Il delirio ambientalista di Safran Foer e Franzen
Jonathan & Jonathan, partiti per scrivere il Grande Romanzo e finiti a cacare dubbi su come salvare la Terra: prima, dopo, o durante l’ora di cena
Non farai il Grande Romanzo Americano se non ti chiami Jonathan. La battuta circolava tra gli aspiranti scrittori statunitensi (David Foster Wallace, che avrebbe potuto sparigliare, è morto da 11 anni). Una nobile gara, a colpi di “Correzioni” e di “Ogni cosa è illuminata”. Di “Freedom” e di “Eccomi”. Nobile quanto popolare: in una puntata della serie “The Affair” (l’adulterio che per secoli ha nutrito il romanzo ha un nuovo terreno d’elezione) viene consigliato un avvocato celebre “per aver fatto divorziare la coppia Safran Foer-Nicole Krauss”.
Jonathan & Jonathan ora si occupano del clima, della fine del pianeta, dell’innalzamento degli oceani, delle molteplici e incombenti sciagure che renderanno la Terra un inferno. E’ appena uscito da Guanda “Possiamo salvare il mondo prima di cena”, scritto da Jonathan Safran Foer con il cameo nonnesco a cui siamo abituati. Già in “Se niente importa” aveva suggerito il titolo del libro; rifiutandosi da ebrea di mangiare maiale, anche quando “morire di fame” non era un modo di dire. “Se niente importa (diceva) non c’è niente da salvare”.
Pochi giorni fa, sul New Yorker, Jonathan Franzen ha pubblicato il suo punto di vista, prontamente seppellito di critiche su Twitter, anche se a riferirlo si fa la figura dei giornalisti che sbarcati in una città straniera per prima cosa interpellavano il tassista. L’articolo era intitolato “What if We Stop Pretending?”, e suonava decisamente più pessimista: “Basta far finta. L’apocalisse climatica non può più essere evitata”.
Safran Foer vorrebbe da noi un sacrificio che non è un vero sacrificio, se diamo retta al presidente Roosevelt. Lo sforzo bellico della Seconda guerra mondiale, per militari e semplici cittadini, non si poteva chiamare sacrificio: rischiavamo la libertà del nostro mondo e il nostro sistema di vita. Non dovrebbe essere un sacrificio neppure una drastica limitazione del consumo di carne – niente salsicce prima di cena (sono americani, mangiano il bacon a colazione). Rischiamo infatti la sesta estinzione di massa sul pianeta terra. La prima, ricorda, cancellò i dinosauri (alcuni erano pure erbivori), e tutte finora erano il risultato di catastrofi naturali. La prossima – assoluta novità – è provocata dall’uomo. Paura? Non abbastanza: neppure lo scrittore riesce del tutto ad astenersi dagli hamburger (quanto a diventare vegano, se ne parlerà più avanti). Se tutti contribuissero allo sforzo, saremmo salvi.
Jonathan Franzen vede nerissimo, comincia l’articolo citando Franz Kafka, e al boemo difficilmente si sfugge. Sostiene che il problema è chiaro da trent’anni almeno, e che gli sforzi non hanno portato a nulla. Pronostico: chi oggi conta meno di 60 anni ha buone probabilità di assistere alla destabilizzazione della vita sulla terra come noi (fortunati occidentali, la precisazione è necessaria) la conosciamo: inondazioni, incendi apocalittici, economie al collasso, migrazioni di massa. Chi ha meno di trent’anni le vedrà di sicura.
Aggiunge: “Rimbocchiamoci le maniche e salviamo il pianeta” poteva avere un senso fino al 1988. Ora no. Jonathan Franzen ha poca speranza anche nel Green New Deal e nei mega progetti, denuncia il caso dei biocarburanti. Gli sembra impossibile che gli americani finalmente uniti senza distinzione di classe, di etnia, di costa, di soldi che entrano a fine mese, cambino il loro modo di fare colazione.
Che fare, allora? Seguire alla lettera quel che Voltaire suggerisce alla fine di “Candide”, disastroso viaggio nel “migliore dei mondi possibili” (il nostro, l’unico che abbiamo). “Il faut cultiver notre jardin”, disse il filosofo. Non intendeva nel senso della zappa e del concime, ma nel senso di prendersi cura delle cose che ci sono care. Franzen propone di prendersi cura dei giardini come il suo, affidandoli ai migranti per motivi climatici (esistono apposite associazioni). In primavera ha le fragole freschissime, in autunno arrivano gli uccellini. Problema: ma se poi il migrante vuole il bacon a colazione, lui che ancora lo sogna come la terra promessa?