Che cosa ci raccontano le foto sui migranti
Le immagini che riguardano le migrazioni mostrano senza dubbio la verità, ma non tutta la realtà. L'opportunità di “raccontare una storia più grande”. Uno studio
La storia ci insegna che un’immagine può influenzare il modo in cui le persone percepiscono e interpretano un evento e persino indirizzare, in un verso o nell’altro, l’agenda politica di un paese. Ne è un esempio la fotografia scattata lungo le coste turche del corpo senza vita di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni che nel 2015, insieme alla sua famiglia, aveva tentato la traversata del Mediterraneo. Quell’unica immagine fu sufficiente a suscitare l’indignazione e la preoccupazione di tutto il mondo per la crisi dei rifugiati in Europa.
Ciò accadde perché le immagini ci colpiscono molto più delle parole e i motivi sono almeno due: il primo è che vengono elaborate più rapidamente di un testo scritto, suscitando una risposta emotiva spontanea e catturando la nostra attenzione. Il secondo motivo si spiega con la nostra tendenza a considerare la fotografia come più vicina alla verità rispetto ad altre forme di comunicazione. Come se la macchina fotografica fosse in grado di immortalare un frammento di realtà oggettiva, dimenticando che una foto è sempre inserita in un frame o cornice di significato, cioè è sempre il risultato di una scelta che porta un fotografo a decidere quali elementi di una scena includere o escludere e quale versione raccontare di una storia. Frame diversi raccontano uno stesso fatto proponendo interpretazioni diverse e, talvolta, generando differenti reazioni in chi le osserva. E questo vale tanto per chi scatta una foto quanto per i media che decidono quali immagini pubblicare.
Potremmo anche non aver mai letto un articolo sui processi migratori o sulle traversate nel Mediterraneo, ma con ogni probabilità almeno una volta ci sarà capitato di osservarne delle foto. Il loro effetto si è sedimentato – in modo più o meno consapevole – in ognuno di noi e ha in qualche modo contribuito a formare la nostra percezione dei fenomeni migratori di questi anni. Il professore Keith Greenwood della Scuola di giornalismo del Missouri e il ricercatore TJ Thomson hanno condotto uno studio per cercare di rispondere a una domanda: cosa ci raccontano le centinaia di foto di migranti e rifugiati alle quali da anni siamo esposti dai giornali e dai media nazionali e internazionali?
Per fare questo hanno analizzato 811 foto presentate dai fotoreporter di tutto il mondo al concorso Picture of the Year 2016 e aventi come oggetto la crisi dei rifugiati in Europa dell’anno precedente. Di ogni immagine si è osservato: quale aspetto o tema della migrazione veniva raccontato; se ritraeva i migranti come soggetti attivi o passivi; e se conteneva elementi che enfatizzavano un senso di somiglianza o di estraneità tra l’osservatore e i rifugiati. Le foto analizzate, trattandosi di immagini auto-selezionate dai fotografi stessi, non offrono una visione completa del fotogiornalismo legato alla migrazione in Europa. Tuttavia si presume che, essendo state scelte per partecipare ad un importante concorso, siano rappresentative dei loro migliori lavori e indichino nella comunità del fotogiornalismo lo standard al quale puntare.
I risultati mostrano che nel complesso i migranti sono raffigurati come vulnerabili, bisognosi di aiuti stranieri, non graditi e incapaci di integrarsi in una nuova società o in un nuovo spazio geopolitico. Non sorprende vedere che il tema più frequente è quello del transito. Ben 280 foto, infatti, mostrano gli spostamenti a piedi, via acqua o su mezzi di trasporto. Un altro tema molto rappresentato è quello delle interazioni – 180 foto – divise a metà tra interazioni genitori-figli e tra migranti e agenti di polizia. Quest’ultimi ripresi mentre fungono da barriera al loro passaggio. Il 15 per cento delle immagini totali, invece, mostra grandi gruppi di persone in attesa di qualche sviluppo dal quale dipendeva se o quando avrebbero potuto continuare il loro viaggio.
Viene dato poco spazio ad attività quotidiane – come la preghiera, le attività ricreative o la condivisione di un pasto – che invece, secondo gli autori, potrebbero aiutare a restituire l’aspetto più umano di un rifugiato. Al contrario le foto esaminate, tralasciando le interazioni positive con i paesi e i cittadini ospitanti che potrebbero aver fornito una qualche forma di assistenza e concentrandosi sugli sforzi per sfuggire dai paesi d’origine e sulle dimensioni del fenomeno migratorio, enfatizzerebbero la distanza tra l’osservatore e i rifugiati.
Il campo rifugiati di Karetepè a pochi chilometri dalla città di Metilene (foto Federico Bernini/LaPresse)
Ciò su cui preme Greenwood è che queste foto raccontano senza dubbio la verità, ma non tutta la realtà. "La storia di un migrante”, spiega, “non finisce quando attraversa il mare o supera il confine. Se le agenzie di stampa tralasciano ciò che accade ai migranti una volta che si sono stabiliti in un nuovo posto e cercano di costruirsi una nuova vita, potrebbero perdere un'enorme opportunità". Basta pensare che alla fine del 2015 più di due milioni di persone hanno ricevuto aiuti alimentari, quasi novecentomila bambini sono stati iscritti nelle scuole primarie o secondarie e erano state eseguite 2,65 milioni visite sanitarie di base. Inoltre, al di fuori dei campi d’accoglienza, 57.259 persone hanno ricevuto un alloggio e quindicimila persone hanno ottenuto l'accesso a opportunità di lavoro. Eppure solo sette immagini mostravano i migranti intenti a mangiare e solo una foto li ritraeva in un contesto educativo.
Il rischio è quello di raffigurare i migranti in gran parte come vagabondi e fonte di pericolo, piuttosto che persone che cercano di migliorare la propria vita e quella delle loro famiglie. Le foto esaminate, enfatizzando la natura transitoria della migrazione, i rischi corsi, gli ostacoli fisici e umani incontrati e la costante temporaneità di ogni loro azione, parlano soprattutto della non appartenenza dei migranti ad alcun luogo: intrappolati tra l’essere e il divenire, tra l’aver lasciato un posto che gli apparteneva e non averne trovato uno nuovo nel quale poter mettere le radici.
Se è vero che un testo è più difficile da comprendere rispetto all’immediatezza di una fotografia, è anche vero che un’immagine non riesce a descrivere nella totalità un fenomeno così complesso come quello delle migrazioni. Il nostro attuale presente sta lasciando dietro di sé una scia di immagini raffiguranti intere popolazioni in fuga e, come afferma Greenwood, i media, “i fotoreporter e le agenzie di stampa hanno una grande opportunità per raccontare una storia più grande”.