I nani e i giganti
Una frase che nei secoli ha girato l’Europa come un tormentone. Ora in un’inedita versione Toninelli
Il mistero sta nell’ultimo miglio. Negli ultimi passaggi che hanno portato la frase “Nani sulle spalle dei giganti” sulla bocca di Danilo Toninelli da Soresina (al muro tiene appesa una laurea in Giurisprudenza presa a Brescia, e quasi sicuramente una targa come ispettore di mirabile produttività nella compagnia di assicurazioni che lo ebbe in forze prima della politica). “Nani sulle spalle di giganti che lavorano”, per essere precisi: il disegnino era scagliato contro Matteo Salvini, anche lui nordista – o almeno lo era, non si è più sicuri di nulla ormai – quindi sensibile al richiamo dell’operosità.
Sul “gigante” riferito a sé medesimo, pure lavoratore, ci asteniamo per non aggiungere battuta a battute. Ma sull’ultimo miglio siamo curiosi, perché di quella frase si sa tutto, dal Medioevo a oggi. Fu attribuita al filosofo Bernardo di Chartres, vissuto nel 1100: “Siamo nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”. Fu ripresa da Isaac Newton, che nel 1672 la usò a propria giustificazione in una disputa con il collega Robert Hooke (argomento del contendere, la teoria dei colori).
Sappiamo vita, morte e miracoli dei nani sulle spalle dei giganti grazie a un saggio informatissimo e divagante – tanto che viene messo sotto la protezione di Tristram Shandy, l’eroe che nel romanzo di Laurence Sterne inventò “la digressione nella digressione”, e poi “la digressione nella digressione nella digressione”. Scritto mezzo secolo fa dallo storico della scienza Robert K. Merton, “Sulle spalle dei giganti” uscì in Italia una trentina d’anni dopo – le gite a Chiasso erano passate di moda – e con una prefazione di Umberto Eco, cultore della materia (intendiamo la filosofia medievale, non le lezioncine sulla politica e il senso civico). Nel “Nome della rosa”, a pronunciare la frase è Guglielmo da Baskerville, il frate investigatore. Un allievo di Sigmund Freud la userà poi contro il maestro: “Sono più bravo, ho fatto un passo avanti sulla strada tracciata”. Freud la prese male: “Un pidocchio sulla testa di un astronomo non vede granché”.
Dove l’avrà orecchiata Danilo Toninelli? Al liceo Pascal di Orzinuovi? Nei corridoi del Parlamento? Alla scuola dei Cinque stelle? Là dove la matematica viene piegata al mandato zero, la geografia dà per scavati tunnel che non esistono, il mandato politico alla voce Trasporti & Infrastrutture fa dire “no” a tutto, i decreti si scrivono con il cuore perché la testa li rovinerebbe, alla decrescita felice si arriva veloci con il Suv.
La frase nei secoli ha girato l’Europa come un tormentone, tirata fuori ogni volta – e sono parecchie – che i moderni hanno attaccato briga con gli antichi, o con i loro paladini. Resta un clamoroso disaccordo sul significato. Chi la intende come una dichiarazione di umiltà: gli antichi sono migliori di noi, possiamo fare solo piccoli aggiustamenti e campare di rendita sfruttando le loro conquiste. Chi la intende come una dichiarazione di superbia: gli antichi saranno stati anche bravi a costruire quel che hanno costruito, ne prendiamo atto e però andiamo avanti invece di riposare sugli allori.
E’ diventata il motto di chi guarda all’indietro con nostalgia, e anche il motto di chi pensa che il meglio debba ancora venire. Rinasce a nuova vita quando si parla di plagio, di tradizione, di Shakespeare che rubava trame mediocri e ne faceva meraviglie. L’uso politico-stizzito non era finora contemplato: “Noi giganti ci ammazziamo di fatica, e lassù c’è un nano che si pavoneggia”.
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