Non è mai troppo tardi
L’amore nella terza età, quello che la letteratura ha sempre snobbato e invece vende e fa sorridere
Isabella Girardiello, sessantacinque anni, tre figli grandi, separata da un anno (il marito l’ha lasciata per una “pischella cicciottella”), fa un colpo di testa. Non perché sia particolarmente amareggiata per il divorzio imminente, visto che la quotidianità matrimoniale era stata noiosamente borghese e il dopo separazione all’inizio “triste e disperato”, poi “pieno di cose gente impegni viaggi massaggi e negozi”. Il colpo di testa è quello di cambiare vita. Lasciare la bellissima casa di Roma e rifugiarsi per un po’ in un appartamentuccio vista mare a Ostialido. Dove le capiteranno incontri impensabili rispetto alla sua vita “di prima” e un fatto veramente straordinario: ogni volta che uno sconosciuto dallo Sguardo Blu è nei paraggi, lei sente suonare a distesa le campane! Ci vorranno parecchie peripezie, e molto coinvolgimento da parte di Isabella nella varia umanità della borgata romana, prima di scoprire che Sguardo Blu le campane le sente pure lui… E dire che di sentire campane e di ritrovarsi a fare l’amore in un cabinato sul litorale di Ostia, Isabella non sentiva il bisogno. Dopo una vita coniugale piena, figli problematici e amicizie di convenienza, aveva – come dire – tirato i remi in barca…
La vulgata vuole così: gli uomini scappano con le trentenni pure a novant’anni e le mogli abbandonate restano sconsolate a casa
E’ la trama di Zero gradi, primo romanzo della sceneggiatrice televisiva Roberta Colombo e pubblicazione più recente di una nuova spericolata collana della Giunti inventata e diretta da Lidia Ravera e intitolata Terzo Tempo. Come un suo romanzo di due anni fa, e tanto per non dire “terza età” che farebbe subito Casa di Riposo. Spericolata perché – malgrado ormai abbiamo tutti sotto gli occhi storie d’amore che non tengono conto degli anni (tipo la zia settantenne, vedova inconsolabile, che ritrova su Facebook un vecchio compagno di scuola e parte per il giro del mondo) – gli stereotipi sono duri a morire. Soprattutto, tanto per cambiare, quando riguardano le donne. Perché la vulgata vuole così: gli uomini scappano con le trentenni pure a novant’anni e le mogli abbandonate, restano sconsolate a casa, sole, senza speranza di rifarsi non dico una vita, ma nemmeno una sana scopata…
E le prime a crederci sono proprio le donne, e magari proprio le donne che si erano nutrite al verbo femminista. Non è stata proprio Simone de Beauvoir a metterle in guardia? Nel suo fondamentale saggio La terza età era stata esplicita e spietata nel descrivere la situazione: “Biologicamente, la sessualità della donna è meno deteriorata dalla vecchiaia che non quella dell’uomo. Ma per la donna anziana, è molto difficile avere dei partner extraconiugali. Per molte donne anziane questa frustrazione è penosa, perché rimangono tormentate dal desiderio, mentre agli occhi degli uomini da molto tempo hanno cessato di essere desiderabili. Ciò vuol dire che la donna subisce fino alla fine la sua condizione di oggetto erotico. La castità non le è imposta da un destino fisiologico ma dalla condizione di creatura relativa. Peraltro, succede ch’ella vi si condanni da sé. Generalmente, in amore, lei è più narcisista di lui. Se l’uomo continua a desiderarla, ella si rassegnerà con indulgenza ai suoi gusti. Ma al primo segno di freddezza sentirà amaramente la propria decadenza, prenderà in disgusto la propria immagine, e non sopporterà più di esporsi agli occhi di un altro”.
Se le autrici hanno puntato sull’autoironia, c’è grande attesa per vedere come se la caveranno i maschi con questi racconti di sé
E invece, sostiene Ravera, è tempo di rivendicare anche al sesso femminile la possibilità di vivere “una vita che che duri tutta la vita”, e per questo ha ideato una collana Old Adults di storie sostanzialmente d’amore fra anzianetti (ma lei si arrabbia se uso questa parola) che vanno rigorosamente a finir bene. Molti intrighi, molti malintesi, molte incertezze e incomprensioni, molto “il peso del passato” che frena nuovi possibili slanci, ma per risolversi tutto in happy end dove i due protagonisti (o le due protagoniste, visto che si prevedono anche storie lesbiche: sono al lavoro Valeria Viganò e Margherita Giacobino, che ambienta la sua vicenda nei primi anni del Novecento) vivranno “felici e contenti” per quel che resta delle loro esistenze, che non saranno più sterminate, ma meglio strutturate rispetto alla giovinezza.
