Come diventammo populisti
Il “Ritorno a Reims” di un sociologo molto di sinistra. Per scoprire che tutta la sua famiglia comunista è passata con Le Pen. Appunti (per l’Italia) sul tradimento della politica e delle élite
Il sobborgo di Reims in cui i suoi genitori si erano trasferiti era come lo aveva immaginato: “Un esempio caricaturale di ‘riurbanizzazione’, uno di quegli spazi semicittadini nel bel mezzo dei campi, di cui non si capisce più se appartengono ancora alla campagna o se con il tempo siano divenuti una sorta di periferia”. Potrebbe essere la fotografia di innumerevoli luoghi in Europa o in Italia: a Milano, a Torino, nel Lazio o in Campania. E’ per questa somiglianza che il racconto di Didier Eribon – autobiografia, ma non la classica autobiografia, che è quasi sempre un genere consolatorio – è così adatto ad essere esportato e ricollocato in paesi diversi. Ora è la volta dell’Italia: a Milano lo spettacolo teatrale tratto da Ritorno a Reims, il libro di Eribon, sociologo e filosofo, è in scena a Milano al Piccolo Teatro Melato (ne scriviamo a parte). Ma più che il luogo conta la storia delle persone che vi abitano. E di come si sono trasformate in questi decenni senza quasi che le cosiddette élite, e tantomeno la politica sorda e grigia, se ne accorgessero. Il popolo, la classe operaia, la piccolissima borghesia delle campagne e della provincia. Quella classe (più che popolo) che aveva votato per decenni “i suoi”, i grandi partiti popolari che gli somigliavano (soprattutto la sinistra: Eribon parla della sinistra) e accettato o ingurgitato un patto che offriva un po’ di miglioramento economico contro stabilità sociale. Questo universo chiuso e subalterno, senza altre prospettive se non quella di rimanere identico a se stesso, schiacciato nei propri desideri e aspirazioni, che quasi d’un tratto, ma non così in fretta, è diventato il populismo in rivolta, i gilet gialli. La destra xenofoba e sovranista. Ritorno a Reims, per la regia di di Thomas Ostermeier, è diventato un format internazionale perché la domanda “cosa è diventato il nostro paese?” è comune. Ovunque cova una rivolta rabbiosa e impaurita contro la politica, “i ricchi”, le élite, gli stranieri, insomma “loro”. Tornare a Reims o tornare a Guidonia è la stessa cosa. Del resto a Reims Didier Eribon non c’era più tornato, per trent’anni. Aveva reciso i rapporti con i genitori, i fratelli, i compagni di scuola, i conoscenti. Con l’obiettivo lucido e caparbio di ribellarsi e staccarsi, soprattutto, dal suo ceto sociale. Fuggire gli “effetti della dominazione” e “prendere la parola”, come dice con le teorie di Michel Foucault. Quando tornò, votavano tutti per il Front National.
Nell’andarsene da Reims c’è anche la scelta della propria omosessualità, che diventerà tema dei suoi studi sulla “questione gay”
A Reims Didier Eribon non ci era tornato nemmeno per il funerale del padre, un uomo incattivito, comunista ristretto nei suoi orizzonti di classe e di comunista. Omofobo. Perché nell’andarsene da Reims di Eribon c’è anche la scelta di vivere liberamente la propria omosessualità, che diventerà tema dei suoi studi sociologici sulla “questione gay”. La famiglia. Il padre, operaio tutta la vita senza una prospettiva di miglioramento superiore alla piccola sicurezza del salario e del welfare, sposato a una casalinga-operaia costretta alle stesse rinunce cieche. Comunisti per fede e appartenenza – “noi” contro “loro”, i ricchi, quelli che decidono in città o peggio ancora a Parigi. L’unica autocoscienza di quel mondo era un primitivo sentimento “di classe”. Noi, loro. Persino guardando le foto di famiglia che la madre ha conservato in uno scatolone, come Eribon farà moltissimi anni dopo, l’occhio “culturale” del sociologo ritrova quella separazione: “Sorprende sempre vedere fino a che punto i corpi delle fotografie del passato si presentino immediatamente allo sguardo come corpi sociali, corpi di classe”. E’ questo che fin dall’adolescenza Eribon decide di rifiutare. Si estrania a poco a poco dai riti della comunità e dalla famiglia, dal fratello/opposto che ascolta Jonnhy Halliday, diventerà operaio, si sposerà, voterà Le Pen. Lui invece Rolling Stones, Dylan, letteratura. Lui a un certo punto omosessuale. Lui sempre all’estrema sinistra. Classista era anche il sistema dell’istruzione, per i figli degli operai c’era solo la scuola che a quattordici anni avviava alla fabbrica. Niente liceo e ascensori sociali. Se non a costo di uno strappo determinato, come una liberazione: Parigi, gli studi, il Maggio ’68, la militanza e la militanza gay. Tutta la trafila che ha fatto di Eribon un intellò particolarmente resiliente e per nulla chemise blanche. Gauche radicale e minoritaria che ha criticato fin dall’inizio il pensiero “neoconservatore” e lo “spostamento a destra” dei partiti di sinistra.
