Traffico di Influencer
La rivoluzione dei like, il corso populista di Instagram, il futuro senza quattrini di TikTok. Ma si può ancora trasformare in oro (e in un lavoro) l’algoritmo di un social? Nomi e idee. Viaggio contromano nelle case dei guru italiani, tra predoni, stories e incredibili opportunità
Grande è lo scompiglio sotto il cielo di Instagram: l’allarme arriva in contemporanea da Novedrate e da New York: nella località brianzola la università telematica eCampus ha da poco lanciato un corso di laurea per influencer, e lo sdegno è immediatamente esploso nel paese (nel senso dell’Italia, non di Novedrate); nel frattempo però il prestigioso New York Magazine annuncia con toni altrettanto ansiosi che gli influencer sono finiti. Dove sta la verità? A Novedrate o a New York? L’Italia è nuovamente in ritardo sul mondo? Con ordine: la eCampus, moderno istituto che si fregia anche di Cristiano Ronaldo come testimonial, ha annunciato lo specifico corso presso la facoltà di Scienze della comunicazione. Nel primo anno le materie previste sono Estetica della comunicazione (12 crediti formativi), Informatica (6), Organizzazione aziendale (6), Semiotica e filosofia dei linguaggi (12), Sociologia dei processi economici (12) e Tecnica, storia e linguaggi dei mezzi audiovisivi (12). E negli anni successivi anche teoria e tecnica dell’ufficio stampa. Il corso “fornisce le competenze e gli strumenti necessari per affrontare adeguatamente quello che potremmo definire il nuovo marketing, quello social, ‘influenzale’, che sta progressivamente scalzando il marketing tradizionale” (influenzale è molto bello). L’obiettivo del corso influenzale è “di preparare una figura in grado di esercitare la propria attività in maniera professionale, svincolandosi da quella mancanza di rigore e dall’utilizzo di cattive pratiche che penalizzano chi aspira al ruolo di influencer ma non ha un’adeguata preparazione per avvicinarsi con competenza a questo settore”.
L’università telematica in Brianza lancia un corso di laurea per influencer, il New York Magazine ne decreta la fine
Da New York rimbalza invece la denuncia di Tavi Gevinson, attrice, scrittrice, soprattutto (eh sì) influencer americana, che a un certo punto ha deciso che la sua vita online non corrisponde più a quella reale. Addirittura, l’influencer pentita dice che quando si rivede sul telefono si trova “a invidiare la mia vita come se fosse quella di qualcun altro”. Il New Yorker le è andato subito dietro: l’èra della falsità è finita, è ora di tornare o arrivare per la prima volta alla spontaneità, o almeno a qualcosa che ci si avvicini. “Le foto aspirazionali, cioè quelle con un bel vestito, con una bella macchina, con un bel fidanzato, andavano bene qualche anno fa, ma ora gli utenti vogliono post che siano più veri, reali, candidi” ha decretato il settimanale, secondo cui anche Instagram medesima, nella sua furia di cambiamento, ha cambiato per l’ennesima volta l’algoritmo, questa volta in versione “semplicità”, privilegiando chi mette contenuti più “veri”. La nuova parola d’ordine è: “relatability”, cioè essere persone vere, vicine alla gente.
Secondo l’Atlantic, pure l’estetica di Instagram è superata (quel particolare gusto fatto un po’ di case Airbnb, design moderno-finnico, pareti candide, colazioni con avocado toast e “latte”, tutto con filtri alla bisogna). Tutto ciò, ha scritto il magazine, è andato così bene che finora “era” Instagram – e forse stava diventando la realtà: ci sono posti creati solo per essere instagrammati, come certi bagni d’hotel impraticabili ma così fotogenici.
Ma adesso basta, tutto finito: Instagram ha passato la boa del miliardo di utenti mensili, e in qualche modo è diventato adulto. Basta dunque foto sulla spiaggia, basta mangiarini fotografati con la luce giusta, basta foto pettinate di smandrappate che si cambiano venticinque volte al giorno. Come in una crisi di mezza età, quando ci si fa la chitarra o la Harley Davidson o il cane: d’ora in poi, tutti spontanei.
