L'impostore di Reykjavík
Volevo portare un po’ dell’anima islandese in Italia, sotto forma di giacche a vento. E’ finita malissimo
Per questa estate abbiamo scelto di chiedere ad alcuni scrittori qual è stato il viaggio che ha cambiato loro la vita, il viaggio di cui portano ancora i segni addosso. Fuga, meta sognata, coincidenza, scoperta casuale: il luogo, ma anche il percorso di per sé, i chilometri a piedi, in bicicletta o in auto, il partire per partire, l’avanzare in una terra nuova. Il cercare e trovare (cose che abbiamo immaginato o visto da qualche parte in altra forma, persone che ci aspettiamo trepidanti di incontrare) e lo scoprire. In tanti modi un viaggio può farsi memorabile e degno di essere raccontato. E in modi diversi gli scrittori racconteranno il loro viaggio ai lettori del Foglio. Abbiamo già pubblicato: “Un rave per Lisbona” di Vanni Santoni (il 10 luglio), “Danzare, forse, volare via” di Antonella Lattanzi (il 16 luglio), “Nudo sulla mia Saab” di Aurelio Picca (il 23 luglio), "L'India dei miei sospiri" di Gaia Manzini (il 28 luglio), "Giro del mondo in prima classe" di Giacomo Papi (il 30 luglio), "La Grecia vista dal Babilonia" di Ilaria Macchia (il 4 agosto), "Fuga all’Avana" di Marco Archetti (il 7 agosto).
Il viaggio che mi ha cambiato la vita è stato uno dei miei primi viaggi in Islanda, una quindicina d’anni fa (adesso i miei viaggi in Islanda sono otto, presto saranno nove, arrivo a doppia cifra senz’altro per la fine del decennio). Viaggio della vita nel senso che mi ha rivelato a me stesso, mi ha spiegato chi sono, mi ha chiarito che cosa potevo o non potevo fare negli anni della maturità.
E’ andata così.
Bisogna sapere che Reykjavík è una città molto piccola, non arriva a 150.000 abitanti, e il suo centro storico è davvero minuscolo, in sostanza tutto si concentra nella zona del Parlamento – con davanti l’Hotel Borg e qualche altro palazzo d’epoca (ma “d’epoca” in Islanda, dove fino all’altroieri tutto era di legno e tutto prima o poi marciva, può voler dire anche solo primo Novecento), decoroso ma senza sfarzo, e alle spalle il laghetto con le papere – e in una mezza dozzina di stradine semipedonali che s’intrecciano sulla collinetta antistante, con la varietà di negozietti, ristoranti e pub e AirBnb che si può trovare in una gradevole ma non lussuosa località di villeggiatura italiana, ma senza il caldo (l’Islanda, lo dico per i criofobici e soprattutto le criofobiche, non è freddissima, ma non è mai calda).
In quegli anni, parlo del 2005 o del 2006, l’Islanda non era ancora di moda, o meglio era di moda tra una minoranza mondiale di individui sobri, riflessivi, tendenti all’introspezione, che in Islanda ci andavano soprattutto per specchiare la loro animuccia nella scabra essenzialità del paesaggio: cielo, mare, ghiaccio, lava. Poi come si sa l’Islanda è diventata uno dei must del turismo internazionale: che fa danni limitati quando è turismo di pochi ricchi (arrivare in Islanda e starci costa abbastanza, perché i posti-letto decenti non sono tanti), ma danni illimitati quando su un paese di 380.000 abitanti si rovesciano anche milioni di semi-abbienti che prendono il loro low cost il sabato pomeriggio a Londra o ad Amsterdam o a Berlino, atterrano in Islanda, bevono per le successive 24 ore, dormono qualche ora sdraiati in aeroporto e tornano a casa la sera della domenica. Moltissima nostalgia dell’Eyjafjöll, dei piroclasti smeriglianti che fecero chiudere tutta la baracca per un mese nel 2010.