Il libro di Eribon è stato pubblicato dieci anni fa, in Francia, in epoca ante gilet gialli (è interessante però che anticipi, criticandolo, un tema populista come il sorteggio delle cariche politiche: “Non vorrei che mia madre o i miei fratelli fossero estratti a sorte per governare la polis, in nome della loro ‘competenza’ uguale a quella degli altri”) e quando dire Le Pen significava ancora dire Jean-Marie. Ma il racconto e l’analisi non invecchiano di un giorno, come capita ai libri preveggenti. Tornato in rapporto con la madre, “mi chiesi perché non avevo mai avuto l’idea o la voglia di riflettere su questa storia”. Inizia un lungo lavoro di ricostruzione. Filtrato attraverso i suoi strumenti culturali – sociologo, filosofo, debitore al pensiero critico radicale di Pierre Bourdieu e Michel Foucault. Non è un libro di ricordi, per quanto pervaso dal sentimento di uno scavo doloroso, così raro nei libri degli intellettuali di professione. “Ero diviso in due: metà trotzkista, metà gay”, dice a un certo punto di sé. Ci sono motivi storici e culturali per cui le due cose stessero insieme, in quegli anni. Forse persino Eribon oggi sarebbe stupito di come i meccanismi di subordinazione e di “vergogna sociale” legati all’identità sessuale pesino meno. Ma non è l’argomento di questo articolo. E’ più interessante scoprire che cosa abbia prodotto il suo andarsene da Reims. E ancor di più che cosa abbia trovato al suo ritorno.
Comunisti per fede e appartenenza, “noi” contro “loro”. L’unica autocoscienza di un primitivo sentimento “di classe”
Quando dopo trent’anni riprende il contatto con la storia che aveva recisa e torna a osservarla con la diffidenza di una distanza irrecuperabile – la distanza, che avverte anche come colpa, di un intellettuale appartenente a un altro universo sociale ed esponente di una sinistra che da tempo ha tradito quel mondo – Eribon scopre tra le prime cose che suo padre, sua madre, i suoi fratelli e la gran parte dei conoscenti, tutti comunisti, tutti “noi”, erano a passati a votare la destra, anzi l’ultradestra del Front National. Scelta unica o almeno la più logica in un paese reale – il nord della Francia, ma potrebbe essere la Germania o l’Italia – che non si è arricchito con la globalizzazione, aggredito anzi dal cambiamento economico, spaventato dagli immigrati. Rimprovera la madre per le sue frasi grevi contro gli stranieri. Lei risponde: “Lo dici perché nei quartieri dove vivi tu non ci sono”. Dieci anni dopo molti di loro avrebbero bloccato le rotonde di mezza Francia e le strade di Parigi indossando gilet gialli. Incarnando, in modo naturale, le stesse logiche di suo padre e di sua madre. Dividendosi al massimo tra chi odia di più gli immigrati e l’Europa e chi invece odia più le élite, o per dirla in italiano la casta. Come è potuto accadere? A mio padre comunista, a mia madre comunista. Ridotto all’osso, è accaduto che la sinistra ha abbandonato la rappresentanza del ceto sociale e territoriale che la votava. Ha sposato – non importa se abbia fatto bene o male, Eribon pensa male, ma non è il punto – la “modernizzazione”. Importa un giudizio che nasce dall’osservazione autobiografica: la sinistra dei “meriti e bisogni” non ha rimosso la divaricazione sociale, l’ha semplicemente riprodotta. Così la gente ha iniziato a votare Le Pen.
