La scelta di Ivanka
Perché dietro la bambolina di papà Trump forse si nasconde una donna che della figlia recita solo la parte. E prepara in realtà il sorpasso al potere
Ha scritto Giorgio Manganelli che chi va in vacanza è infelice e Donald Trump, che d’essere infelice non ha intenzione, ci è andato controvoglia, quasi per finta. Al primo giorno di pausa, lo scorso 9 agosto, ha scritto su Twitter: “Non sono mai in ferie!”. Sua figlia Ivanka, au contraire, ha preso marito, figli e bagagli ed è partita per la montagna, le terre selvagge – “where the wild things are”. S’è fotografata molto, tra gli alberi, i fiori, i cocuzzoli, la brughiera, la prateria, i tramonti indoranti come e più di certi filtri Instagram, e suo padre, manganelliano senza saperlo, ha condiviso una foto di lei e suo marito Jared, abbracciati alle spalle di un poggio, e ha commentato: “Due persone incredibili. Non posso credere che non stiano lavorando”. Bastone e carota. Insieme. Forse.
Il più grande talento di Ivanka, forse l’arma migliore nelle mani di Donald Trump in questo momento, è pensarla come suo padre e agire in modo che sembri vero il contrario, persino che lei sia intenzionata a dargli del filo da torcere. Ed è un trucco che, per quanto svelato, sgamato, sgamabile, funziona perché conferma lui nel ruolo dell’impunito manipolatore che è, e lei in quello della bambina incastrata dall’amore filiale, la sola cosa inevitabile della vita, da vivi, e della donna ambiziosa ma tonta, destinata a inciampare nella sua propria inadeguatezza, non avendone contezza, come è successo al G20 del mese scorso, quando provava a infilarsi nella conversazioni dei potenti della terra e quelli le voltavano le spalle e chiudevano il cerchio, come i nugoli di pettegole nei paesi italiani degli anni Cinquanta quando passava una bocca di rosa.
Gli amici concordano: non ha coscienza, non è adulta, rincorre l’approvazione di suo padre e questo è il suo unico problema
Gli amici di Ivanka, quelli di vecchia data che non vede più, quando a luglio di quest’anno lei non s’è presentata alla festa di Lally Weymouth, la figlia degli ex proprietari del Washington Post, che è il solstizio dell’estate negli Hamptons, hanno pensato un po’ che si vergognasse (per il G20, suo padre, la Corea del Nord) e un po’ che si credesse ormai superiore a loro, ma diamine, è pur sempre la figlia e consigliera del presidente degli Stati Uniti, e il 4 luglio ha da passarlo con chi influenza mercati, sposta eserciti, decide la qualità dell’aria che respireremo. Ha scritto Vanessa Grigoriadis su The Cut che tra questi amici di Ivanka c’è chi dice che è un’ottima amica – “una volta ebbi un problema, io abito a Baltimora, la chiamai, e lei saltò sul primo treno e mi raggiunse” – e chi dice che è una narcisista come suo padre (segue 35 account di suoi fan su Instagram, e non manca mai di coccolarli). Tutti concordano su un punto: non ha coscienza, non è adulta, rincorre l’approvazione di suo padre e questo è il suo unico problema, il suo affannarsi per ricevere qualcosa che non riceverà mai, e cioè Donald che va da lei e le dice, ti ammiro e sostengo e lo farò sempre, qualsiasi cosa tu faccia.
Questa è la cuccia di Ivanka, l’alibi perfetto, l’assicurazione sul condono, forse persino sul perdono: essere la figlia prediletta di un padre che ama soltanto chi lo segue, che non c’era quando è nata, che non le ha mai cambiato un pannolino o cantato una ninna nanna, che l’ha fatta crescere in un palazzo dove ha abitato sempre a un piano diverso dal suo e da quello degli altri suoi figli, e dev’essere stato per questo che, quando ha divorziato da sua madre, Ivana, non ha fatto in tempo a dirglielo e lei, Ivanka, l’ha scoperto dai giornali, che sul pianerottolo di casa sua arrivavano più spesso di suo padre. Lo stesso padre che l’ha scelta come sua consigliera, unica figlia nella storia delle figlie dei presidenti degli Stati Uniti ad avere uno ufficio nell’ala ovest della Casa Bianca, e che avrebbe gradito vederla su una copertina di Playboy tanto quanto alla guida della Banca Mondiale, che ha ammesso che con lei, se non fosse stata sua figlia, sarebbe uscito volentieri, e che a Stormy Daniels, la prostituta che ha raccontato di aver avuto una lunga relazione con lui, avrebbe detto una volta “Sei bella e intelligente come mia figlia” – nel 2016, una reporter di Politico, Julia Ioffe scrisse su Twitter “O Trump si scopa sua figlia o si sottrae alle leggi del nepotisimo. Cos’è peggio?” (il giornale si dissociò, e lei adesso scrive per GQ).
