Cinque in geografia
La figuraccia di Versace con la Cina e quelle di Trump, le gaffe a scuola: non è mai stato così difficile capire (e insegnare) com’è fatto il mondo
Possedendo un esprit mal tourné, il giorno in cui su Instagram ci siamo imbattute nell’immagine di Donatella Versace che si scusava profusamente con “la sovranità nazionale cinese” per aver diffuso delle t-shirt stampate dove Macau e Hong Kong figuravano ancora come stati autonomi, non abbiamo pensato nemmeno per un secondo che la colpa di quella incredibile figuraccia, geografica, politica e storica, fosse sua, che soggiorna tutte le estati in una raffinata residenza affacciata sul collegio dei padri rosminiani a Stresa e che ha appena comprato villa Mondadori con il camino graffitato da Ernest Hemingway a Meina, ma dei suoi nuovi azionisti americani, il gruppo di Michael Kors. Decenni di confronto con colleghi e studenti di Chicago e Philadelphia che arrivano a Roma certi di trovarsi in Africa e che no, non lo fanno per dare ragione a Matteo Salvini, ci avevano infatti convinte che nessuno meno degli americani, anzi degli statunitensi, conoscesse la geografia mondiale, anche quella macroscopica e spicciola, tipo dov’è l’Europa e quanti stati ne facciano parte.
Una disciplina che per tutti noi è la Grande Incognita. Lo è persino più della storia, lo è per ogni generazione, in tutto il mondo
Dopotutto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, l’uomo che vorrebbe comprarsi la Groenlandia per un boccone di pane come i suoi predecessori si erano comprati la Louisiana dalla Francia e che si risente per il picche del premier danese, è uno che, in campagna elettorale, si era scusato per aver definito “Bruxelles un posto infernale quando invece il Belgio è una bellissima città”. Dunque, in generale siamo convinti che oltreoceano ritengano il Mediterraneo un fiume un po’ più ampio del Mississippi ma comodo e veloce da attraversare, più o meno la stessa informazione che, pare, i trafficanti di esseri umani danno ai possibili migranti dei villaggi del centro Africa, almeno a leggere i racconti di chi s’è salvato da quel viaggio infernale su Famiglia Cristiana; quando ci viene raccontato che certi ospedali in Libia o in Siria sono stati colpiti da bombe perché le mappe di Google sono poco aggiornate e lì doveva trovarsi un contingente militare tendiamo a crederci. Anche noi, dopotutto, infiliamo i dati nel navigatore portatile per raggiungere l’amico al lago d’Orta, quaranta chilometri di strada, e nonostante quello ci strilli di continuo di prendere la quarta uscita a destra e di svoltare dopo cento metri a sinistra ci sbagliamo, no? Ci diamo di gomito se il nostro ministro dell’Interno (in disarmo) racconta di aver salito la “scalinata di Rocky a Washington” e ci diciamo che nessuno meglio di una sovranista come Giorgia Meloni potrebbe rispondere di “essere andata di recente a Dublino e in Scozia” alla domanda “quand’è stata l’ultima volta in Inghilterra?”, ma la verità è che la geografia è, per tutti noi, la Grande Incognita. Lo è persino più della storia, lo è per ogni generazione, in tutto il mondo, e non solo per l’ultima, benché i millennial nazionali ci lascino davvero senza fiato (“sono felice di essere qui stasera, non avevo mai cantato sul canale di Firenze” disse Mahmood, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo, alla serata organizzata alla Canottieri da un oscuro brand di moda campano dov’eravamo finite in gruppo per caso, lo scorso giugno, durante l’ultima edizione di Pitti Uomo). D’altronde, su quale materia i commissari Rai tentano di far sbagliare “Guglielmo il dentone”, Alberto Sordi, nell’omonimo episodio di quello strepitoso film che è “I complessi”? In geografia: l’abbiamo visto così tante volte che ormai conosciamo perfino noi “gli affluenti del fiume Giordano in terra di Israele”, senza sbagliarci sulla deviazione dello Yarmuk.
