Edward Hopper, Lettrice in treno, 1965

Non c'è post senza Oscar Wilde

Il citazionista. Ecco l'homo sapiens nell'epoca dei social

Nadia Terranova

Poco importa chi ha scritto l’aforisma che l’avventore di internet riporta nella sua bacheca tra un tramonto e un drink. E’ stato Shakespeare o forse Freud, Carlo Marx o Tiziano Terzani?

Un aforisma su un manifestino, vicino alla faccia dell’autore al naturale o stilizzata comincia a rimbalzare di bacheca in bacheca

"Non discutere mai con un idiota, ti porta al suo livello e poi ti batte con l’esperienza”: chi ha detto questa frase? Secondo le vignette dell’internet (ormai la versione contemporanea dell’enciclopedia Conoscere) è stato Oscar Wilde, secondo le controvignette dell’internet (che possiamo immaginare come la versione contemporanea della sua antagonista, i Quindici) invece è una bufala, Wilde non si è mai sognato di affermare niente del genere. Nel dubbio, il suggerimento è consultare un’enciclopedia vera – la Treccani, tipo – oppure, meglio ancora, leggere tutto Wilde perlustrando riga per riga, libro dopo libro, se il povero cristo che ormai potrebbe aver esclamato qualsiasi cosa (anche: spegni il sugo, è cotto! + firma di OW + foto di tramonto / piedi al mare / calice in spiaggia /scrivania disordinata / gatto / cane / gallina sgozzata) è davvero l’autore di qualsiasi pensierino che l’internet una mattina gli ha attribuito, anche e soprattutto di quelli che conservano il ricordo di una sagacia, sebbene sfibrati dal tempo e dall’eccesso di citazionismo. Nella spremitura fino all’osso, la rete, si sa, è spietata: un aforisma impresso su un manifestino, su un’immaginetta, vicino alla faccia dell’autore al naturale o stilizzata comincia a rimbalzare di bacheca in bacheca ed è subito codice di Hammurabi: magari una volta quel motteggiare è stato simpatico, persino vero, ora diventa inattaccabile come la convinzione di chi ha postato la frasetta pseudowildiana di essere sempre lui il genio che rischia di passare per idiota. Fateci caso: mai uno che sospetti di essere lui, l’idiota. Per fortuna, nella sua infida sottigliezza, Oscar Wilde ha equiparato i due interlocutori: “Non discutere mai con un idiota: qualcuno potrebbe non notare la differenza” – ah no, quello era Arthur Bloch, oppure Groucho Marx, ma forse è scappato a Immanuel Kant, tra un cielo stellato e una legge morale, o a Confucio, che in mezzo a una melassa di olimpica sapienza un po’ di stizza avrà pur dovuto manifestarla, almeno una volta nella vita.

 

Nessuno si accorgerà della differenza tra sant’Agostino (togliere il “santo” in caso di follower atei) e Spinoza

Tanto, nessuno si accorgerà della differenza tra sant’Agostino (togliere il “santo” in caso di follower atei) e Spinoza, tra le rughe che Anna Magnani non voleva far togliere al truccatore perché ci aveva messo una vita a farsele (una leggenda così scema che l’avrà di certo messa in giro un uomo) e le donne dolcemente complicate di Fiorella Mannoia (una canzone così scema che infatti è stata scritta da due uomini). Curiosamente, negli aforismi da bacheca, la donna funziona solo se esprime l’essere diventata anziana e saggia: milioni di volte al giorno Meryl Streep ci suggerisce che “non ho più la pazienza per alcune cose, non perché sia diventata arrogante ma semplicemente perché sono arrivata a un punto della mia vita dove non voglio perdere altro tempo con ciò che mi risulta sgradevole o mi fa male”. A condividere e rituittare, tutte quelle convinte di essere troppo preziose per sprecare il tempo con altri: ma il mio affetto va a chi si farà venire il sospetto di essere lei il fastidio con cui gli altri non vogliono più perdere la pazienza (io, io). Vale anche e di più per i maschi, che condividono Streep un po’ meno perché, poverini, inattrezzati a identificarsi fino in fondo con una donna; comunque, di tanta saggezza ci si può fidare e poi in fondo, uomo o donna che importa? Al limite, se serve, togli Meryl Streep e metti Al Pacino – che importa, che importa.