In quegli anni invece si era ancora relativamente in pochi, e un po’ più avventurosi anche perché i comfort che ci sono adesso, fuori stagione, non c’erano, e soprattutto fuori da Reykjavík si aprivano terre incognite e semi-deserte. Non che, dopo l’invenzione del GPS, si potesse morire, come si diceva fosse accaduto spesso, in passato (si restava senza benzina, si provava a raggiungere il “villaggio vicino”, solo che il villaggio vicino non c’era, ci si perdeva nel deserto di lava, si veniva trovati cadaveri dopo settimane), ma non era così facile trovare posti per mangiare o per dormire, e soccorso nel caso di incidenti.
Parte dell’avventura, coi miei amici post-adolescenti (eravamo sui 30-35 anni), consisteva nel viaggiare con zaini, più che leggeri, semivuoti, adattandosi ai pochi ricambi e ai cattivi odori, e al massimo comprando sul posto quello di cui proprio non si poteva fare a meno. Arrivati in Islanda a settembre in jeans, Stan Smith e k-way di carta velina, abbiamo subito convenuto che tale era appunto il caso quella volta: non si poteva fare a meno di attrezzarsi contro il freddo e l’umido che ci avevano accolti all’atterraggio a Reykjavík e che non ci avrebbero dato tregua nei sette giorni successivi.
Shopping, dunque. La minuscola strada principale del minuscolo centro di Reykjavík si chiama Bankastræti, e all’inizio di Bankastræti, sui quattro angoli che fa con Skólastræti, c’erano e ci sono ancora ben quattro negozi di abbigliamento tecnico anti-freddo e anti-umido, quattro flagship store dei seguenti marchi islandesi: Zo-on, Icewear, 66o North e Cintamani. La scelta è stata ponderata ma non lunghissima, perché il taglio e i colori di Cintamani – a parità di prezzo da rapina – ci sono subito sembrati superiori, io per esempio ho optato per una giacca Hallþór in morbido cotone impermeabilizzato Pontetorto, con cappuccio anti-vento, fodera idrorepellente, quattro tasche frontali a zip, fasciante ma duttile per una perfetta mobilità. La sera, a cena con un’amica islandese, lei mi ha fatto presente che in realtà il vero lusso erano le cose di 66° North, che Cintamani era un marchio nuovo, un po’ da parvenu, e anche un po’ troppo variopinto per la sobrietà nordica, insomma un po’ da turisti. Ho dissentito vigorosamente.
Così equipaggiati, abbiamo percorso l’anello stradale che segue grossomodo il perimetro del paese, la Route 1. Dato che il Foglio mi ha chiesto un racconto di viaggio adesso dovrei descrivere il meraviglioso paesaggio islandese, l’oceano di lava coperto dal muschio, i cieli altissimi, la luce la luce la luce. Ma questo è un racconto di Formazione più che di Viaggio (il lettore interessato può acquistare il libro che ho scritto con la fotografa Giovanna Silva, dal memorabile titolo Tutta la solitudine che meritate. Viaggio in Islanda, che dice tutto). Rientrati a Reykjavík dopo il nostro giro d’Islanda, sono ripassato davanti al negozio Cintamani, e in quella vetrina ho intravisto il mio destino.
Prima di entrare nei particolari devo far presente a chi non è del ramo che a un certo punto della loro vita e della loro carriera – in genere fra i 40 e i 50 anni, io ero precoce – i professori perdono un po’ il controllo di sé. Parlo dei professori di materie umanistiche, che mi sono più familiari, ma è possibile che la stessa cosa capiti anche a professori di altre discipline, forse però non con la stessa veemenza. I professori di materie umanistiche, in sostanza, non hanno mai cambiato strada dalla prima elementare, erano bravi in latino o in italiano o in storia dell’arte e sono rimasti bravi in latino e in italiano e in storia dell’arte, li pagano per quello, ed è comprensibile che a un certo punto, in questo mondo pieno di tentazioni, alle tentazioni soggiacciano, con tanto più abbandono quanto più a lungo sono stati compressi. Per questo perdono il controllo, soprattutto i maschi: e sgomitano, si candidano a qualsiasi cosa, pugnalano alle spalle, vogliono diventare direttori, presidenti, vogliono essere trattati con rispetto, esseri invitati ai congressi, avere il nome sul cartellino.