“Non è il primo amore che conta, è l’ultimo” dice un personaggio di Non essere ridicola, il romanzo di Brunella Schisa che ha inaugurato a inizio estate, con Emanuela Giordano e il suo Appena in tempo, la nuova collana. Schisa è un’affermata giornalista culturale di Repubblica nonché serissima autrice di romanzi storici (il più recente: La nemica, edito da Neri Pozza); Giordano è una valente commediografa e regista di teatro. Come è saltato in mente a tutte e due di rischiare il curriculum in un’avventura che, mentre tante vanno dal chirurgo plastico per togliersi rughe e anni, rivela non solo data di nascita ma pensieri reconditi, furie inconfessabili, abbandoni insopportabili, desideri sessuali segretissimi, sedute dal parrucchiere, dall’analista, dal ginecologo delle over sixty?
Voglia di giocare, mi rispondono tutte. “Sai che c’è?” riflette Brunella Schisa. “Con l’età si acquista una leggerezza nuova. Sei meno attenta ai problemi di immagine. Rischi con divertimento. Sostanzialmente avevo voglia di mettermi alla prova in un modo di scrivere diverso. Ed è venuto facile, facilissimo. Sono stata io la prima a sorprendermi. In un mese e mezzo ho riversato sulla pagina qualcosa che evidentemente avevo dentro”. Sì, perché scrittura su commissione, gioco, commedia, trama necessariamente a lieto fine, non fanno di questi prodotti di genere libri fasulli in cui manca la realtà, o addirittura la Verità (proprio con la V maiuscola). Verità di sentimenti feriti (molte protagoniste sono state lasciate da mariti terrorizzati dalla vecchiaia che si rilanciano con giovanotte e viagra), ma anche capacità di stare al mondo in un modo inedito. “Il genere rosa non è necessariamente sinonimo di melansaggine romantica” mi dice Emanuela Giordano. “Io l’ho preso come un’occasione di ironia, partendo prima di tutto da me stessa, un’opportunità per inventare altri scenari. Che è poi quello che succede nel “terzo tempo”: una nuova curiosità per il fuori da noi, uno sguardo più profondo sugli altri, sui luoghi. E può succedere che in questa apertura s’insinui l’amore, quando non lo aspettavi più magari”. Natalia, l’eroina del suo romanzo, è una serena professoressa divorziata che si è adagiata in una vita confortevole in compagnia del gatto Zeus e di amici fidati. Poi un giorno, durante un viaggio in treno Bologna-Roma, nota un uomo attraente che però non le rivolge la parola. Salvo… quando Natalia torna a casa e finisce di leggere il libro che si era portata in treno (La vita davanti a sé di Romain Gary) scoprire nell’ultima pagina una frase sottolineata (non da lei!): “Bisogna voler bene” e un numero di cellulare che la mano misteriosa ha aggiunto. La mano è quella dell’uomo che l’aveva incuriosita. Un vero seduttore. Come resistere? Nasce una storia, ma poi si scopre che il marpione settantenne (di professione direttore di coro e atteggiamento “da giovane Holden con lo zainetto in spalla”) vive già con una compagna, etc. etc… Emma, invece, personaggio principale di Non essere ridicola, di professione fa la libraia, organizza presentazioni in cui vediamo sfilare Gianrico Carofiglio e Romana Petri, Chiara Gamberale e Maurizio De Giovanni, Jonathan Coe e Erri De Luca, Gaetano Cappelli – che ha anche una piccola parte come personaggio – e un narratore israeliano con cui Emma ha una storia focosa di una notte. Sì, perché vedendo sfumare nel nulla un matrimonio di vecchia data che era l’invidia di tutti gli amici, dopo essersi disperata e aver meditato vendette sanguinarie, si consola con ardenti incontri sessuali, salvo scoprire che un nuovo innamorato, probabile grande amore in extremis, si nascondeva dietro l’angolo e non se n’era proprio accorta.