Il gentismo su Instagram si accompagna peraltro a un’altra rivoluzione: il suffragio universale dei like. Come tutti sanno, da qualche mese sotto ogni foto o video non è più visibile il numero dei “mi piace” che quel contenuto ha ottenuto: solo l’utente che lo ha pubblicato può avere accesso a tale informazione. Non c’è più quindi nessuna differenza tra un post di Chiara Ferragni e quello di un poraccio qualsiasi. L’“uno vale uno” è arrivato dunque anche sul fatidico social, con l’obiettivo ufficiale di “aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono”, come ha spiegato una portavoce del gruppone californiano. “Vogliamo che Instagram sia un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimersi. Stiamo avviando diversi test in più paesi per apprendere dalla nostra comunità globale come questa iniziativa possa migliorare l’esperienza su Instagram”. Naturalmente si sospettano efferate manovre alla base della decisione padronale.
In America si dice che l’èra della falsità è finita, è ora di tornare o arrivare per la prima volta alla spontaneità
“Tutta la roba degli influencer ‘classici’ è finita”, mi conferma un primario pierre che lavora per un grosso marchio milanese della moda – per parlare di Instagram in Italia bisogna salire su a Milano, necessariamente.
E poi è lo stesso Instagram che è cambiato: “Sai che mia mamma si è iscritta questa settimana?”, mi dice. Rifletto un attimo e penso che anche la mia di mamma si è iscritta questa settimana. La settimana delle mamme su Instagram sarà uno spartiacque? “Il fatto è che i giovani vogliono uno spazio loro, e se arrivano le mamme, se arrivano i settantenni, loro andranno altrove”. Quell’altrove è TikTok, dice il pierre-saggio, “che usano tutti i teenager, per i quali Instagram è diventato come per noi Facebook, cioè una roba per babbioni”.
L’ambizione di piacere agli altri. La casa dell’influencer adulto, che sembra fatta apposta per essere instagrammata. Il modello televisivo. Il guru che rivuole i like, adrenalina del social network
Alla sera vado a mangiare una pizza con una coppia di amici millennial, tutti e due molto svegli e molto informati, e decidiamo di scaricarci il giorno dopo TikTok. Sono praticamente solo video di ragazzini brufolosi e ragazzine un po’ scosciate, altre bambinesche, che ballano in playback su musiche di moda. Forse è solo che sono troppo anziano, ho oltrepassato quella soglia per cui cerchi di capire il nuovo – la classica resa, come i nostri genitori col videoregistratore negli anni Novanta.
TikTok, praticamente solo video di ragazzini brufolosi e ragazzine un po’ scosciate, altre bambinesche, che ballano in playback su musiche di moda. Il mondo di Instagram che cambia: vedi Chiara Ferragni, nessuno la considera più un’influencer, ormai è una celebrity
“Le influencer di una volta, quelle che si cambiano venti volte al giorno, ecco, quelle proprio no, non le invitiamo più”, continua. “Sono diventate intercambiabili, vanno a tutte le sfilate. No”, dice il primario pr, che mantiene una segreta identità come un Buscetta del fashion. “Hai visto Prada? All’ultima sfilata ha voluto le attiviste, altro che influencer”. A riprova, sostiene Buscetta, che “la moda sta cercando modelli diversi di femminilità. Il corpo della donna ha assunto un valore politico, e le donne ora devono avere un valore e peso specifico, devono essere impegnate in battaglie sociali, devono rappresentare l’uguaglianza”. “La moda cambia in continuazione. Oggi agli influencer sono arrivati tutti, e le ragazze sono stufe di vedere una che si fa le foto ai vestitini. Rifiutano di identificarsi con lei”.
L’obiezione è ovvia: reduce dai trionfi del documentario su sé medesima presentato a Venezia, non parrebbe proprio in crisi la Ferragni. “Ma la Ferragni ti dà proprio idea di come sta cambiando il mondo degli influencer: lei è ormai qualcosa d’altro. Lei è un’imprenditrice, ha la sua linea di abbigliamento, è una celebrity. Non è più un’influencer, e nessuno la considera più tale”.
Non è più e non è solo un influencer nemmeno un’autorità dell’Instagram milanese e dunque italiano come Paolo Stella. Quarant’anni ma ne dimostra dieci di meno, 318 mila follower, mi riceve nella sua nuova casa a Milano, casa in cui lui ha traslocato da un giorno soltanto ma che milioni di italiani conoscono già perché hanno seguito tutta la ristrutturazione nelle migliaia di stories che Stella irrora ogni giorno nell’etere instagrammatico.