Se ridiamo di Salvini è perché abbiamo seguito le imprese di Rocky Balboa meglio di lui, ma l’abbiamo fatto dallo schermo di casa
Capire dove stiamo non è mai stato facile, eppure ci muove sempre al riso. Una volta ogni sei mesi dalla riforma Gelmini che ha scardinato quel che restava degli studi classici nell’obiettivo incomprensibile di trasformare il paese in un esercito di programmatori di computer e venditori di pubblicità con buona padronanza dell’inglese (un obiettivo che continuerà comunque a sfuggirci, fino a quando affideremo i corsi a docenti che mai hanno superato la fase della vacanza-studio a Brighton), i media intonano la giaculatoria sulla progressiva scomparsa degli studi geografici e sull’incapacità dei nostri studenti di collocare “eventi nello spazio e nel tempo” (cito a caso dall’intervento di un docente sul sito orizzontescuola.it). Quando mancano pezzi di colore per rallegrare i lettori affezionati, e la pagina politica si fa troppo pesante o noiosa, ecco puntuale il professore che elenca i danni prodotti dall’uso di Google Maps in luogo di quei grossi atlanti che ci facevano portare a scuola per l’ansia del nostro ortopedico e della nostra mamma. Dunque, ecco “Greta, alunna delle medie, che posiziona Macerata in Toscana” (no, non è “quella” Greta con il codazzo di polemiche per il suo viaggio in barca a vela a rimorchio dei Grimaldi-Casiraghi e del loro scarsissimo senso ambientale), o “Mattia, che colloca Cremona in Piemonte” e ancora “Jasmine”, che a sua volta mette una città in Piemonte e questa volta è Belluno e resta solo da domandarsi che cos’abbia, questo benedetto Piemonte, per occupare tutta la penisola nella testa dei ragazzini, forse dev’essere per via della poca storia che imparano, a eccezione del capitolo sull’unità e sui Savoia dove, bisogna riconoscerlo, “arrivano” anche i professori più svogliati e i programmi più lassisti delle scuole primarie e secondarie.
Ecco “Greta, alunna delle medie, che posiziona Macerata in Toscana” o “Mattia, che colloca Cremona in Piemonte”
In realtà, volendo, il mercato offre mezzi di intrattenimento e gadget più divertenti dell’atlante e meno impegnativi del mappamondo, ormai oggetto di collezionismo per ultrasessantenni, per rafforzare le conoscenze geografiche di tutti noi: sul nostro account Instagram, per esempio, ci viene offerta almeno una volta alla settimana una certa cartina delle terre emerse grande come una lavagna di nome My Tracker, pittata con una sottile lamina dorata da “grattare dove hai visitato” (anche la traduzione dall’inglese è affare di Google, ormai, purtroppo), un volo low cost dopo l’altro e alla faccia di Greta. Pensata ovviamente per gli egoriferiti che siamo diventati, e per rafforzarci nella nostra convinzione di essere più abili e smart di James Cook, My Tracker costa meno di venticinque dollari. A giudicare dall’insistenza con cui viene offerta, e dalla mancanza delle segnalazioni sugli altri clienti, comune a questo tipo di offerte, non deve avere molto successo. La verità è che noi italiani non siamo un popolo di santi, poeti eccetera cioè navigatori. E non lo è quasi nessuno. Come Cristoforo Colombo, come James Cook, come Magellano e come la maggior parte dell’umanità, non siamo viaggiatori e non siamo migranti. A meno che le condizioni esterne non ce lo impongano, siamo esseri stanziali. Spesso, prendiamo una strada convinti di arrivare in un certo posto e poi ci facciamo piacere quel che troviamo nel posto dove non credevamo mai che saremmo arrivati, vedi la scoperta delle Indie: i più furbi di noi, anzi, la contrabbandano come una scoperta. Conosciamo la geografia tale e quale a Trump, e se ridiamo di Salvini è perché abbiamo seguito le imprese di Rocky Balboa sicuramente di più e meglio di lui, ma l’abbiamo fatto dallo schermo di casa. L’unico nomadismo che ci piaccia davvero è quello che viene accompagnato dall’aggettivo “chic”, vestito con gli stessi caftani ricamati delle foto anni Sessanta di Talitha Getty e Marella Agnelli e che finisce in un resort a cinque stelle da dove usciamo giusto per fare shopping di presunto artigianato locale.
Quando abbiamo scoperto che Jack Kerouac “sulla strada” non era stato mai, e che detestava lasciare sua madre per più di quarantotto ore, abbiamo esultato di gioia. Ci piace andare, ma ci piace soprattutto tornare e anche in fretta. Dove siamo stati? Lì, ecco, e anche lì attorno, ma come non sai? Sorridiamo, scaricando qualunque ansia di approfondimento latitudinario sull’interlocutore. In una delle ultime serate del festival di Locarno appena concluso è stato presentato il biopic su Camille Lepage, la giovane fotoreporter francese trucidata nel 2014 nella Repubblica Centrafricana mentre seguiva i miliziani cattolici anti-balaka nelle loro attività di contro-guerriglia e fra gli aggettivi usati dagli spettatori della Piazza Grande nei suoi confronti non siamo certi che “idealista” superasse quello di “esaltata”. Dopotutto, nessuno comprava più le sue fotografie sulla guerra civile, no? Che cosa ci faceva lì, in giro, invece di starsene a casa o di seguire una guerra più interessante per i media occidentali, cioè più remunerativa? E poi, dove si trova, davvero, la Repubblica Centrafricana? Ecco, a nord della Repubblica del Congo. E il Congo dov’è? Lasciami vedere Google Earth.
