La borraccia vuota (Jeremy Manyik)

Beata borraccia

Maurizio Stefanini

Pazienza per i problemi di smaltimento, l’invenzione italiana che stupì anche il re è tornata di moda

Roma. “Quella borraccia / che noi portiamo / è la cantina / di noi soldà”, ricordava la famosa canzone della Grande Guerra. Probabilmente Greta Thunberg non è esattamente il tipo di “biondina / capricciosa garibaldina” che i combattenti invocavano poi nel ritornello come “stella di noi soldà”. Ma è lei che col suo appello ecologico a riscoprire la borraccia al posto delle inquinanti bottiglie di plastica potrebbe favorire il rilancio di una delle più straordinarie invenzioni dell’ingegno italiano. E non nella moderna versione in alluminio, che poi può avere a sua volta gravi problemi di smaltimento. Qua si dovrebbe proprio tornare alla originaria borraccia in legno che al Regio Esercito sabaudo copiò tutto il mondo, nel formato in cui nel 1851 fu inventata a Torino nella bottega di Pietro Guglielminetti e figli (Ambrogio, Giacomo e Lorenzo).

 

Esordì nella Guerra di Crimea, e presto fu commissionata dagli eserciti britannico, francese, russo e argentino. Proprio dalla più famosa battaglia piemontese nel conflitto prende il nome quella caserma Cernaia in cui una mattina del febbraio 1865 Vittorio Emanuele andò in visita ai suoi bersaglieri. Durante il giro, a un certo punto si rivolse a un caporale e gli chiese: qual è l’oggetto più importante del tuo equipaggiamento? “La borraccia, perché mantiene fresca l’acqua e calma la sete”, fu la risposta. Stupore del sovrano, che si aspettava qualcosa tipo “la baionetta” o “il fucile”. Disse allora di portagliela, e giù un lungo sorso. “A l’à rason el soldà. L’acqua a l’è propi fresca”. Il giorno dopo i Guglielminetti spedirono a Vittorio Emanuele in regalo un esemplare della loro invenzione: verniciata in verde con tappo a vite in metallo e tracolla in cuoio. E il Re Galantuomo da allora in poi se la portò sempre appresso a caccia.

 

Sembra una storia alla Guido Gozzano, e in realtà lo è. Pietro Guglielminetti era infatti il bisnonno di Amalia Guglielminetti: la scrittrice appunto corteggiata dal poeta. Fu lei a raccontare la storia della borraccia di re Vittorio Emanuele, e anche a riferire della esposizione casalinga di borracce tra cui era cresciuta. Sua è in particolare la descrizione della borraccia “soldatesca, da un litro, in legno di pioppo, col tappo a vite e il pispolo di legno da cui suggere direttamente con le labbra avide di frescura”.

 

In effetti aggeggi per portarsi appresso da bere c’erano stati dalla Preistoria. In principio l’otre, fatto di materiali animali. Probabilmente un otre di stomaco di animale con residui gastrici in cui era stato versato del latte propiziò l’invenzione del formaggio. La borraccia in cuoio dei legionari romani si chiamava oeonophorum, ma già nel Medioevo era stata sostituita dal tipo di fiaschetta in corno o in osso. Era però tutta roba con cui l’acqua tendeva a scaldarsi.

 

Come spiegò in una monografia del 1884 l’ingegner Fettarappa, professore di Economia e Estimo alla Regia Scuola d’Applicazone di Torino, “l’arnese non poteva riuscire più semplice e la sua forma più rispondente allo scopo poiché, la parte piana è indispensabile per adagiarsi sul fianco del soldato che lo porta armacollo, la parte convessa ristretta ai due capi soddisfa alla condizione del minimo ingombro congiunta alla massima capacità. Il legno poi presenta il vantaggio d’essere poco conduttore del calore, per cui il liquido si mantiene fresco anche se esposto al sole o ad una temperatura calda, come quando il soldato deve manovrare o combattere”.

 

Ha anche il vantaggio di essere ecologicamente smaltibile. Purtroppo, col tempo si iniziò a usare l’alluminio, che si impose del tutto nelle linee di montaggio della Grande Guerra. L’ultima Guglielminetti in legno fu adottata nel 1907, la ditta chiuse nel 1918.