 

Il mio affetto va a chi si farà venire il sospetto di essere lei il fastidio con cui gli altri non vogliono più perdere la pazienza (io, io)

Citare, citare a iosa, a palate, ad abbuffarsi, con le foto dello yoga, con i mantra della meditazione, con le tovagliette della colazione, con un libro sullo sfondo, con una gif di Disney, con la barba di Osho o forse era Terzani, con la foto della Fallaci o forse era Lalla Romano, con una foto bella o brutta ma che comunque non c’entra niente, citare almeno una volta al giorno con l’aria di chi sta tirando fuori una perla, citare è il pane quotidiano della rete e vale tutto. Con qualche accortezza: nella nuova Smemoranda, ovvero le bacheche dei social, è passato di moda Hermann Hesse, fa molto liceale anni Novanta, ed è sconsigliabilissimo Winston Churchill. Delle duecento versioni della storiella in cui dà della cozza a una signora (una volta è Bessie Braddock, un’altra Nancy Astor: che differenza può passare, per gli aforisti della domenica, tra una laburista e una conservatrice), lei gli risponde che è ubriaco e lui aggiunge: sì, ma a me l’ubriachezza domattina passa e a lei la cozzaggine no, nessuna di quelle versioni, si diceva, passerebbe oggi l’esame di sessismo – anche un alieno appena atterrato che dovesse sentirla per la prima volta ed essere tanto rintontito da trovarla divertente ci penserebbe due volte prima di darsi in pasto gratis alla lapidazione a suon di hashtag. Peggio degli aforisti dell’internet solo i moralisti dell’internet, e sembra facile, ma non è tanto netta la linea di demarcazione, grande è la confusione sotto il cielo del WiFi.

 

Peggio degli aforisti dell’internet solo i moralisti dell’internet, e sembra facile, ma non è tanto netta la linea di demarcazione

Woody Allen, grande riserva di frasi puntute nei decenni scorsi e usato fino allo sfinimento anche per firmare le battute di mio zio, oggi è tabù: onestamente, chi vorrebbe postare una frase spiritosa, nel suo caso spiritosa per davvero, e ritrovarsi settecentosei commenti furibondi e indignati che rifanno il punto sulla sua fedina morale, familiare e penale? Fedina agli atti risultata pulita, qualcuno dovrà pur precisarlo – ma  non secondo l’internet di Hammurabi, per il quale gli esiti di un processo sono meno importanti della colpevolezza sancita dalle opinioni di tre nomignoli che passavano di lì  per caso. E’ pur sempre l’epoca dell’urgenza dell’opinione prima ancora che quella dell’aforisma a casaccio, o forse è che le due cose hanno a che fare l’una con l’altra: a che serve studiare per costruirsi un punto di vista quando ce n’è uno comodamente espresso in due righe? Che l’abbia detto Gesù Cristo o il Dalai Lama, Obama o il giovane Holden, Mafalda o Toni Morrison importa moltissimo per il coté di riferimento, zero per l’amore di verità e poco per la curiosità personale.

 

Che sia Snoopy o Talete dipende da che adolescente sei stato e che immagine di adulto vuoi dare di te, ma una cosa è certa: Woody Allen è impresentabile in ogni caso e su tutta la linea, quindi nel dubbio, e prima che qualcuno segnali, blocchi, aizzi i propri follower, invochi l’oscuramento e la damnatio memoriae, se proprio non puoi fare a meno di postare una sua arguzia, ti conviene attribuirla a qualcun altro. Tanto, “il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’idiota” potrebbe benissimo averlo detto Oscar Wilde, con buona pace di una tranquilla vita di rete. Oppure chiunque altro, torniamo alla domanda centrale: che importa? Certo, importa molto a chi ha deciso di fare un rogo delle videocassette degli Io e Annie di gioventù (bandire tutti i nuovi film non può bastare, per i giudici dell’internet la colpa è sempre retroattiva, meglio vantarsi di non averlo mai apprezzato, anzi di non aver mai visto nemmeno Manhattan, e comunque chiosare sempre: l’avevo detto, che quello lì non me la contava giusta).

