L'irripetibile Eliseo Mattiacci, artista depositario di novità assolute
Il grande scultore è morto all'età di 79 anni
Eliseo Mattiacci è stato un artista irripetibile, di quelli che si continuano a cercare perché depositari di novità assolute. Difficilmente si trovano anche se Eliseo avrebbe da ridere su questa lettura pessimistica delle cose. Il suo entusiasmo si esprimeva in slanci e possibilità che lo portarono a osare, sperimentando dentro e fuori la materia. Guardare un’opera di Mattiacci significa alzare gli occhi al cielo e dare un nome a ciò che ci sta di fronte ma non riusciamo vedere. Cogliere l’ordine cosmico che tutto regola, inclusa l’arte stessa, per natura ribelle ma comunque obbediente a ferree regole che Mattiacci aveva identificato e che rispettava. Inizia quindi la sua esplorazione nel microcosmo (il corpo come agente biologico e sociale) per approdare al cosmo.
Cresciuto a Cagli, si reca a Roma nella prima metà degli anni 60. La prima occasione è di quelle importanti, da non sbagliare, soprattutto per un giovane non ancora trentenne: mostra personale presso la Tartaruga, uno dei due centri determinanti per il rinnovamento artistico del Dopoguerra in Italia e in Europa. Luogo d’incontro per artisti, letterati, critici, giornalisti, attori, musicisti e intellettuali di ogni provenienza. Mattiacci ha la sua opportunità nel luogo dove tutti avrebbero voluto esporre, non è nella sua natura farsi intimidire, gioca tutto. Si affida a forme instabili, alla magia del caso e alla città. La galleria è invasa da un tubo snodabile in ferro nichelato, lungo 150 metri, colore “giallo Agip”. Non c’è spazio, lo spettatore viene espulso fuori dalla galleria e l’opera lo segue, venendo trasportata per le strade della città. Una processione per Roma dove Mattiacci sembra voler dire “sono giovane, pieno di energie, entusiasta, non serve l’esperienza, posso sovvertire le regole. E’ l’arte, attraverso l’azione a visitare la gente”. Seguiranno altre azioni nelle periferie romane, oppure Lavori in Corso al Circo Massimo, ma intanto il tubo viaggia fino a Genova, alla Galleria la Bertesca per Arte Povera-Im-Spazio mostra che segna l’inizio del termine “Arte Povera”.
L’anno successivo, nel 1968, espone nell’altro centro determinante per il rinnovamento artistico del Dopoguerra in Italia e in Europa, L’Attico. Il pubblico è inviato a entrare in enormi cilindri di lamiera incomprensibilmente ospitati nelle anguste stanze della galleria. Corpi che giocano esplorando la stabilità, il proprio peso e il ritorno alla gioia infantile. Rifiuta un invito ad Amalfi per Arte povera+azioni povere con l’intenzione di non essere etichettato in un movimento, sigla o manifesto, acquistando la libertà di sorprendersi. Si traveste da pellerossa con gli sconfitti e gli interrotti (Recupero di un mito), incombe nella galleria con uno schiacciasassi o in moto in bilico su un trave, manipola materiali industriali rendendoli leggeri, perfino poetici, espone se stesso (braccia e busto ingessati), attraverso se stesso (autoritratto dell'artista attraverso 12 radiografie di parti del suo corpo) e si affida al pubblico per mettere in scena azioni, rompendo quel muro invisibile ma comunque insormontabile tra creatore e fruitore. Dagli anni 80 inizia ad affidarsi a tre elementi che non lascerà più: lastre di acciaio corten, sfere di ghisa e ferro. Con materiali pesanti e ingombranti esplora il cosmo, facendoli volteggiare come corpi celesti nello spazio. Un’arte astronomica che si afferma in Europa e viene consacrata in Italia ma che non gli toglie quello sguardo disincantato, che mentre gli parli è intento a esplorare il prossimo pianeta.
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