Niente è più femminista del diritto all'intemperanza, altro che empowerment
“Le bambinacce”, 55 filastrocche su ragazze imperdonabili
Roma. Ragazze per bene e per male, armiamoci di filastrocche e partiamo. Sugli autobus di notte, a cena da sole, a letto con o senza quello là, per strada, per mare, per lavoro, per noia, per niente. Con “Le bambinacce” (Feltrinelli), il canzoniere di Veronica Raimo e Marco Rossari, saremo al sicuro sempre e in ogni luogo, al sicuro dagli incubi, dalle inibizioni, dalle fissazioni, dai tabù, dall’ovvietà, dalle complicazioni, persino dalle aggressioni. Cinquantacinque filastrocche, cioè bambinacce, per altrettanti modi d’essere e desiderare.
C’è una questione femminile, da sempre e ora più che mai, che il femminismo (qualsiasi femminismo di qualsiasi ondata) non ha affrontato abbastanza, forse perché non ha trovato il modo giusto, ed è questa: quanto alto è, per una donna, il prezzo dell’intemperanza. Lì sta uno dei gap più terribili e meno discussi, minati, combattuti, tra maschio e femmina e da lì l’intenzione di questo libro prende il passo e poi la strada. Nella quarta di copertina è scritto: “Questa è una rappresentazione in parte inedita, almeno in Italia, dove i discorsi sull’empowerment delle donne si scontrano con una fortissima resistenza sociale”. Sarà che tutta questa resistenza sociale è più fiction che realtà, e sarà anche che l’empowerment femminile è così discusso da essere diventato stretto, a volte retorico e persino soffocante, ma queste filastrocche tutto sembrano meno che esercizi di rafforzamento di sé. Anzi. Sono un invito a scansare le fatiche, a essere vulnerabili, a trovar pace anche nel fallimento e nella resa, a sopportare la realtà evadendola e non per forza contrastandola, a esagerare, a spettinare gli obiettivi. Sono un invito a riappropriarsi di sé, che di certo può essere operazione propedeutica anche al rafforzamento di sé, ma il punto è che le bambinacce suggeriscono che ci si può fermare prima, molto prima, e semplicemente godersi quello che si ha, anche quando quello che si ha è soltanto malinconia, e si può essere come le protagoniste dell’ultimo romanzo di Rossana Campo, “Così allegre senza alcun motivo” (e sì che riuscirci sarebbe una vittoria, anche politica, e autenticamente femminista).
Le fascette non dicono mai la verità ma quella di questo libro sì, ed è una frase di Tiziano Scarpa: “Poetiche, sensuali, spassose. Ah, se il mondo assomigliasse a queste bambinacce! Andrei a viverci di corsa”. E si capisce immediatamente perché infilare questo lavoro dentro la questione dell’empowerment significa ridurlo, strumentalizzarlo per un fine troppo angusto, di parte. I versi lo rendono meglio, eccone alcuni: “La bambina scelse di voler fare la più eccelsa delle scelte: quella di non fare”; “La bambina che non sapeva cosa fare a stare attenta si sentiva spenta, gustava l’ebbrezza di invaghirsi per svagatezza”; “La bambina precisetti tutti i giorni andava a scuola e ci andava sola, un giorno trovò un signore brutto che aprì il cappotto e mostrò il mostrabile, lei imperturbabile davanti all’uccello disse: ‘Aspettami, prendo un righello!’ e l’uomo sparì”.
Queste ragazze sono affamate, accese, esagerate, sregolate, annoiate, sensuali, erotiche, un po’ porno, sono tutto quello che si può essere e lo sono in modo radicale, assoluto, quindi imperdonabile ed è questo il tema: quanto è difficile, per una donna molto più che per un uomo, aderire integralmente alla sua natura, rallegrarsi della propria sregolatezza anziché correggerla. Quanto è più scandalosa e però magica una ragazza desiderante – “La bambina pomiciona si pomiciava ogni cosa. Moltissimi inveivano sull’assenza di decoro e di norma pomiciava pure con costoro”. Quanto una ragazza incontenibile viene invitata a domarsi. Esistono manuali su questo, e studi, e articoli, e persino hashtag di denuncia culturale, naturalmente. Tuttavia, non sono efficaci come le bambinacce, che quanto e come ci inibiamo e ci inibiscono ce lo mettono sotto gli occhi, e siccome non hanno punti fermi e amano le contraddizioni, ci dicono che vale pure il contrario, e cioè che, certe volte, l’inibizione può essere un bene.
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