 

Una cosa è certa: Woody Allen è impresentabile in ogni caso e su tutta la linea, quindi nel dubbio ti conviene attribuire l’arguzia a qualcun altro

Ma anche il più accanito sostenitore degli “a me non è mai piaciuto” può tradirsi, attratto dalla cieca urgenza di citare, e siccome si può resistere a tutto fuorché alle tentazioni (ciao Oscar Wilde, era da un po’ che non ci si vedeva) perché non aggirare l’ostacolo attribuendo quel Woody Allen d’eccellenza a Ennio Flaiano? Magari, per lasciare qualche traccia come gli assassini sul luogo del delitto, si potrebbe creare, per pittare il faccione di sostegno all’aforisma, una app che modifichi appena i lineamenti dell’uno per lasciare emergere quelli dell’altro – appena un depistaggio, un lieve sberleffo di rivincita, un po’ come il Satana invocato ascoltando al contrario i dischi punk, o forse erano le canzoni di Jim Morrison. A proposito: “Se ami qualcuno lascialo andare, se torna sarà tuo per sempre, se non torna non lo è mai stato”, alzi la mano chi non l’ha mai scritto sullo zaino Invicta, sul diario di Snoopy, sulla letterina in carta profumata per il ragazzo che non ne voleva sapere (voglio tantissimo bene a quella scritta: era il miglior modo per raccontarti che eri tu ad aver aperto la gabbia per magnanimità, non lui che non si era mai sognato di entrarci). No, forse non era Morrison ma Piero Pelù oppure Leone Tolstoj: tutte le famiglie felici assomigliano all’attacco di un pezzo che qualcuno prima o poi ha scritto storpiando quell’incipit e sentendosi arguto (esco con le mani in alto, non sparate – ci sono scivoloni che conosco molto da vicino, mi piacerebbe poter dire che era gavetta sul campo perché un giorno avrei scritto questo articolo). Benissimo non se la passa nemmeno Jane Austen, che sugli scapoli e l’eredità potrebbe aver detto qualsiasi cosa, e qualsiasi cosa abbia detto ha comunque subito cento storpiature da storpiatrici di genialità altrui (sono sempre io quella che esce con le mani in alto e due o tre attacchi del genere bene in vista).

 

Decostruire i simboli è complicato, resta la questione di come sostituirli; io al loro posto metterei il libro, il film per intero

Incipit, explicit, canzone, endecasillabo, estratto da un saggio mai sfogliato, che importa? “Di ciò che non si sa è meglio tacere” ha detto Wittgenstein citato da tutti in un saggio  che nessuno ha letto, o forse no, l’ha detto un vecchio amico del liceo non per introdurre un trattato di filosofia ma per dare del saputello a qualcun altro – di nuovo e di nuovo, manca chi, dopo aver commentato a sproposito e a casaccio, citi lanciando la frecciatina  a sé, allora sì che ne uscirebbero brillando tutti, il citatore, l’autore e l’aforisma. Invece niente: a tacere devono essere sempre gli altri. Zittire per zittire, allora tanto vale “il silenzio è d’oro e la parola d’argento”, e, filosofo per filosofa, magari un giorno scoprirò che l’ha detto Hegel e da lui copiava mia nonna. “La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello”, invece, l’ha scritto per davvero Gesualdo Bufalino, che nel 1987 pubblicò Il malpensante: lunario dell’anno che fu e nel 1994 Bluff di parole, due fantastiche raccolte di aforismi che precedevano di qualche decennio i centoquaranta caratteri di Twitter, poi diventati duecentottanta, perché il commentatore dell’internet che arranca cercando la battuta giusta pensa che è sempre colpa degli altri, che bisogna ampliare lo spazio, mica migliorare la battuta. “Un aforisma benfatto sta tutto in otto parole”, scriveva Bufalino, non prevedendo che il follower avrebbe detto che invece no, le parole giuste sono sedici: Don Gesualdo, beato lui, viveva in quel bellissimo luogo che sono i libri di carta, dove le proteste mitomani degli sconosciuti convinti che uno vale uno e il nomignolo con l’avatar può dialogare alla pari con Balzac restavano, appunto, sconosciute.

