Bellomo e quel feticismo tutto maschile per gli abiti delle donne
Quella noia mortale del dress code, quando invece basterebbe capire che per infilarsi nelle pieghe di una gonna femminile ci vogliono poesia e anche un po' di ironia
Il punto è che nelle facoltà di Giurisprudenza non impongono studi di letteratura, altrimenti le studentesse circuite dal giudice Francesco Bellomo, ora agli arresti domiciliari per estorsione e maltrattamenti (volendo considerare come tali anche “l’imposizione della minigonna”, e resta da vedere) vi avrebbero riconosciuto le eterne ossessioni feticiste del maschio medio, il sempiterno tema del collegio e/o harem con le donne tutte disponibili e vestite uguali (modello "Centoventi giornate di Sodoma" o, versione soap, "Charlie's Angels") e si sarebbero fatte due risate. Per il cattivo gusto, anche: e il cappotto sopra il ginocchio, e il piumino rosso che dove mai li venderanno, e i pantaloni aderenti con i tacchi a spillo che, scusateci, solo da Roma in giù, e le scarpe con la punta ma non eccessiva che poi fa invidia del pene e infatti ecco il consiglio messo nero su bianco “punta tonda”, che indica sottomissione, punta spuntata, ecco.
Peccato che queste ragazze manipolate da Bellomo fossero così giovani e non avessero letto neppure le ridicole "Cinquanta Sfumature di Grigio" che lui, giacchino di pelle su t-shirt bianca, un classico del giovanilismo coatto, pare consigliasse, perché leggere de Sade in giovane età aiuta a immunizzarsi contro questi astrusi dress code a sfondo sessuale che solo i maschi riescono a immaginare. Una legge due pagine di descrizione sul tipo di tunica che deve indossare Justine, tela pesante, allacciata dietro per poter essere abbrancata e penetrata senza l’imbarazzo della mutanda (che comunque all’epoca portavano solo le prostitute), la ritrova pari pari su Histoire d’O, che era scritto da una donna ma per lungo tempo, e proprio per via di queste minuziosità vestimentarie, si è creduto fosse un uomo, e sa anche come inquadrare il “consigliere di stato Bellomo”. Un pallido e ridicolo sottoprodotto di Restif de la Bretonne, un cascame di Henry Miller e della sua ossessione per le calze (Bellomo le richiedeva “velate”, mai “con i pizzi”) apparentabile al “Silvano/non valevole Ciccioli” di Enzo Jannacci e benché quella fosse una storia gaya: “Amami, stringimi, sgonfiami/spostami tutte le efelidi”. Oè oè.
Il tono del dress code che il giudice consegnava alle sue borsiste, la minuziosità delle misure della gonna per le occasioni “estreme” (1/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio), quella per i momenti “intermedi” (da 1/3 a 1/2 della lunghezza tra giro vita e ginocchio) e via così, di centimetro da sartoria, sono di una noia mortale, esattamente come le pagine di de Sade o Flaubert quando (aiuto, un po’ pure lui) dedica venti righe al punto di giallo dell’abito di Emma per il ballo alla Vaubyessard o si sofferma per una pagina sui gioielli baluginanti sul petto di Salammbô.
Eppure, vogliamo dirla tutta? Quanto impone Bellomo non è troppo distante da quello che, prima o poi, tutte noi donne ci siamo sentite chiedere dal fidanzato, dal marito, dall’amante: e la gonna con lo spacco così; dimmi che sei uscita senza mutande (anzi, dicono “mutandine” sia che portiamo la 38 sia che ci infiliamo a fatica nella 50: gli uomini sono esseri auditivi, si eccitano con la fonetica); stasera ti voglio in raso rosso ma che ti scivoli la spallina a tavola come per caso, falla scivolare eh? E tu a dirgli certo e poi col cavolo che lo fai, tanto alla fine si sa che all’uomo basta l’idea, averla cullata per qualche ora e va bene lo stesso. Per infilarsi nelle pieghe di una gonna femminile ci vuole poesia (e infatti questo genere di excursus funziona solo a Baudelaire, un po’ anche a Penna sul fronte omo). Ci vuole anche un po’ di senso del ridicolo, un filo di ironia. Noi donne, che ce l’abbiamo, non vi abbiamo mai chiesto di presentarvi a cena con la camicia pulita e senza i piedi infilati nei fantasmini. Eppure, sapete quanto ci farebbe godere.
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