Nell’atrio liberty del palazzo inciampo in una lavatrice Candy ancora imballata e cerco involontariamente uno specchio; una delle trovate di Stella è infatti lo “specchiostella”, un momento in cui si prova l’outfit del giorno prima di uscire di casa, commentandolo con qualche frase ironica (l’ironia in generale direi che è il segreto del suo successo, insieme alla creazione di un vero e proprio palinsesto televisivo della sua giornata). C’è il momento dello specchiostella e c’è il momento del buongiorno (lui gira per casa, un po’ scollacciato, o sussurra dei “buongiorno” suadenti ancora sotto le coperte); c’è il momento dello spacchettamento, forse il più interessante e geniale in cui Stella scarta regali arrivati dagli sponsor – vestiti, generalmente, ma anche profumi, accessori, cibo. Mostra lo sponsor, dice qualche frase di circostanza mai uguale (“ma grazieee, che carino! Top!”, “è la nuova crema per collo e décolleté di La Mer”), coadiuvato in questo dalla governante Ana, che automaticamente è diventata personaggio influenzale pure lei. “Scusate, è arrivato anche un Ralph Lauren. Che non lo apro?” – zoom sulla faccia della governante, lei: “Sì!”, timidamente. Lui: “Guardate che faccina!” (i follower in sollucchero, è tra Casa Vianello e i Jefferson). “Ohhh! Tom, grazie, love you so much”, per un profumo di Tom Ford; “Ah, così mi lavo i denti per bene!”, per un pacco di dentifricio Marvis. E’ il Carosello nell’èra di Instagram, una pubblicità primordiale che però, questa sì, ha forse quel senso di semplicità che gli americani pretendono dal medium oggi. “C’è gente che mi ha detto: ho disdetto Netflix perché preferisco guardare te”.
Stella sulla governante crea dei tormentoni, la loro diventa una vera e propria soap. Così fa un po’ impressione, quando, tra gli scatoloni del trasloco, chiede se voglio un caffè e il caffè lo porta proprio Ana. “Guarda che lei ha firmato dei contratti eh!”, dice il padrone di casa, e arriva in carne ed ossa Ana Maria Aguilar, che ha un suo account e ha 2.207 follower, 500 più di me, per dire (lei ha delle foto un po’ scombinate e poi delle immagini del marchio di gioielli di Liu-Jo, e in alcuni post è vestita da sera e scrive “Domani il primo giorno di lancio di Liu-Jo, che emozione!”. Influencer in crescita). Il momento spacchettamento di solito viene annunciato da una sigla con la musica di “Ok il prezzo è giusto”. Io al cospetto di Stella e della cameriera mi emoziono e mi stranisco, è una forma di celebrità che non riesco a decodificare.
“Chi vuole fare l’influencer oggi deve trovare un modo di raccontare la vita in un modo assolutamente personale. Televisivo. Ecco, sta tornando il modello televisivo. Piccoli programmi”, riflette Stella. “La più brava per me è Giulia Valentina, ti racconta delle cose divertenti”. Corro subito a guardare il profilo di questa Giulia Valentina (679 mila follower): è una bella ragazza molto giovane e assertiva che fa soprattutto delle storie con i suoi due chihuahua, ma naturalmente niente è come appare. In una sezione del suo account ha decine di storie su come si gestisce un profilo, su come si acquisiscono follower, in definitiva su come si diventa un influencer. Una vera sezione q&a con i lettori che scrivono e lei in definitiva risponde: “La domanda giusta non è come si può diventare famosi, ma: ho qualcosa di divertente da dire? Da comunicare? Voglio far ridere? Intrattenere? Informare? Questa è la domanda giusta. Poi i follower saranno una conseguenza”.
