo, Pasquale Barra, definito ” ‘o animale”, e Gianni Melluso, detto “il bello” (Camilla Cederna: “Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto”, ecco).

 

Un altro che finì a via in Selci fu l’imitatore di De Michelis, uno che ai tempi faceva “Crème Caramel”, una delle tante micidiali incarnazioni bagaglinesche; finì arrestato, raccontano le cronache dell’epoca, per problemi di droga. Era stato scelto da Pierfrancesco Pingitore per la somiglianza (peraltro assai vaga) con il politico socialista. Non gli portò bene. Mentre i capelli, di De Michelis, finirono poi in “Tutti dentro”, il film di Sordi con un giudice-creatura mitologica con la testa di un Di Pietro e i capelli di un De Michelis, e promette di non tagliarseli mai (e finisce malissimo).

 

Mentre di mafiosi veri l’hotel pure ne ebbe: don Vito Ciancimino vi restò a lungo, esiliato da Palermo e qui ai domiciliari. “Stava nella stanza 401, al quarto piano, e aveva l’interdizione di scendere nella hall, ma talvolta sgattaiolava da qualche corridoio”. Vi furono poi mafiosi cinematografici, con Francesco Rosi che vi girò alcune scene di “Dimenticare Palermo”.

  

Esposito valletto tipo “Downton Abbey” del ministro socialista. Il karma manettaro dell’hotel: nell’83 l’arresto di Tortora

Rispetto al Raphael insomma è chiaro, il Plaza ha storia più lunga, e quella socialista è solo una delle tante identità sue. Certo c’è quella politica, e pochi giorni ci sarebbe stato addirittura un “patto del Plaza”, a rinsaldare le direzioni dell’informazione Rai in vista delle europee. Secondo il sito Start Magazine, per la presentazione del volume “Sua maestà il Tg1. 10 direttori svelano 30 anni di segreti” scritto dalla giornalista Ida Peritore, si sarebbe stilato un patto per agevolare lo sbarco “dei leghisti sulle spiagge di viale Mazzini e di Saxa Rubra dopo il preventivato, ma ancora tutto da dimostrare, trionfo alle europee e la successiva e altrettanto tutta da confermare scalata di Palazzo Chigi”. E lì, si parva licet, bella foto del senatore Razzi in posa appoggiato all’incolpevole leone, lo storico leone del Canova che regge e fa la guardia allo scalone d’onore. Tra chirurghi cinesi e congressisti giapponesi (oggi infatti l’hotel Plaza, passati un po’ i fasti del passato, punta molto sul turismo orientale).

Ma non è che l’ennesima incarnazione, l’ennesima microstoria che si perde nelle macro che l’hotel di via del Corso, affogato tra i madonnari e i mutandari di H&M portano in quella viona. “Il Plaza”, già palazzo Lozzano, poi Grande Albergo Roma, infine “Plaza”, nacque come palazzo del conte Lozzano, conte banchiere, in quei tempi – ambigui – della questione romana. Per un po’ vi abitarono i Savoia, che da lì guardavano il carnevale sul Corso, mentre si cambiavano le serrature al Quirinale e le coabitazioni coi nuovi assetti e le due monarchie (Giovanni Lanza abitava lì dietro, calavano le burocrazie piemontesi fameliche di alloggi).

 

Anche la grandiosità della struttura risente della duplice natura, dell’imprendibile natura romana tra trono e altare, celebrità e Sua Maestà il Tg1. Vorrebbe esser lussuoso ma è lusso di sagrestia, d’apparato, come spesso a Roma; i pesanti broccati, i legni, gli orologi da stazione, affascinano soprattutto il nostalgico. Il salone enorme, muscoso, con lunette, fu inventato dall’archistar di Roma Nord Armando Brasini, l’inventore del barocchetto anni Trenta, del ponte Flaminio e della omonima villa a ponte Milvio, e poi tirato ulteriormente a lutto dal designer massimalista Renzo Mongiardino. Anche oggi, nonostante le terrazze assolate e la facciata allegra, il karma del Plaza è da subito grandioso-tenebroso. Misterico, ecco. Esposito promette da anni di raccontare finalmente tutto in un suo libro di memorie che dovrebbe chiamarsi: “Cercasi ragazzo”.

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