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Perché la proposta “rivoluzione verde” non è un pasto gratis

Alberto Clò

Dagli Stati Uniti all’Europa si discute di carbon tax. E’ opportuno aumentare il costo dell’energia per gli elettori?

Più si entra nel merito di quel che bisognerebbe fare per fronteggiare la questione climatica, delle politiche climatiche, più emerge una dirimente e ineludibile condizione: il loro costo. Da un lato, le immani risorse che bisognerebbe impiegare sottraendole ad altri fini, e, dall’altro, l’aumento dei prezzi dell’energia. E qui sorge un problema: gli effetti fortemente distributivi delle politiche climatiche, i cui costi si sono scaricati soprattutto sulle classi a reddito medio-basso (pagando, per esempio, i pannelli fotovoltaici alle famiglie a maggior reddito). Non gradirebbero certamente ancora maggiori prezzi che, vale rammentare, sono i più elevati d’Europa. La campana dei gilet gialli – suonata inizialmente dalle popolazioni delle aree agricole – suona per tutti. In primis per la politica, Emmanuel Macron fece una ridicola marcia indietro per i pochi centesimi che aveva caricato sul diesel, mal disposta a sopportare i costi elettorali – certi, immediati, rilevanti – in vista di futuri incerti benefici. E di pagare costi locali a fronte di benefici globali, con molti paesi, a iniziare dall’America, che beneficerebbero dell’impegno altrui senza sopportare alcun onere. E’ questa una delle prime ragioni che hanno frenato i governi a dare seguito agli impegni pur solennemente presi a Parigi con l’accordo del 2015. Da allora le cose (aumento consumi energia, perdurante dominio delle fossili, marginalità delle rinnovabili, aumento emissioni) sono peggiorate, non per cattiva volontà o la pressione delle lobby petrolifere, ma per oggettive difficoltà più politiche che tecniche.  

 

 

 

E’ in questa cornice che va calata la ricorrente proposta di introdurre una carbon tax sulle emissioni di anidride carbonica (poco meno dell’80 per cento delle emissioni totali di gas serra) o sui prodotti energetici in funzione del loro contenuto carbonico. Una proposta che rappresenta la quintessenza delle imposte pigouviane: internalizzare nei prezzi i costi sociali non pagati delle esternalità negative, quali appunto quelle ambientali. Una proposta che richiede alcune condizioni per essere effettivamente efficace: che il livello della carbon tax sia consistente (la Commissione ha proposto che in Europa aumenti dagli attuali 25 doll/tonn a 100 doll/tonn nel 2030); che sia adottata da un numero di paesi elevato e significativo sulle emissioni globali; che sia declinata nei vari paesi in modo similare. Condizioni a mio avviso altamente improbabili. In entrambe le sponde dell’Atlantico (per non parlare dei paesi emergenti). Alcuni leader storici repubblicani, tra cui gli ex Segretari di stato James A. Beker III e George P. Shultz, hanno proposto – sostenuti da un crescente numero di parlamentari repubblicani convertitisi alla causa climatica – una carbon tax sulle emissioni prodotte nel punto in cui le fonti fossili entrano nell’economia (raffinerie, porti, giacimenti, miniere, ecc.) per devolverne il ricavato, un ‘carbon dividend’, alle famiglie. Le importazioni da paesi privi di una regolazione delle emissioni avrebbero dovuto, a loro volta, sopportare un’eguale tassa al confine. Politica tanto più efficace quanto più condivisa da altri paesi a formare un ipotetico ‘climate club’ suggerito dal premio Nobel dell’economia William Nordhaus. Un insieme di idee – secondo i proponenti – nel segno del libero mercato e accettabile anche da una parte dei democratici, degli stati nazionali, delle stesse compagnie energetiche. Quella proposta non ha avuto tuttavia alcun seguito per la netta opposizione (in gran parte bipartisan) del Congresso che mai ha accettato, con Bush ma anche con Obama, di ratificare accordi climatici che aumentassero i costi dell’energia per le famiglie e industrie. Che l’Europa accetti di introdurla appare più verosimile, avendo agito in tema di clima sempre in modo unilaterale (leggasi Protocollo di Kyoto), incurante degli alti costi differenziali che andava a sopportare nonostante gli esiti del tutto simbolici sulla riduzione delle emissioni globali. Verosimile anche tenendo conto dell’ambiziosissimo impegno della nuova Commissione di elaborare in 100 giorni un “Green New Deal” per fare dell’Europa il primo continente zero-carbon entro il 2050. Penso tuttavia che la proposta di una dura carbon tax difficilmente passerebbe al vaglio dei governi, se non altro per il fatto che l’Europa già paga l’energia sino al 50 per cento in più dell’America. Da ultimo l’Italia, che vanta il triste primato dei prezzi dell’energia tra i più alti dell’Unione a causa soprattutto delle più elevate imposte. Che si faccia il pieno della benzina, si paghino le bollette di metano, o quelle dell’elettricità un fatto è comune: si stanno rimpinguando le casse dello stato. L’energia, in quanto tale, è voce percentualmente del tutto minoritaria. Imposte non denominate carbon tax, anche perché non declinate in funzione del contenuto carbonico, ma che per i consumatori non fanno alcuna differenza. Consumatori che prima o poi voteranno.

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