C’è il momento dello spacchettamento, forse il più interessante e geniale in cui Stella scarta regali arrivati dagli sponsor “Ohhh! Tom, grazie, love you so much”, per un profumo di Tom Ford; “Ah, così mi lavo i denti per bene!”, per un pacco di dentifricio Marvis. E’ il Carosello nell’èra di Instagram
Stella è di Forlì, e viene da una famiglia di imprenditori. “Mio padre non ho mai capito che lavoro facesse, poi mi hanno spiegato che si occupa di energia rinnovabile. Tutti ingegneri in casa mia. Io la pecora nera, ho studiato architettura ma non mi sono laureato”. “Mia madre si vergognava quando facevo ‘Amici’”, ride. La tv è centrale nella sua formazione, mi pare di capire. Ha fatto appunto la seconda edizione di “Amici”, e varie serie, “Incantesimo” e “Un ciclone in famiglia”. Si vede che l’impronta è rimasta. Gli dico che a me la Ferragni mi annoia ultimamente. “Chiara va bene quando ti vuoi rilassare, a me piace molto, ha fatto un percorso incredibile”, dice, parlando con galateo da colleghi, come quando una grande conduttrice parla di una rivale. “Il mio”, intendendo palinsesto, “è forse più strutturato, ci sono appuntamenti fissi. Lei è uno”, e indica la governante-influencer. Lo aiuterà qualcuno a scrivere questo palinsesto? Ci saranno degli autori occulti? Macché. “Il palinsesto lo inventa il pubblico. Io faccio delle cose a caso, poi sento la reazione dei follower, tipo il momento dello spacchettamento o dello specchiostella. Lo vedi quello specchio enorme nell’androne? L’ho dovuto mettere apposta, perché è il momento più richiesto”.
All’ingresso vicino allo specchiostella ci sono delle signore anche emozionate che lo attendono; “siamo della Candy”, come la lavatrice giù nell’atrio. La casa di Stella, un bellissimo – in gergo immobiliare – plurilocale, non lontano dalla stazione Centrale, pare fatta apposta per essere instagrammata: l’ingresso è foderato con una speciale tappezzeria “customizzata”, e in alto corrono frasi del suo libro, un romanzo che si intitola “Meet me alla boa”, Mondadori, che Stella spinge tantissimo nelle storie, ripostando in continuazione commenti di lettori e lettrici entusiaste (ripostare, rispondere a tutto, ai commenti e ai messaggi privati è uno dei segreti degli influencer, mi hanno detto).
Il progetto della casa è dello studio Palomba-Serafini (che campeggia con il suo hashtag in tutte le storie, per questo lo so pure io). “Ma sono amici. No, non è una sponsorizzazione come con la cucina”. Quale cucina? “Questa”, dice, indicando la monumentale isola che troneggia nel salone. “Naturalmente l’azienda produttrice è venuta da me e mi ha proposto uno sconto, come succede sempre, insomma, in cambio di una serie di post sponsorizzati, ma io gli ho detto: vi faccio la direzione creativa per un anno, piuttosto. Che è il mio vero lavoro poi. Fare creative direction, strategie per le aziende. Campagne web”, dice Stella. Adesso sarà tuo padre che non capisce che lavoro fai. “Vero. Ma quando ha visto questa casa si è tranquillizzato, ha visto che è un lavoro serio”.
Nella casa meravigliosa ci sono televisori giganti impacchettati, piante enormi, pacchi che lasciano intravedere estreme felicità dei consumi; io vengo preso da irrimediabile voyeurismo; voglio vedere i bagni, e camera sua, e glielo chiedo, e lui gentile mi porta, mentre io mi rendo conto di essere assurdamente maleducato, ma in fondo questa è una casa ma è anche un set.
Mirko Scarcella, il maestro che insegna agli altri come si diventa influencer. I libri, i clienti che pensano di raggiungere il successo velocemente. L’Estetista cinica, o l’influencer riluttante: “È un mestiere che oggi tutti amano odiare”. La svolta nell’impresa commerciale grazie a Instagram
La vasca (di muratura, blu) l’ho già vista in costruzione nelle stories, la doccia al soffitto no, vorrei dirgli che alla fine è scomoda, è un po’ anche casa mia. Chissà cosa è comprato e cosa è cambiomerce. “Ah, no”, dice Stella. “Sulla casa sono selettivo. Un maglioncino che non mi piace me lo posso anche mettere” – nel senso fotografare, e farci un post. “Ma la casa no, la casa è sacra”. La sacra casa dell’influencer adulto, con i suoi parquet da antica borghesia e gli stucchi, mi pare un corrispettivo immobiliare perfetto dell’attico al bosco verticale della Ferragni prima maniera. “Ma io sono vecchio dentro”, dice Stella civettuolo.
Gli influencer non sono dei sentimentali. Sono degli imprenditori, evidentemente. Paolo Stella: “Di gente che va in giro a fotografarsi per Milano facendo finta di essere qualcosa che non è, è pieno. Ma è un mondo finito”. Un nuovo far west, tra algoritmi e mitomanie
Comunque l’Instagram prossimo venturo, il famigerato TikTok, non lo usa nemmeno lui. “E’ molto per ragazzini, e non ha nessuna conversione commerciale, perché sono persone che cantano canzoni di altri. Direi che per quindici anni ancora Instagram sarà al centro di tutto”. Nonostante i cambiamenti: “Il fatto che abbiano tolto i like secondo me è positivo, e lo dico contro il mio interesse, perché stiamo facendo numeri pazzeschi. Però che ne so, per il ragazzino che vuole postare una cosa, non avere più l’ansia del like lo vedo come una cosa positiva. Non c’è la vergogna sociale, ecco”.
“A me la quantità di like comunque non mi cambia molto”, dice poi Stella. “Così come se Instagram passasse di moda. Io mi sposto su un’altra piattaforma, su un altro canale”. Gli influencer non sono dei sentimentali. Sono degli imprenditori, evidentemente. E se il famoso genio imprenditoriale italico, forte un tempo nelle pmi e nelle fabbrichette, si fosse trasferito su Instagram?
Stella ha appena avviato un’altra impresa grazie a un’idea “che mi è venuta parlando con un mio amico chirurgo estetico: mi ha raccontato che aveva appena trovato la segretaria dei suoi sogni. Bella presenza, plurilingue, efficiente”. Ma a un certo punto va a vedere il suo Instagram e scopre che la efficiente segretaria si sfoga contro ciccione e signore meno perfette di lei. “Cioè proprio il target del chirurgo, che a quel punto è costretto a licenziarla”. “Lì ho capito che Instagram non serve agli influencer, ma serve alla gente normale, appunto alle segretarie, ma anche a un tabaccaio, un idraulico. Le persone normali che però non possono più fare a meno di una corretta comunicazione social per il loro lavoro”. Così ha messo su una specie di Masterclass, si chiama Wid Academy “con una serie di professionisti, sono lezioni online che insegnano tra le altre cose come si fa una foto bene col telefonino, come modificarle, come si scrive un post, eccetera”. Ho preso varie persone, ognuna brava nel suo campo, e nessuna di quella categoria che dicevi tu”. Stella non vuole più nemmeno nominarla, la parola influencer. “Di gente che va in giro a fotografarsi per Milano facendo finta di essere qualcosa che non è, è pieno. Ma è un mondo finito. Basta”.
Esco dalla casa dell’influencer adulto e chiamo Mirko Scarcella. Trentadue anni, autobiografia dell’Instagram milanese, da commesso di Zara è diventato un guru del settore. Oggi gestisce profili celebri e meno, spostandosi tra Milano, la Spagna e Miami; sforna libri di successo su – come ti sbagli – come si diventa influencer. Perchè una delle attività principali degli influencer, si è capito, è insegnare come lo si diventa. Scarcella comunque non è d’accordo sul nuovo corso populista di Instagram. “Intanto questa cosa che il conteggio dei like è scomparso c’è solo in alcuni paesi”, dice al Foglio. “E’ un esperimento che Instagram sta facendo su alcuni mercati secondari, come l’Italia e l’Irlanda, ma negli Stati Uniti, che è il loro primo mercato, non si sognano neanche lontanamente di farlo”, dice Scarcella. “Siamo un po’ dei topi da laboratorio”.
Continua: “Ufficialmente vogliono dare risalto a qualunque contenuto, senza che gli utenti siano condizionati. Potrebbe essere un modo per spingere le persone più timide a postare un contenuto. Quante volte tu sei stato indeciso se mettere una cosa o no, temendo che non prenda molti like?”, mi chiede. Sempre, penso. “Spesso”, gli dico. “Però alla fine è sbagliato: intanto il confronto continuerà a esserci con altre metriche: per esempio il numero di view di un video (anche sui video, pochi se lo ricordano, ma una volta c’erano i like, e poi son stati trasformati in view. Questa è stata una genialata di Instagram, perché tanti vedono i video ma poi non mettono like, per pigrizia, per invidia o perché non vogliono farsi vedere su Instagram o per altri motivi. Ma adesso togliendo i like togli l’adrenalina; la competizione è quello che spinge tutto, nella realtà come su Instagram, se non hai un confronto, se non hai l’ambizione di piacere agli altri, allora lascia perdere. Non è che Instagram si deve trasformare nel proprio rullino del telefono”. “Qualche giorno fa poi – continua Scarcella – è stata oscurata anche la funzione che ti fa vedere chi segue cosa: una possibilità che era spesso utilizzata per farsi i fatti degli altri, per fare gossip. I giornali la usavano per vedere, non so, se Rihanna si metteva a seguire Jay Z. Adesso hanno tolto anche questo, e forse anche per spingere le interazioni suggerite dagli algoritmi. Andare a vedere chi seguivi e a cosa mettevi like poteva essere un modo per scoprire nuove cose. Adesso invece in questo modo sei incoraggiato ad andare sulla sezione ‘esplora’, quella della lente di ingrandimento, e lì Instagram ti mostra profili che ti potrebbero piacere, in base a quello che già ti piace”. Inoltre, dice Scarcella, “Instagram starebbe testando la categorizzazione dei contatti seguiti in base all’ultima interazione con questi”. Togliere i like, alla faccia della spontaneità, può significare poi un ulteriore aumento di affari per Instagram. Se per esempio io fabbrico macchine e voglio assoldare un influencer che abbia un grande seguito nei suoi post in cui ci sono delle macchine, fino a oggi lo potevo fare in autonomia. Ma adesso devo andare da loro, da Instagram, loro me lo indicano. Una cosa che prima era gratuita ora insomma diventa a pagamento. In questo caso Instagram diventa una specie di agente dei suoi influencer, volenti o nolenti”.
La vita dell’influencer però non è tutta rose e fiori. Scarcella, imprenditore alla guida di un’azienda di social media marketing, che si occupa cioè di creare e far crescere profili Instagram di personaggi e aziende, è alle prese con le pretese sgangherate di alcuni clienti. “Qualcuno pensa di poter crescere velocissimamente, e poi si tira indietro. Qualcuno non ha i soldi per pagare ma non lo dice. Il mio è un servizio, e costa. I clienti me li scelgo con cura, eppure c’è sempre chi non sa cosa vuole, o non si può permettere questo servizio. Quando mi accorgo del loro bluff, impazziscono. Invece di dirlo apertamente cominciano a parlare alle spalle, c’è chi tenta di diffamarmi con altri clienti, chi tenta di fare piccoli ricatti… un altro mi minaccia di andare in tv o di picchiarmi se non gli ridò i soldi... è insomma un settore in cui c’è molta invidia, e c’è chi pensa di poter raggiungere il successo molto velocemente. Quando poi non riesce, va fuori di testa”.
“Aprire alla Rinascente mi ha fatto piangere, io che vengo da Sarezzo, ma se ci pensi tutti i cosiddetti influencer vengono dalla provincia. Ti dà la voglia di rivalsa”, dice Cristina Fogazzi, che da Sarezzo ha creato un mondo: “Ventuno milioni di fatturato solo online, ma il mio obiettivo è venticinque”
Instagram insomma sembra proprio il nuovo far west, tra algoritmi e mitomanie, coi suoi predoni ma anche con le sue opportunità incredibili. Lo dimostra l’Estetista cinica, nome d’arte di Cristina Fogazzi, quarantacinque anni, forse sconosciuta ai più analogici di noi, ma non al mercato: col suo marchio Veralab fa “ventuno milioni di fatturato solo online, ma il mio obiettivo è venticinque”. Vende creme e saponi, tutto col suo logo, insieme a un mondo di racconti cosmetici sul filo dell’ironia. Ha cominciato spedendo i prodotti dal suo centro estetico in piazza Buonarroti, ora ha trenta persone che lavorano con lei. Fogazzi arriva dalla non ridente Sarezzo, centro della produttiva Valcamonica, la Silicon Valley bresciana dove si fanno tutte le posate e i rubinetti e le armi d’Italia. Dopo un diploma al liceo fighetto Arnaldo (che ho fatto anch’io), la Eton bresciana, “con l’odore di povero