Io per fortuna aborro le cariche, le presidenze, col loro strascico di riunioni, cene, inaugurazioni, perché trovo quasi sempre insoffribili gli esseri umani, specie nella loro versione da “vita associata”. “La tua lettera è stupida – ha scritto una volta la Ginzburg a Pavese – perché hai l’aria di credere che noialtri si voglia diventare dei dirigenti; mentre nessuno più di me, e credo anche di Mila, aspira alla funzione di scopacessi”. Ma semblable! Ma soeur! Ma dato che anch’io, entrato a scuola a sei anni, non ne sono praticamente mai uscito, ammiro molto gli uomini d’azione, quelli che si sono inventati un mestiere, i maverick, ho anche comprato la biografia di Marchionne.
E insomma, tornando a noi, il mio destino mi è venuto incontro sotto l’aspetto dell’IMPORTATORE in Italia degli ottimi prodotti Cintamani.
In quegli anni si era ancora in pochi, e un po’ avventurosi anche perché i comfort che ci sono adesso, fuori stagione, non c’erano
Ne ho accennato agli amici che erano con me, che mi hanno assecondato come si fa coi pazzi. Ma io non ero pazzo, oh no, e al rientro in Italia non ho perso tempo. Ho chiamato un amico manager (uno che sa fare i conti ci vuole), gli ho sottoposto il progetto, e lui mi ha assecondato come si fa coi pazzi, ma ha promesso che mi avrebbe aiutato a cercare – lui che lavorava a Milano – un distributore di abbigliamento a cui chiedere consiglio, aiuto, magari capitale (uno che mette i soldi ci vuole). Qualche giorno più tardi ci siamo trovati, io e lui, in un capannone alla periferia di Milano con due o tre pezzi del campionario Cintamani per, come avevo scritto nell’email con cui mi presentavo, “un’opportuna valutazione” da parte del Distributore. Parallelamente, avevo contattato la direzione commerciale dell’azienda islandese per fare i miei complimenti per l’estetica e la qualità del prodotto, anzi i nostri complimenti, perché nel frattempo, dato che l’italiano non ha il duale, eravamo diventati noi. Il responsabile mi aveva risposto che certo, erano interessati, ma davvero in Italia, dove fa così caldo, qualcuno poteva comprare dell’abbigliamento tecnico da Polo Nord? Gli ho risposto che, purché abbastanza seducente, colorato e costoso, gli italiani avrebbero indossato abbigliamento tecnico invernale anche sul lungomare di Alassio in pieno agosto, e questa rassicurazione ha molto rallegrato il nostro partner, che ci ha mandato una scatola piena di gadget Cintamani, e anche due cappellini di incoraggiamento.
Poi c’è stata la Grande Crisi del 2008, così il mio fallimento si è sciolto in quello generale. Era un perfetto alibi
Così il dialogo si è fatto via via più fitto, io ribadivo l’interesse ma anche una certa inesperienza nel settore (io più che altro mi occupo di letteratura medievale); il distributore milanese si diceva anche lui interessato, la roba era buona, vendibile, ma per darci una mano per il lancio, ci ha spiegato, ci voleva soprattutto un testimonial noto. Dato che il mio amico manager lavorava nello spettacolo, non poteva contattare il cantante X, il presentatore Y, il deejay Z, interessarli all’impresa?
Stallo. Ma uno stallo vitale, fattivo, gonfio di possibilità, finché da Reykjavík mi hanno scritto che il padrone dell’azienda avrebbe passato qualche giorno di vacanza sulle Dolomiti: che ne dicevo di un incontro al vertice? Potevo portare con me un business plan?
Io ho temporeggiato, ho detto che forse non eravamo ancora pronti, le Dolomiti erano lontane, e nell’email di risposta ho percepito forse, nella controparte, un briciolo di delusione, un sospetto di sfiducia. E ho avuto l’impressione che quel sospetto si rassodasse, diventando una mezza certezza, quando in un’email successiva ho chiesto candidamente “ma che cosa intende precisamente per business plan?”.