Noi italiani non siamo viaggiatori e non siamo migranti. A meno che le condizioni esterne non ce lo impongano, siamo esseri stanziali
Ci sono molti motivi, molte ragioni storiche, ma ce ne sono ancora di più di religiose, per noi italiani nati in un paese a maggioranza cattolica, per conoscere davvero male la geografia, per non ritenerla davvero importante, dopotutto. Negli anni gloriosi ed eroici del primo Cristianesimo, quelli che ci vengono tramandati con i toni dell’epica, i tempi in cui un monaco poteva parlare personalmente con Gesù Cristo e sentire le lacrime del profeta Geremia cadere sulla sua pelle dai cieli, i demoni erano infatti ovunque e, come denunciava Agostino ne “La città di Dio”, si ingegnavano in ogni modo per portare gli uomini alla perdizione. Anzi, spiegava Origene, esisteva un’abominevole armata che, sotto la guida del “suo comandante, Satana”, molestava il mondo intero per spingerlo a peccare. Parte del potere di questi demoni consisteva in una stupefacente rapidità di spostamento: potevano apparire ovunque, in ogni momento. Come gli angeli che erano stati, i demoni potevano coprire grandi distanze a un’incredibile velocità, e al solo scopo di creare scompiglio e subbuglio fra le genti. “Sono ovunque, in un attimo”, scrive Tertulliano nell’Apologia del Cristianesimo: “Per questi demoni, il mondo intero non è che un unico luogo”. Se, adesso, il diavolo globalizzato, trasversale e ubiquo, è un concetto che ci fa sorridere, non dovremmo dimenticarci che di quel modello di pensiero, di quella scuola che sarebbe arrivata a deprecare qualunque viaggio non fosse stato praticato a fini missionari, ci sono rimaste tracce nelle metafore lessicali: ne sappiamo qualcosa tutti noi che viviamo fra più città, o che ci spostiamo di continuo, per lavoro o, peggio, per piacere. Agli occhi di tutti, siamo degli ”indemoniati”. Leggete i racconti di Somerset Maugham, uno che viaggiava quel tanto bastante a sedersi nel bar migliore dell’isola a farsi raccontare un sacco di belle storie da riportare con stile e classe fonetica, e ne troverete a decine, di indemoniati così: gente fulminata per il troppo mare, il troppo sole, le troppe sirene.
Nell’estate del 1934, il periodico francese Marianne chiese a Georges Simenon di poter pubblicare i reportages di viaggio che lo scrittore scriveva per sé come “apprendistato”. Quell’anno, aveva compiuto una crociera nel Mediterraneo a bordo di una goletta, dalle isole Porquerolles alla Tunisia passando dall’Elba, Messina, Siracusa e Malta. Adelphi li ha tradotti e pubblicati qualche mese fa: raccontano storie meravigliose, naturalmente, e lo fanno nel modo più seducente per gli Steve McCurry che non saremo mai o che troppi di noi, appunto, non sono. Minimizzando cioè la portata dell’impresa, guardando il particolare, per così dire le “ore giapponesi” una dopo l’altra, diventando locale, avvicinabile, quasi casalingo: “Il Mediterraneo… sono le uova in conserva che dalla Turchia vanno in Spagna e i granchi che dall’Italia vanno in Russia. Sono i mercanti ebrei, armeni e greci che hanno bottega un po’ ovunque, a Barcellona, a Tangeri, a Messina, a Corinto”. Vissuto così, attraverso il racconto di un uomo che lo sperimenta fra le due guerre, il Mediterraneo è un luogo meraviglioso, un crocevia di sapori e di cultura, di gente eccentrica, avida e bislacca ma anche fondamentalmente onesta. “Un luogo piccolissimo… anzi, il corso di una città dove tutti si conoscono”. Vederlo adesso nello stesso modo è più difficile. Eppure, c’è gente che continua a contrabbandarlo con le stesse parole, come un braccio di mare che si potrebbe percorrere in quattro bracciate, a questa umanità che non conosce la geografia.