 

“Se ami qualcuno lascialo andare, se torna sarà tuo per sempre, se non torna non lo è mai stato”, alzi la mano chi non l’ha mai scritto

Negli aforismi di Bufalino, che bisognerebbe leggere sempre, leggere di più, la realtà è un po’ storta, un po’ cattiva, un po’ sottosopra e molto rivoluzionaria (“è proprio dell’aforisma enunciare verità che sembrano menzogne e menzogne che sembrano verità”), insomma è più difficile sedarli con una foto di tramonto. Niente è però impossibile nell’internet contemporanea, e se possiamo addomesticare Karl Kraus con un gattino e Salinger con i figli in vacanza, perché mai io che sto leggendo Berta Isla non posso postarne un brano accompagnato da una mia foto in poltrona. Ora, Xavier Marías mi perdonerà ma se mi sono messa su Instagram è perché “à la guerre comme à la guerre”, e se “nulla di umano mi è estraneo” (è Seneca o Einstein?) non posso mettermi a criticare i difetti degli altri se non parto dai miei: l’unico diritto che rivendico è quello di rendermi ridicola. A proposito di motteggiamenti francesi, già che c’ero, mentre verificavo gli accenti su Google, ho fatto una ricerchina (superficiale, sia chiaro: nel pieno spirito dell’approssimazione che ispira queste righe): è un’espressione non attribuita a nessuno in particolare, ma un prodotto popolare del Diciassettesimo secolo. L’anonimato mi inquieta, preferirei sostenere che l’ha detto Voltaire, il quale come tutti sanno non si è mai offerto di morire per il diritto alle opinioni di nessuno, meno che mai per quelli che dicono scemenze ma non puoi farglielo notare sennò urlano che li censuri e mortifichi il loro diritto a straparlare a social network unificati. Oppure, francese per francese, possiamo inventarci che l’ha detto Rousseau, il quale per i passanti dell’internet avrebbe addirittura creato una piattaforma dove scorrazzare esprimendo giudizietti e votazioni. “À la guerre comme à la guerre”, intanto, ci vado io: rivendico il diritto di morire prima che qualsiasi portatore di opinioni poco interessanti senta l’insopprimibile bisogno di esprimerle; vale anche per le mie, soprattutto per le mie, e in tutti i casi rivendico anche il diritto di risorgere subito dopo. Morire, se non per finta, è sempre una gran perdita di tempo, allora tanto vale dormire, sognare forse, come mi sembra abbia detto Shakespeare, o forse era Freud.

 

In verità confesso: per me che se fossi irrefrenabilmente me stessa sarei una citazionista impazzita, reprimersi è molto difficile

In verità confesso: per me che sottolineo a sangue, anche con colori diversi e con imbarazzanti segnetti a margine, per me che se fossi irrefrenabilmente me stessa sarei una citazionista impazzita, reprimersi è molto difficile. Se cito, cito. Ma quando scrivo qualcosa di più lungo, la domanda che da sempre mi attanaglia è: che faccio, virgoletto o parafraso? Da una parte vorrei virgolettare, mi sembra più onesto, dall’altra visto che nessuno scrittore può scrivere una riga se non rubando idee a chiunque abbia scritto prima di lui, se tenessi a essere onesta fino al midollo ci dovrebbe essere un “cit.” a ogni riga – ed è una possibilità, magari senza foto di calici sulla spiaggia né del mio faccione (me lo segno qua come promemoria). E poi, riconfesso: adoro i libri di aforismi. Innanzitutto sono gli unici che non devo sottolineare, non ci sono da cerchiare frasi, non bisogna inseguire e isolare gli stupori, è tutto spiattellato e si può piangere e ridere e meravigliarsi e poi passare alla verità successiva – per chi si diverte a credere a tutto, ogni riga è una festa, è vera un’asserzione e poco dopo è vera anche quella contraria (“ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato”, è Kraus che cerca di imparentarsi con la stella danzante di Nietzsche, o forse con i diamanti sterili e i letami fertili di De Andrè). Eppure, qualcosa non funziona più – più passa il tempo più mi accorgo che, a tirar dentro il nome di qualcun altro, le virgolette autorevoli, l’effetto flagello da bacheca è sempre in agguato, eccolo lì un Pascal accigliato o un Cartesio col ditino in su, voglio proprio correre questo rischio? Ci penso ogni volta che sento gli altri citare esplicitamente, e mi chiedo: era necessario? La risposta è quasi sempre no, quasi sempre il plagiatore avrebbe potuto spacciare quel pensiero per suo e io gli avrei creduto: due sono le cose su cui ragioniamo nella vita, l’amore e la morte, qualsiasi ideuzza ci sia venuta in proposito sarà stata espressa prima e meglio da uno più bravo o più vecchio. Allora, tanto vale maramaldeggiare.