Molti intrighi, molti malintesi, incertezze e incomprensioni, molto “il peso del passato”. Ma tutte le storie finiscono con l’happy end
Anche per Roberta Colombo accettare l’invito di Lidia a scrivere per Terzo Tempo è stata l’occasione per misurarsi con una scrittura diversa, più libera rispetto a quella che pratica da anni come sceneggiatrice. E confessa che da giovane, quando era un medico specializzato in ematologia, aveva sognato di scrivere romanzi. E anzi aveva abbandonato la medicina col suo carico di dolore con cui confrontarsi quotidianamente, proprio per diventare una scrittrice. Ma poi le cose, così capita spesso ai nostri sogni, erano andate in modo diverso. Eppure: “Mai dire mai” (come recita un altro libro della collana, firmato da una bravissima esordiente, Elena Vestri, e uscito i primi di settembre (titolo esatto: Mai dire mai più). E adesso Roberta è soddisfattissima di aver colto al volo questa nuova occasione che potrebbe trasformarla in un’autrice di successo. Visto che questi romanzi, come si dice in gergo: “si muovono” molto bene in libreria. Insomma vendono. Insomma c’è un pubblico disposto a comprarli, rispecchiarcisi, sognare un poco. Parola di Ravera: “Gli over 60 sono oltre il 23 per cento della popolazione italiana e rappresentano l’ultima generazione formata sui libri. Godono buona salute, sono economicamente più sicuri dei giovani e hanno molto tempo libero a disposizione. Se crediamo agli stereotipi sulla terza età, ci sarebbe una componente importante della vita che si vorrebbe ormai impraticabile: l’amore, l’eros. Ma si ama, si seduce, si viene sedotti a tutte le età. Bisogna allora lavorare sull’immaginario collettivo, cambiarne gli stereotipi depressivi, proporre nuovi modelli in cui quel 23 per cento di italini, soprattutto di italiane, possa trovare un’idea forte, attiva, anche erotica di sé”.
Pretese di gran Letteratura non ce ne sono, eppure si sente dentro una necessità di dirsi tutta nuova. Un sano bisogno di frivolezza
Ricordo che sulle soglie dell’adolescenza, pur leggendo senza farmi pregare i classici della letteratura russa e francese, e già malata di scrittori considerati difficili come Kafka o Céline, non mi decidevo ad abbandonare certe letture “frivole” per ragazzine in cui c’erano sempre passionali avventure estive e amorazzi complicati, litigi con i genitori e gran finale con dichiarazioni d’amore eterno fra i protagonisti. Confesso che leggendo i libri del Terzo Tempo, ho ritrovato in me quello spirito leggero, ma soprattutto mi sono divertita moltissimo ridendo spesso senza freni. E ho pensato a quanti romanzi inutili escono nei nostri giorni spreconi, che non divertono, anzi annoiano a morte, rifriggono storie e situazioni che i grandi del passato hanno trattato con ben altra tempra, ma gli autori sembrano non saperne niente e accampano anzi arie da gran scrittori. Qui, col Terzo Tempo voglio dire, pretese di gran Letteratura non ce ne sono, eppure si sente dentro una necessità di dirsi tutta nuova, una gioia di poter essere se stesse fuori dagli schemi utile a sé e ai lettori, che rende quest’operazione editoriale meritevolissima. Negli esatti tempi da vaudeville della Vestri, misteriosa insegnante in pensione che “vive in Senegal”, c’è la maestria di una consumata regina di leggerezza capace di fare entrare e uscire di scena i numerosi personaggi, senza sbagliare un colpo… E chissà quante peripezie troveremo nel libro di Linda Brunetta, previsto il prossimo gennaio, Il meglio deve ancora venire: titolo che è tutto un programma e che racconta di una donna con figlia fidanzata a un settantenne. Alla fine il nostro eroe chi sceglierà fra le due? Anche Brunetta, dopo una brillante carriera di autrice televisiva e teatrale, è nella narrativa alle prime armi, ma il divertimento con cui ha scritto – persino di momenti drammatici – promette benissimo. La collana le sembra “un antidoto al cinismo trionfante di oggi”.
Insomma, a questo punto, se le autrici hanno puntato sull’autoironia, c’è grande attesa per vedere come se la caveranno i maschi. Lenti e sospettosi, ma avanzano: il più convinto Paolo Guzzanti, e magari il direttore di Raitre Stefano Coletta, magari Giovanni Mastrangelo… Forse, memori delle parole di Leonard Cohen in Alleluja (“ho fatto del mio meglio, non è stato un granché”) stanno riflettendo sulle loro imprese sentimentali per raccontarle con nuova autocritica consapevolezza?
generazione ansiosa