L'automotivazione è un'ideologia demenziale. Ma difendersi si può
La nuova educazione all’attivismo perpetuo. Per sole donne
Prima si va dal coach di autostima, per dirsi quanto forti e meritevoli di tutto si sia, come le responsabilità delle cose che vanno storte siano soprattutto degli altri (e se il fidanzato t’ha lasciato non ti preoccupare, non ti interrogare, ne trovi uno più bello che problemi non ha, uno che ti merita). Poi, una volta che ci si è innamorati abbastanza di sé e si sa che niente e nessuno potrà mai smerigliare lo specchio nel quale ci si vede perfetti perché perfettamente “sé stessi”, si va dal motivatore, che serve a rendere fruttuoso e produttivo questo grande auto amore – non penserete che ci si ricostruisce e accresce e pitta l’autostima per andare a godersi la vita sprofondando nell’ozio o nella spicciola normalità: lo si fa per diventare super uomini. Sono due professioni del tutto complementari, propedeutiche l’una all’altra, e formeranno i guerrieri di domani. Quante volte ascoltiamo questa parola? E’ guerriero chi s’ammala di cancro e si cura, chi divorzia e si risposa, chi si mette a dieta e dimagrisce, chi lavora e ha più di un figlio, o anche soltanto uno.
Il New York Times sta pubblicando una serie di interviste motivazionali dedicate alle donne (“In her words”), nell’ultima c’è Veronica Chambers, che ha scritto un libro su Beyoncé, icona del “posso tutto ciò che voglio”, che dice a un certo punto che le sue canzoni sono “un promemoria di autostima e auto motivazione” e che aiutano a non mollare mai, a vincere sempre. Chambers è una scrittrice ed editrice molto richiesta, tiene una rubrica “sulla creatività”, è madre, e riesce a far tutto e come ci riesca è oggetto dell’intervista che ha rilasciato per dire non che lavorare e avere una famiglia sia possibile, ma per raccontare come si possa strafare, essere eccezionali, non fermarsi mai, non sentire il bisogno delle pause, non permettersi inciampi o almeno non consentire a quegli inciampi di rallentare la propria vita, che più che esistenza è tabella di marcia. Chambers ha un metodo per tutto, persino per riprendersi da un rifiuto professionale o affettivo: un calendario che prevede che il primo giorno si piange, il secondo anche ma di meno, il terzo e il quarto si tiene lontana la tristezza, il quinto si legge, il sesto di esce, il settimo si torna attivi, e niente storie. Se mai verremo fuori da questo delirio di auto esaltazione e spremitura, per raccontarlo basterà dire che è stato il tempo in cui agli scrittori veniva domandato “come fai a far tutto?”, e si dialogava con loro come fossero allenatori.
Questa educazione all’attivismo perpetuo è spacciata per emancipazione e quindi, naturalmente, viene indirizzata soprattutto alle donne, che sono le guerriere del tempo nuovo e che d’essere perdenti proprio non possono permetterselo (povere noi, che fatica). Volendosi difendere, si legga “Diario dello smarrimento” (Inschibbolet), il nuovo libro di Andrea Di Consoli, che è uno scudo stupendo a tutto questo teorizzare invincibilità. Lo leggi e diventi impermeabile all’auto motivazione, al coaching, a tutti i vari ed eventuali tronismi che ci vengono somministrati, indorati, per essere graditi. Il libro è una raccolta di riflessioni, a volte semplici intuizioni; un diario di bordo dal camminare quotidianamente nel mondo. Invece della settimana di disintossicazione dal dolore di Chambers, provate con la citazione di Beppe Salvia, che Di Consoli riporta in un frammento, su quanto lunghi, interminabili siano certi dolori, che però poi vanno via senza far niente, all’improvviso: “E se piango invece guardami, rido”. Per rifiutare l’autosufficienza cui si perviene con semestrali corsi serali di autostima, basta leggere: “Quelli che mi dicono che vivere da soli è bellissimo, in fondo mi fanno paura”, e “Ho sempre diffidato di chi non ha almeno un po’ il capo e il cuore piegati dal peso di Dio”, e “Amarmi da solo significherebbe specchiarmi in solitudine e difendermi dal mondo. Io, per amarmi, devo essere amato. E, se sono odiato, mi odio”. Meglio lo smarrimento dell’automotivazione, no? Queen Bey si balla assai meglio da smarriti che da eserciziari viventi.
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