Nella procacia del massacro continuo cui è sottoposta, qualunque cosa faccia, prima che la faccia, mentre la fa, dopo che l’ha fatta, c’è l’addebito del conto di suo padre, certamente, ma pure, in fondo, l’aspettativa che suscita, l’idea che lei possa essere migliore di lui, l’idea o la speranza che il suo femminismo non sia solo facciata, la sua lotta al suprematismo bianco non siano solo tweet, il suo impegno contro l’uso indiscriminato delle armi non sia retorica d’occasione. Una massima di Frederick Douglass dice che è più facile costruire bambini forti che riparare uomini rotti e siccome Trump è un uomo rotto e Ivanka fa di tutto per dimostrare di essere non una bambina in costruzione ma una donna in evoluzione, sotto sotto, le crediamo, ci speriamo, ci avventiamo su di lei per raddrizzarla. Al padre vanno lo sberleffo e la denuncia, a lei vanno i rimproveri. Ha pagato molto care le foto che ha condiviso della sua vacanza in montagna: centinaia di twittatori liberal (e anche non) le hanno contestato le politiche scriteriate di suo padre sull’ambiente, ultima di tutte la scelta di semplificare la procedura per rimuovere una specie animale o vegetale dalla lista di quelle a rischio di estinzione (un emendamento all’Endagered Species act, introdotto dal presidente Richard Nixon nel 1973), le hanno ricordato che suo padre è un palazzinaro asfaltatore disboscatore inquinatore senza scrupoli, che è un amico dei cacciatori, e che le future generazioni, anche per colpa dell’Amministrazione Trump, assai probabilmente non potranno godersi la natura così come ha fatto lei.
La strategia: sta rendendosi indispensabile a suo padre per potersene sbarazzare, senza spargimenti di sangue
Certo, a una prima lettura non si vede che questo: lei che tenta di smarcarsi da lui, e il mondo che glielo impedisce, che la marchia a fuoco, perché è la figlia del mostro, e pure la sua consigliera, e “ha le mani ben curate ma sporche di sangue” – così ha scritto il Guardian, qualche settimana fa, commentando la ferma condanna del suprematismo bianco da parte di Ivanka (“è una forma di terrorismo, un male da distruggere”, aveva scritto lei su Twitter), e invitandola all’azione, a dire a suo padre di smetterla di dire che i messicani sono stupratori, che le parlamentari di colore devono tornare da dove sono venute, che l’immigrazione è un’invasione. Ed è chiaro che lo fa perché, consapevole del sinolo che costituisce con suo padre, vuole rilanciarne l’immagine, dimostrare che se la figlia del mostro non è un mostro, significa che anche il mostro non è un mostro, e tranquillizzarci tutti: fintanto che ci sarà lei, il bisbetico sarà domato. Se questo le servirà per quello che molti repubblicani già tifano, e cioè un #ivanka2024, è difficile da prevedere, ma se ci limitiamo a vedere, la bionda bambolina di papà, l’incestuoso truce dei truci, che risponde “Hi Daddy” quando lui la chiama mentre lei è a una cena di beneficenza a Jackson Hole e mette il telefono vicino a un microfono di modo che tutti i presenti possano ascoltarlo, prepara il sorpasso. Prepara un inimmaginabile sorpasso. Per adesso, con una faccia in prestito, lascia che le colpe del padre ricadano su di lei, certa com’è di aver già ammorbidito l’accusa nei suoi confronti, inflessibile com’è alle brutture gratuite, spesso realmente sessiste, che le vengono somministrate (come la mostra a lei dedicata, qualche mese fa, e nella quale una donna vestita da lei passava l’aspirapolvere tutto il giorno in una stanza dove i visitatori erano invitati a lanciare noccioline per terra). Sa che il futuro funziona come le beatitudini del discorso della Montagna. Sa che adesso le tocca star buona, capitalizzare l’odio, e che mostrarsi equidistante, in un tempo boccalone come il nostro, è sufficiente a sembrare equa.
Sa che gli americani, e tutti, le daranno, alla fine, l’attenuante dell’essere stata allevata in una famiglia terribile al punto che da ragazzina, quando le chiesero se il divorzio dei suoi genitori l’avesse traumatizzata, lei rispose di no e aggiunse che il più grande dolore della sua vita era stato la morte della sua tata irlandese. Sa che ogni incompetenza le verrà perdonata, primo perché a casa Trump, negli anni Ottanta, tutto era assai simile a casa Kardashian o Osbourne o Hilton, tranne l’educazione dei figli: Ivanka non ha mai avuto una carta di credito, ha studiato pianoforte, pittura, canto, ha dovuto chiedere il permesso per tutto, ottenendolo di rado, e questo le ha fornito la robustezza che ha fatto di lei una madre a casa della quale, chiunque ci sia stato, giura che a qualsiasi ora tutti sono perfettamente vestiti e tutto è perfettamente in ordine, e una che ha sposato un rampollo di una famiglia ebrea ortodossa, sebbene a vent’anni il suo uomo ideale, uno sul quale non nascondeva di fare sogni erotici, fosse Christian Bale in “American Psycho”. In secondo luogo, perché la competenza è un mito novecentesco e non conta, più che dello spazio di un mattino, e almeno in termini di consenso e sentimento popolare, che al G20 sia stata snobbata da tutti, che quando Boris Johnson è diventato primo ministro lei abbia scritto “Congratulation on becoming Prime Minister of the United Kingston” e che anche come imprenditrice abbia fatto un buco nell’acqua (la sua linea di abbigliamento è stata fatta fuori di Nordstrom, uno dei rivenditori più importanti d’America, notoriamente assai “amichevole”). Questo è il tempo in cui è piuttosto facile diventare chi sentiamo di essere.