addosso, venendo da Sarezzo col pullman delle sette la mattina”, dice, se superi quella roba lì puoi superare qualunque cosa. “Sai che paura mi fanno gli influencer”, dice lei, che il fenomeno l’ha cavalcato, e oggi ride, “è il mestiere che sta sul cazzo a tutti oggi”, il mestiere che tutti amano odiare. Lei è diventata un’influencer a sua volta, influencer riluttante. Famiglia operaia, un anno a Lettere, poi ha cominciato col centro estetico, ma la grande avventura inizia perché “nel mio centro estetico volevo appendere dei quadretti che non fossero i classici quadretti Ikea. Così ho cominciato a disegnare delle vignette”. Le vignette sono una specie di contraltare ai consigli di bellezza tipici e utopistici che si leggono in giro: “Un rimedio immediato contro la cellulite?”, dice una. “Chiama la fata madrina”, risponde l’altra; “vignette con un’estetista terribile (io) che diceva cose cattivelle ma schiette alle sue pazienti per spronarle ma facendole contemporaneamente ridere; perché noi estetiste parliamo di cellulite e rughe, per fortuna, e non di malattie, quindi va bene essere competenti e preparate, ma bisogna anche essere leggere, perché per fortuna di cellulite, rughe e peli superflui non si muore, e la nostra vita è già talmente infarcita di questioni serie che almeno sull’estetica spero ci possiamo permettere di scherzare”. Così, si fa aiutare dall’amica Veronica Benini, al secolo Spora, naturalmente influencer, 95 mila follower, lei “parlava di donne, tacchi e autostima in modo diretto e senza giri di parole inutili, ho avuto una rivelazione. Parlava di tacchi ma senza farti sentire un’impedita totale se portando un sandalo fighissimo hai un male atroce ai piedi e dopo quattro ore di party in piedi a sorreggere un bicchiere vorresti solo un pediluvio e un taxi anziché arrancare fino alla macchina parcheggiata chissà dove”. L’amica Spora le dice che queste vignette andrebbero messe su Facebook: in pochi giorni il botto, diecimila follower. Nel frattempo lei comincia a vendere prodotti suoi, che mette sottovuoto per preservarne la freschezza “ma non avevamo soldi e abbiamo usato la macchina per il sottovuoto dell’Esselunga”. Poi arriva Instagram, si sposta lì, e le spedizioni passano da 30 a 30.000 l’anno, e il fatturato totale da 30 mila a 30 milioni (un numero da media impresa, da imprenditori riuniti a Capri, anche se nel mondo anziano analogico pochi la conoscono). “Quando abbiamo aperto il primo corner alla Rinascente in piazza Duomo c’erano duemila persone in fila. Una guardia si è avvicinata a mio marito e gli ha chiesto: ma lei sa chi è?”. “Aprire alla Rinascente mi ha fatto piangere, io che vengo da Sarezzo, ma se ci pensi tutti i cosiddetti influencer vengono dalla provincia. Ti dà la voglia di rivalsa”, dice lei, che da Sarezzo ha creato un mondo - ci sono “i video cinici” (tipo “la saga della cellulite”), l’alimentazione cinica e tutto quanto”. Un mondo di storie divertenti e ironiche in cui si impara anche a fare il debunking sulle creme insegnando a leggere le etichette (“siccome sono scritte piccolissime, fotografatele mentre la commessa non vi vede e poi zoomate!”). Lei si muove molto a suo agio in questa età della celebrità instagrammatica, con mosse geniali: come appunto spedire prodotti a influencer famosi, prodotti che poi vengono immortalati (anche da Paolo Stella, che li scarta spesso nelle sue stories), creare una maglietta con scritto “Who the fuck is Estetista Cinica”, che ha impazzato per Milano. “Beh, geniali, non esageriamo. Devi essere del tutto ritardato per non capire come si fa. Basta copiare gli altri”. “La maglietta era copiata da Keith Richards (Who the fuck is Mick Jagger) e il mandare gadget lo fanno quelli “grossi”, come Netflix che ti spedisce il mug o il cappellino per pubblicizzare le sue cose”. Tutto finisce poi ripostato su Instagram.
Insomma lei gli influencer li ha usati, “e non credo proprio che siano in crisi. Pensare che si possa fare a meno di loro è come se negli anni Ottanta uno non avesse capito il potenziale della pubblicità in tv. Sono come il commendator Rovagnati che pubblicizzava il prosciutto da Mike Bongiorno” (un nome che ritorna). Lei, utilizzatrice finale di influencer e “alla fine, influencer mio malgrado anch’io”, continua a fare “foto orrende, non ho mai imparato, e oltretutto faccio una vita pochissimo instagrammabile, trascorrendo la vita sulla BreBeMi”, l’autostrada veloce che dalla Valcamonica e Brescia porta a Milano. Ma forse, secondo i dettami della nuova spontaneità, anche la Valcamonica diventerà improvvisamente sexy.
generazione ansiosa