Il diritto del capitale
Un libro ci spiega come i giuristi creino le condizioni affinché “le cose” si trasformino in ricchezza
Non sono molti i libri giuridici che meritano l’attenzione dei non giuristi. “The Code of Capital” (Princeton University Press) di Katharina Pistor è uno di questi. Il punto di partenza dell’autrice, una delle più raffinate comparatiste sulla scena accademica, è pikettiano: la ricchezza è distribuita in modo iniquo e l’iniquità è in aumento. Ma il libro subito si sposta sui meccanismi legali che supportano questa tendenza. E’ il diritto che trasforma le “cose” (e le “idee”) in capitale. Più precisamente, è la legge che riconosce un diritto su determinati beni e così facendo assegna al titolare delle prerogative tali da rendere quei beni “suoi”. Fin qui nulla di nuovo; si è sempre saputo che occorre la legge per riconoscere e tutelare la proprietà: solo il diritto può attribuirle il carattere assoluto che la contraddistingue.
Tuttavia, quello che Pistor mette in luce nel corso del libro è che, soprattutto nei paesi di common law, l’evoluzione giuridica, grazie alle spinte degli avvocati e alla recettività delle corti, ha portato a una forte espansione del perimetro e delle prerogative attribuite ai diritti di proprietà. Nelle sue parole, “gli interessi delle classi dominanti non hanno bisogno di piegare la mano dello stato [per ottenere migliore protezione]: tutto ciò che serve loro sono buoni avvocati in grado di padroneggiare il diritto del capitale”.
I vari capitoli del libro descrivono la lunga marcia del diritto verso la sempre più forte protezione del capitale. La migliore illustrazione della tendenza del diritto a convertire i beni in capitale si rinviene nel capitolo che contiene un excursus storico sulla proprietà fondiaria in Inghilterra. Nei secoli, la terra è diventata capitale grazie al riconoscimento da parte delle corti di un diritto di priorità universale su terre precedentemente comuni; l’invenzione del trust e l’uso di analoghi artefatti giuridici ha poi consentito di sottrarre il capitale anche alle pretese dei creditori degli individui, più o meno scapestrati, che di volta in volta all’interno della famiglia capitalista si siano trovati a godere dei relativi frutti.
Ma anche quello che viene comunemente identificato come il motore del capitalismo imprenditoriale si presta a una lettura in chiave di conservazione e protezione del capitale: anche la società per azioni è uno strumento per proteggere e conservare nel tempo un patrimonio individuale o collettivo, minimizzando i relativi rischi e le pretese fiscali.
E il diritto è anche alla base della finanza: è una garanzia dello stato, esplicita o implicita, a consentire alle banche di creare danaro ben oltre i limiti che sarebbero imposti dalle forze del mercato. Ed è la creatività dei giuristi, associata a quella dei banchieri d’affari, che ha consentito la moltiplicazione del debito nella forma delle cartolarizzazioni venute alla ribalta con la crisi del 2007-2009. Non senza il vantaggio di potere confidare nell’intervento dello stato se il castello di carte dovesse crollare: come è infatti avvenuto al culmine della crisi finanziaria.
Pistor analizza poi con le stesse lenti l’espansione dei diritti di proprietà intellettuale, prendendo come esempio estremo di questa tendenza la pretesa (per ora non coronata da successo) di trasformare in capitale lo stesso codice genetico.
In teoria, ciascuno stato è sovrano nel porre freni ai capitalisti e di riallocare le risorse economiche a proprio piacimento. Ma Pistor mette in luce la tendenza degli stati a riconoscere le istituzioni capitalistiche altrui (le società per azioni e i trust esteri, per esempio), aprendo la via all’arbitraggio regolamentare e fiscale. Inoltre, gli stati hanno perso sovranità con la firma dei numerosi trattati bilaterali o multilaterali di investimento, grazie ai quali un investitore straniero può ottenere una decisione favorevole presso una corte arbitrale internazionale, ove lo stato ospitante adotti comportamenti lesivi in contrasto con le regole di protezione sancite dal trattato. Dunque, quando una nuova legge dello stato danneggia un investitore estero in quanto tale, questi può ottenere il risarcimento del danno sulla base della pronuncia di un collegio di avvocati privi di ogni legame con lo stato in questione. E’ ovvio che un assetto di questo tipo favorisce ex ante gli investimenti esteri e dunque il paese che li riceve. Ma è anche innegabile che questo assetto rafforzi un sistema di regole a tutela del capitale.
I principali colpevoli di questo stato di cose sono, per la Pistor, gli avvocati inglesi e americani, che hanno per secoli goduto non solo di un prestigio e di un’autonomia dallo stato più significativi che altrove, ma anche di un più stretto rapporto con il sistema delle corti, composte da ex avvocati. Diverso è stato il caso in Europa continentale, dove la selezione dei magistrati al di fuori della classe forense ha reso il sistema giudiziario meno incline a questo esito. E tuttavia, grazie all’apertura dei singoli ordinamenti alle istituzioni giuridiche altrui con la firma dei vari trattati internazionali, le invenzioni del diritto anglo-americano sono state esportate quasi ovunque.
Del libro si possono condividere o meno i toni allarmati e le premesse pikettiane, così come la tendenza a sminuire il ruolo della proprietà capitalistica nel promuovere lo sviluppo economico, concentrandosi sugli innegabili eccessi di tutela giuridica. Ma ha il pregio di mettere in luce il ruolo dei giuristi e del diritto privato nel delineare un quadro giuridico favorevole alle ragioni dei capitalisti su quelle di tutti gli altri; risultato, questo, che non può ritenersi scollegato al clima di insoddisfazione e protesta che alimenta i populismi di destra e di sinistra in Italia e altrove. E la relativa cautela delle prescrizioni di policy con cui il libro si chiude confermano che l’autrice non è in cerca di facili ribalte, bensì è animata da rigore intellettuale e genuina preoccupazione per le sorti della democrazia liberale.