 

Cambia qualcosa per i lettori sapere che “Mi chiamo Walter Siti, come tutti” è un calco di “Mi chiamo Erik Satie, come tutti”? Se non conosci Satie ti godi la festa come uno che sta ballando al centro della sala, se lo conosci te la godi come uno che sta fumando appoggiato a uno stipite e tiene d’occhio gli altri: sono due modalità diverse di lettura, a ciascuno la sua. Se un redattore didascalista avesse messo una noticina a piè di pagina del romanzo per spiegarci il gioco, allora sì che la festa sarebbe stata guastata; ma queste sono divagazioni da libri di carta, siamo qui a giudicare un’altra confusione, quel “chiamatemi Walter Siti oppure Ismaele, cosa vuoi che cambi” che ci fornisce la nostra dose di esaltato pressappochismo quotidiano.

 

Nella questione del citazionismo, c’è poi tutto il settore del necroaforisma. In primo luogo, serve molta abilità, quando muore qualcuno, per non citare la frase che stanno citando tutti. Ma soprattutto: come possiamo evitare che ai defunti si appiccichi sempre la stessa frase, di solito quella che meno li rappresenta, che hanno ripudiato o non hanno mai scritto? Sciascia rimuore ogni volta che qualcuno tira fuori “i professionisti dell’antimafia” oppure “né con lo Stato né con le Br”: lui non ha mai scritto nessuno dei due virgolettati e io non so immaginare maledizione peggiore di avere, da viva e da morta, sostenitori di tesi che non sono le mie per colpa dello sciagurato titolista di un articolo in cui sostenevo l’opposto. Non che quando la frase corrisponda a verità sia al riparo dal morire (e far morire) di consunzione: lasciatemi contare quante sono più efficaci del “chi ha paura muore ogni giorno” per raccontare Giovanni Falcone. Però quella frase è diventata un simbolo, come le battaglie che non si perdono ma si vincono sempre di Che Guevara (morto in battaglia) e il “coraggio!” di Thelma e Louise (che si suicidano). La vita o la trama contraddicono l’aforisma, ma siamo sempre lì: a chi importa, che importa? Decostruire i simboli è complicato, resta la questione di come sostituirli; io al loro posto metterei il libro per intero, il film per intero, la storia per intero, ma sarebbe la fine della paginetta di Smemoranda e dei social network che ne sono la continuazione con altri mezzi. Inoltre, dopo che avremo finito di sbeffeggiarli tutti, non mi sarò affatto convinta che anche nel virgolettato più vieto e fuori luogo, stretta tra una foto languida e un tavolo di aperitivi, non si nasconda una forma di genialità, di cui magari, a forza di spremere e storpiare, sono andati perduti l’antico candore o la primigenia portata rivoluzionaria.

 

Che fare, allora, di queste nostre frasette e del loro quotidiano, eterno riproporsi? Nulla, credo, a parte pulirsi gli occhiali e osservarle meglio: “Come la lettera rubata di Poe, la verità di un aforisma era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno ci aveva guardato.” L’ha scritto Bufalino, o forse io un minuto fa.

Di più su questi argomenti: