Certe estati italiane
Dalla Francia alla Romagna, Claude Nori racconta com’erano dolci, voluttuose e spensierate le spiagge che lo convinsero a restare fotografo e a ritrovarsi adolescente il più a lungo possibile
© Claude Nori - Catania 1998 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori, Rimini, 1995 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Graziella e Stefano, Rimini, 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Capri, 1998 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Napoli, 1982 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Portofino, 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Rimini 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Rimini, 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Rimini 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
© Claude Nori - Rimini 1983 (Per gentile concessione dell'autore)
“Preferivo i lidi anonimi, senza monumenti storici, amavo le zone con un’architettura vernacolare perché erano autentiche”
Negli anni Sessanta, a Tolosa, gli immigrati italiani nostalgici della loro terra andavano a mangiare al ristorante dei Nori, Raphaël e Fanny, originari di Verona e amanti della musica lirica. “Il Verona”, situato in pieno centro, era un’istituzione culinaria nel sud ovest della Francia, dove anche i cantanti della Scala di passaggio al Théâtre du Capitole andavano a ristorarsi e dove tutto profumava di pasta e felicità. E’ in quell’ambiente gioioso, a immagine della sua infanzia, che Claude Nori inizia a innamorarsi dell’Italia, di quel paese che raggiungerà ogni estate a bordo della Symca Elisée blu di papà e al quale dedicherà uno dei suoi lavori più affascinanti: “Un été italien” (Marval, 2001), viaggio fotografico lungo le spiagge italiane degli anni Ottanta al ritmo dei tormentoni che escono dai jukebox e degli amori balneari che vorremmo fossero eterni. Lo scorso anno, le edizioni Postcart hanno pubblicato una versione arricchita e rivisitata di questo viaggio, ribattezzandolo “Un’estate con te”, che è anche il titolo della mostra personale di Claude Nori che Villa Mussolini, a Riccione, ospita fino al primo settembre. “Estate è sinonimo di vacanze, dunque di momenti legati al piacere, al corpo, alla sensualità. Viviamo tutti un’altra vita, in una forma di distacco dalla realtà”, dice al Foglio Claude Nori, da Biarritz, dove si è trasferito nel 1999 e dove ha fondato il festival di fotografia Terre d’Images. “Con i miei genitori, approfittavamo del mese di agosto per andare in Italia. Mio padre, con la sua Symca, mi faceva visitare ogni angolo d’Italia, non solo quella conosciuta. Certo, andavamo a Verona a vedere l’opera lirica, ma i miei genitori mi portavano anche nei luoghi anonimi, nei lidi che non erano ancora battuti dai turisti. Preferivo i litorali senza monumenti storici, amavo le zone con un’architettura vernacolare, perché erano semplici, genuini e avevano una dimensione autenticamente italiana”, racconta il fotografo. Semplici e genuini come i protagonisti delle sue foto, realizzate in gran parte a Rimini, come Stefano e Graziella, i “fidanzatini”, come li chiamò Nori, che si scambiarono il loro primo, tenero bacio davanti alla sua Canon autofocus e alla piccola cinepresa Super 8 comprata nell’estate del 1982. “Erano insieme, ma non si erano ancora baciati. Li vedevo attorno al jukebox, lì dove i ragazzi e le ragazze si divertivano, scherzavano, si sfioravano e litigavano sensualmente, mentre nell’aria risuonavano i successi dell’estate. Graziella era sempre vicina a Stefano e mi sono detto: ‘Sono troppo belli, voglio fare un film su di loro!’. Così, con la mia cinepresa Super 8, ho girato un piccolo film e realizzato alcune foto, invitandoli a baciarsi come al cinema perché per me erano i ‘fidanzatini’. Erano timidi, e si vede. Quel momento fu di una delicatezza assoluta”, ricorda il fotografo tolosano, che ha raccolto i fotogrammi dei suoi film in Super 8 nel libro “Capri, jukebox”.
“Le italiane mi sembravano divinità uscite dai quadri, dai musei, dai film, per rendere la vita più felice sulla terra”
Le foto di Claude Nori ricordano scene cinematografiche, e lo sfondo, che spesso coincide con il mare italiano, è un elemento centrale, e attorno ai suoi personaggi ha sempre amato costruire una storia, un racconto, un frammento di vita in movimento. Del resto, quando era giovane, la sua prima aspirazione era diventare regista, dopo aver fatto uno stage ai Cahiers du Cinéma, la bibbia della cinefilia parigina, e aver frequentato il Conservatoire indépendant du cinéma français. “Nel 1968, a 19 anni, i miei amici di Tolosa volevano fare musica a Parigi o poesia a Aix-en-Provence. Io, invece, volevo fare cinema, amavo il cinematografo, i film italiani e soprattutto il neorealismo”, dice al Foglio Nori. Nell’introduzione a “Un’estate con te”, rievoca le immagini in bianco e nero che hanno strutturato la sua estetica fotografica, Claudia Cardinale sdraiata sulla sabbia in “La ragazza con la valigia” di Valerio Zurlini mentre risuona “Il cielo in una stanza” cantata da Mina, e Silvana Mangano in versione mondina mentre balla il boogie-woogie con Vittorio Gassman in “Riso amaro” di Giuseppe De Santis. Su tutte, però, svetta la Monica Vitti antonioniana, una delle sue prime grandi emozioni adolescenziali. “Ne ‘L’Avventura’ di Antonioni era straordinaria. Il suo volto in bianco e nero che invade il grande schermo è indimenticabile. Già all’epoca, mi dicevo che Antonioni aveva fatto quel film perché amava la Vitti: si vede e si sente. Lo stesso vale per Rossellini con Ingrid Bergman in ‘Stromboli (Terra di Dio)’: la amava. Ho visto il cinema e mi sono detto che volevo fare questo. Volevo amare una ragazza e filmarla. Ma fare un film all’epoca era molto difficile, ci volevano molti soldi, bisognava fare una sceneggiatura. Così mi sono detto che con le foto potevo fare ciò che desideravo in maniera più rapida e fare cinema allo stesso tempo. Le mie foto sono estratti di film, c’è una mise en scène, un approccio”, spiega al Foglio.
Dino Risi, che proprio a Riccione, nel 1965, aveva girato “L’ombrellone”, offrendo un delizioso spaccato sociologico della riviera romagnola, diceva così: “Mi piace l’estate, quando le ragazze vanno per la strada in sottoveste, quando le bruttine diventano carine e le carine diventano belle”. E alle italiane di cui Claude Nori si innamorava ininterrottamente, sbirciandole mentre ballavano un lento, osservandole mentre ridevano con le amiche, fotografandole mentre mangiavano un gelato, ha dedicato righe magnifiche. “Le italiane mi sembravano divinità uscite dai quadri, dai musei o dai film, per rendere la vita più felice sulla terra, soprattutto quando sfilavano durante le elezioni locali della Miss. Voluttuose, piene, carnose, la pasta sembrava averle confezionate idealmente con l’aiuto della mano di Dio”, scrive in “Un’estate con te”. Rimini, negli anni Ottanta, è stata la quintessenza dell’estate italiana, un concentrato di questo rito collettivo fatto di sabbia e ragazze in bikini, piadine calde e ghiaccioli al limone, feste nei bagni e passeggiate sul lungomare, estasi e spensieratezza. “Quando ho fotografato l’Italia, negli anni Ottanta, mi rendevo conto che stavo vivendo qualcosa di irripetibile. La spiaggia rappresenta un concentrato di cultura italiana, dove tutto è organizzato per partecipare a un momento di umanità e di vita sociale, dove i sentimenti e i divertimenti si incrociano, e dove tutte le classi sociali e le età si ritrovano assieme. Sono istanti unici perché i corpi sono liberati dagli abiti della vita quotidiana, si è in costume da bagno. Di magico, c’era anche l’architettura tipica dell’Italia balneare: gli ombrelloni, le sdraio, i bar, il bancone dei gelati, le Vespe”, dice Nori. Negli anni Novanta, però, dal panorama delle spiagge è sparito uno dei monumenti dell’estate italiana: il jukebox. “Non ci sono più. Erano il centro di tutto”, ricorda con un filo di malinconia Claude Nori, prima di aggiungere: “Ci riunivamo attorno ai jukebox per ascoltare i tormentoni della stagione. Ogni canzone, per noi, era un momento di forti emozioni. Mi ricordo che ascoltavamo continuamente ‘Tropicana’ di Gruppo Italiano, ma anche i successi degli anni Sessanta e Settanta, ‘Sapore di Sale’ di Gino Paoli o ‘Amarsi un po’ di Lucio Battisti”. Il jukebox, per Nori, era anche uno “strumento per sedurre”. “Quando ci piaceva una tipa, noi ragazzi mettevamo la sua canzone preferita, così lei ci guardava in un altro modo. Nelle spiagge italiane, e in particolare a Rimini, il rito del jukebox, del ritrovarsi attorno alla musica, era il fulcro della vita balneare. Il mare era solo un fondale, perché si viveva soprattutto sulla spiaggia. Poi la sera, c’era la pizza, c’erano i gelati, le passeggiate, le ragazze, il cinema all’aperto, le feste nei bagni. Erano luoghi dove accadevano molte cose belle”.
“La sera c’erano i gelati, la pizza, le ragazze, le passeggiate, le feste ai bagni, dove accadevano molte cose bellissime”
La Rimini degli anni Ottanta è la Rimini del Blow Up al suo apogeo, del quartier generale di Zanza, il re dei vitelloni romagnoli, il rubacuori che ebbe seimila donne, la maggior parte scandinave, e che diceva, a ragione, di aver fatto per la sua città “più promozione turistica di cento agenzie messe insieme”. Ma la Rimini di quegli anni, felici e spensierati, anni di vitalismo ed edonismo, era anche la Rimini dell’Embassy. “Era un posto straordinario, dove si poteva mangiare, ballare nella sala interna o all’aperto: si poteva fare di tutto. Andavo lì con la speranza di ballare un lento con una ragazza. A volte non ci riuscivo, ma il cuore batteva lo stesso perché gli sguardi si incrociavano languidamente in un’atmosfera speciale”, racconta Claude Nori. Negli anni Settanta e Ottanta, la maggior parte dei fotografi era interessata a immortalare i marginali, le persone fuori dall’ordinario, le nuove identità, “a me invece interessavano gli anonimi, la gente comune, quei giovani che nessuno aveva mai messo al centro dei propri lavori”. “Il mio era uno sguardo antropologico e sentimentale”, spiega al Foglio. E aggiunge: “Tutti i giovani che ho ritratto nelle mie foto mi assomigliavano. Sentivo che non dovevo fotografarli da reporter, ma come una persona che faceva parte della loro vita, che era come loro, che li amava. Anche i fotografi italiani di quegli anni erano più interessati a raccontare i paesaggi e le città d’Italia che le persone. Io, invece, ero veramente interessato ai giovani, ero attratto da loro, volevo abbracciarli, sedurli, flirtare con loro attraverso la mia macchina fotografica”. Nori ha sviluppato concettualmente il suo approccio artistico, il “flirt fotografico”, ne “La géometrie du flirt”, apparso nel 1983, dieci anni dopo la fondazione di Contrejour, rivista, casa editrice e galleria che diventerà il luogo di incontro della nouvelle photographie francese.
“Sono diventato fotografo per prolungare impunemente la giovinezza e inventare una vita che mi permettesse di godermela”
“Negli anni in cui realizzai il mio film in Super 8, ‘Un été 82’, dedicato all’estate italiana, c’era ancora il mito del reportage di Henri Cartier-Bresson, del fotografo engagé che catturava il momento e poi se ne andava. Io invece volevo manifestare il mio intervento, la mia interruzione, e avvicinarmi il più possibile alle persone che fotografavo, per uno scambio effimero, che assomigliava a un flirt”, dice al Foglio. Nori ripensa al buonumore degli italiani e delle italiane che amavano farsi ritrarre da “un fotografo che camminava sulle spiagge in camicia bianca e pantaloni con una sciarpa sul collo alla maniera di Truffaut”, e alle mamme che speravano di vedere il loro figlio o la loro figlia in qualche rivista parigina. Ripensa agli adolescenti che ha incontrato in quelle spiagge, prima da ragazzino assieme con i suoi genitori, poi da trentenne con la sua macchina fotografica, quando per una settimana si stabilì alla pensione Bikini, nei pressi del Grand Hotel, per condurre la stessa vita del popolo degli stabilimenti. E dice che forse, anzi sicuramente, è diventato fotografo “per prolungare impunemente questa adolescenza e inventare una vita che mi permettesse di goderne i benefici il più a lungo possibile”. Ma in Italia Claude Nori conobbe anche un amico, o meglio “l’amico infinito”: Luigi Ghirri. “Luigi ha rappresentato l’amicizia nella sua massima espressione. Quando le cose non andavano bene, prendevo il treno e andavo a trovarlo in Italia per stare meglio: parlavamo per ore e ore, ridevamo e ci divertivamo cantando i successi dell’estate nella sua Volkswagen”, ricorda. E aggiunge: “Con la fotografia che in Francia chiamavamo ‘creativa’ e la nuova fotografia in Italia, sentivamo di avere un campo artistico incredibile davanti a noi. La nostra amicizia era raddoppiata dal desiderio di fare qualcosa non solo per noi stessi, ma anche per la fotografia in generale”. Claude Nori fu l’unico fotografo francese, in compagnia di Gabriele Basilico e Mimmo Jodice, a partecipare a quel progetto rivoluzionario che fu “Viaggio in Italia” (1984). “Luigi rappresentava l’Italia, era una parte del mio animo. Andare da lui era un modo per trovare ancora ispirazione. Mi voleva bene e mi ha invitato a contribuire a ‘Viaggio in Italia’ perché ero diverso dai fotografi italiani che lavoravano sui paesaggi a colori: avevo un altro sguardo, osservavo le persone sulla spiaggia in maniera cinematografica, mi inventavo un mondo che mi piaceva”. La fotografia di Claude Nori è un ballo sensuale sotto il sole dell’estate italiana, un giro in altalena in riva al mare che vorresti non finisse mai, è un bacio conquistato, rubato, o solo sognato, che profuma di salsedine. E di nostalgia.
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