L’avventura consisteva nel viaggiare con zaini, più che leggeri, semivuoti, adattandosi ai pochi ricambi e ai cattivi odori
Un giorno, poi, il Distributore milanese ci ha fatto la domanda che non ci aveva ancora fatto (e mentre la faceva ci siamo un po’ tutti stupiti che non l’avesse fatta): “Ma a parte i soldi, che vabbè vediamo, ma poi il lavoro chi lo fa?”. E’ saltato fuori infatti che avere l’idea non basta, bisogna far arrivare la merce, metter su un magazzino, gestire i flussi di vendita (flussi che “è intuitivo – aggiungeva calcando sulle parole il Distributore – che saranno più importanti in inverno, meno importanti, quasi nulli in estate”), e soprattutto andare in giro col furgone a portare il campionario, andare alle fiere, convincere i negozianti, sorvegliare le vetrine… “Ma non potete farlo voi?”, ho buttato là. Non potevano.
Dev’essere stato verso la fine del 2006 o all’inizio del 2007 che tutti e due, sia il commerciale islandese sia il distributore milanese, senza nemmeno parlarsi tra loro, indipendentemente, si sono resi conto di avere a che fare con un coglione. Sipario.
Poi c’è stata la Grande Crisi del 2008, così il mio fallimento si è sciolto nel fallimento generale. Quando qualcuno mi chiedeva che ne era stato poi del mio progetto di diventare importatore di giacche a vento, io rispondevo con frasi a base di subprime, mercato dei cambi, dazi doganali, corona islandese.
E questo sarebbe il sugo di tutta la storia, ma c’è ancora una simpatica coda. Qualche anno dopo, forse nel 2011 o nel 2012, sono tornato a Reykjavík per una breve vacanza, e il mio amico Stefano, che vive lì, mi ha chiesto che cosa volevo fare nel mio ultimo pomeriggio islandese. Perché non chiudere il cerchio, congedarmi dai miei sogni d’escapismo con un gesto simbolico? “L’outlet Cintamani è lontano?”. Non era per niente lontano, così abbiamo preso la macchina e un quarto d’ora dopo abbiamo parcheggiato in uno spiazzo su cui si affacciavano una decina di grossi magazzini.
Il mio destino mi è venuto incontro sotto l’aspetto dell’Importatore in Italia degli ottimi prodotti Cintamani
Dentro, è stata una mezza delusione. Perché la roba era pochina, la varietà ridotta, le taglie c’erano e non c’erano, e soprattutto sembrava che nell’outlet avessero ammucchiato solo i capi più banali e scipiti del campionario. Alla fine ho comprato un paio di guanti, più che altro come gesto commemorativo per ciò che poteva essere e non era stato, ma mentre pagavo ho dato un’occhiata alle spalle della cassiera, e dietro una porta a vetri ho visto un’infilata di uffici con gente che entrava e usciva e, stampato sul muro, quello che allora – oggi non più mi sembra – era il marchio dell’azienda, un sole rosso-arancione. Non era solo l’outlet, era anche la sede della compagnia, il quartier generale di Cintamani.
La cassiera si è allontanata e io ne ho approfittato per dare un’occhiata dentro. Ho fatto qualche passo, la porta scorrevole si è aperta e chiusa dietro di me, e mi sono trovato in un open space con cucina e salottino. Gli impiegati mi hanno guardato amichevolmente, anche se era chiaro che non dovevo essere lì. Nell’imbarazzo, ho detto che non ero solo un compratore occasionale, ma un ammiratore, un vero devoto del marchio Cintamani, e che l’unica remora era dover arrivare fin lì a fare acquisti, dall’Europa, perché i loro prodotti non riuscivo a trovarli in patria. Da dove venivo? mi ha chiesto un tale. Ho risposto. “Italia?”, ha fatto lui, “ma adesso siamo in trattative con uno, un professore, uno tipo un po’ strano che però dovrebbe farci entrare nel mercato italiano”.
Un concorrente! Un altro professore escapista! – ho pensato per qualche secondo, prima di capire.
Claudio Giunta insegna all’Università di Trento. I suoi libri più recenti sono “E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica” (il Mulino) e “Come non scrivere” (Utet).
I guardiani del bene presunto