A Vanessa Grigoriadis, le vecchie amiche di Ivanka hanno raccontato che lei è completamente convinta di essersi guadagnata, sudando moltissimo, tutto quello che ha ottenuto, di non avere minimamente idea dei privilegi e delle scorciatoie a sua disposizione. Ecco perché al G20 scalpitava. E scalpiterà ancora, e andrà dovunque vorrà, e non ci sarà alcun hashtag capace di imbarazzarla. A poche settimane dal mondiale #unwantedivanka, con cui tutto il mondo da casa ha condiviso il video di lei che viene esclusa dai potenti della mondo, si è presentata a Jackson Hole per parlare di empowerment femminile e, non paga, ha allargato il discorso alla legislazione sulle armi, naturalmente senza dire niente di realmente significativo, ma testimoniando semplicemente la sua propria volontà di impegnarsi nella lotta al dramma delle sparatorie indiscriminate, e concludendo con un “We will see”. Molto più che quel “Hi Daddy” che la Casa Bianca s’è affannata a smentire, gli americani le hanno contestato il non essere provvista di alcun titolo per parlare di un tema così delicato, e importante. Tuttavia, proprio sulle armi, così come sul suprematismo bianco, Ivanka non perde occasione di evidenziare la distanza da suo padre (mai nei fatti, naturalmente, e soltanto nei tweet, che dopotutto sono i nostri fatti quotidiani). Donald Trump, dopo le stragi di El Paso e Dayton (31 morti e decine di feriti) è parso intenzionato a irrobustire i controlli sulla vendita delle armi, persino a circoscriverne l’uso, tuttavia la persona che s’è detto intenzionato ad ascoltare non è la sua figlia prediletta, ma il maggiore Donald Jr, che gli ha dato ben cinque nipoti ed è uno che “conosce le pistole meglio di chiunque altro”, e che non farà altro che ricordare a suo padre che Wayne LaPierre, ad della National Rifle Association, ha fatto sapere al presidente che qualsiasi restrizione sulle armi da fuoco potrebbe costargli “un supporto cruciale”. Ivanka, tuttavia, sta dove sta il popolo: un sondaggio condotto da Morning Consult e Politico tra il 5 e il 7 agosto, subito dopo le sparatorie, ha tirato fuori che il 90 per cento degli intervistati repubblicani (tutti elettori di Trump nel 2016) è favorevole a controlli e restrizioni. Ivanka non accarezza le lobby: la renderebbe impopolare. Lascia che lo faccia suo padre, del quale sa come filtrare e trasformare antipatia e pessimo gusto.
Lo stesso padre che non c’era quando è nata, che non le ha mai cantato una ninna nanna, l’ha scelta come sua consigliera
Doug Wead, a lungo consulente di George H.W. Bush, ha scritto che Ivanka è un mix di Cleopatra, Drusilla (la figlia di Caligola) e Diana di Poitiers. Dev’essere per questo che sopporta che suo padre la chiami Baby, le dica che ha un bel culo, sia un conclamato cafone, stia portando gli Stati Uniti in recessione, sia un bisbetico facilmente domabile con le lusinghe. Quelle lusinghe, che la stampa ha descritto in questi anni come il portato di un rapporto torbido o quantomeno irrisolto, il solo rapporto possibile tra un padre padrone misogino e una figlia newyorkese di questo millennio, sono forse qualcosa di molto più complesso, la strategia di una donna che della figlia recita soltanto la parte, della depurazione familiare è stanca ma capace di girarla a suo favore, e sta rendendosi indispensabile a suo padre per potersene sbarazzare, senza spargimenti di sangue, senza American Psycho, piano piano e sottovoce.
Al padre vanno lo sberleffo e la denuncia, a lei vanno i rimproveri. Il dissenso: una legge sulle armi, la condanna del suprematismo bianco
Non sa di essere stata mantenuta per anni da un padre di cui sa di essere orfana: la riconoscenza filiale, quell’inevitabile a vita di noi comuni tassati, non la fermerà, è recita, è Shakespeare, è Lear. Si vendicherà del truce dei truci? Lo sorpasserà? Lo cambierà? Lo tradirà? Se ne approfitterà ancora, per molto, per poco, per sempre? Prendiamo i pop corn e stiamocene a guardare, consapevoli che se niente è come sembra, Ivanka Trump non sembra niente di quello che potrà diventare.
Le interessa non l’eredità, che è un’emancipazione travestita, una garanzia inchiodante, ma il potere e dal potere vuole sentirsi dire “Came as you are, as you were, as I want you to be, as a friend, as an old enemy”. Da ragazzina ascoltava i Nirvana. Ed era una delle poche cose che disturbavano suo padre, prima che s’accorgesse di lei come alleata, erede, consigliera, futuro.
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