Decenni dopo, gli operai di Reims o di Grugliasco hanno il 42 pollici e il suv. Ma non l’ascensore sociale. Votano “contro”
Fin qui la storia. Poi c’è qualche domanda, che il ritorno a Reims evoca se si prova a sottrarlo al contesto politico francese. Il punto d’attacco dello scavo di Eribon è ben puntellato nel pensiero di due critici radicali, o decostruttori, dei sistemi sociali in quanto tali. Il sociologo Pierre Bourdieu, con la sua critica dei “meccanismi” con cui le gerarchie sociali si riproducono e in base ai quali vengono distribuiti i ruoli sociali. E Michel Foucault, per il quale la “fissazione” che “il potere” fa della storia e persino dei corpi delle persone è il punto dirimente di qualsiasi discorso sulla politica. Un pensiero duramente determinista, in cui lo spazio della libertà di scelta personale è ridotto alla pura ribellione. Ma non è nemmeno questo il tema in questione. Il tema è questo. Nel loro determinismo, Bourdieu e Foucault appaiono oggi come i pochi a tener duro sul concetto che le classi sociali esistono, che esistono classi dominanti e classi subordinate chiuse dentro al cerchio – spesso anche geografico – della costrizione sociale. Decenni dopo, i figli degli operai di Reims o di Grugliasco non hanno più fame, hanno la tv 42 pollici e il suv diesel che inquina. Ma per quanto riguarda l’ascensore sociale, la sicurezza del luogo in cui vivono, l’accesso all’istruzione superiore o la dimestichezza a vivere in un sistema globalizzato, restano inchiodati alle antiche zolle di appartenenza. Solo che non hanno più un “noi” che le rappresenti con un patto credibile, la sinistra è diventata un partito dei “loro”.
La sinistra ripete il mantra “dobbiamo ripartire dai territori”, “dai bisogni degli esclusi”. Dovrebbe ripartire dai fatti
L’Umbria in cui tra una settimana potrebbe vincere un candidato leghista; l’Emilia-Romagna in cui potrebbe accadere lo stesso. Le regioni del nord in cui la destra oggi salviniana domina da oltre vent’anni o il sud che due anni fa ha incoronato con plebiscito il Movimento cinque stelle sono lo specchio dello stesso smottamento. Per non parlare della Brexit, della Polonia. Quando la sinistra italiana, e non solo lei, ripete come un mantra “dobbiamo ripartire dai territori” e “dai bisogni degli esclusi”, anziché imbastire ricuciture sociali puramente teoriche, e avvertite per tali, dovrebbe provare a ripartire dai fatti. Dal fatto che c’è un “noi” che è rimasto un “noi”. La Leopolda riparte dal territorio della Leopolda, ma il tema è ineludibile per qualsiasi partito che non voglia rassegnarsi alla carica dei populismi. Quando Eribon scrive che “oggi si potrebbe quasi descrivere le zone popolari attorno alle città francesi come il teatro di una guerra civile latente”, quando citando Bourdieu dice scrive che la risposta dei governi sembra ispirato a un “funzionalismo del peggio” – ad esempio per il sistema scolastico che in Francia è molto espulsivo, ma almeno lì il disastro è tema di dibattito politico, in Italia no – forse esagera, ma una sinistra che non ci pensi (e anche un centrodestra che non ci pensi) è destinata a fallire. Che in Italia libri lucidi e dolorosi come quello di Eribon non ne siano usciti, non con la stessa radicalità, la dice lunga. Alla fine, per spiegare a se stesso perché abbia compiuto questo ritorno, Didier Eribon cita la motivazione che Annie Ernaux ha dato a se stessa, per scrivere i romanzi che ha scritto e che di questo irreparabile “noi e loro” sono aspra testimonianza: “Vendicherò la mia razza”. Quella che libri non ne legge né scrive. Al massimo, quando è incazzata, va a votare.
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