Un manifesto per salvare il "vero" liberalismo
L'economista Deirdre McCloskey entra nel dibattito sul declino liberale con un libro ottimista che relega il populismo a nota a margine della storia
Coniugando un acuto senso del marketing e una sincera passione per il dibattito intellettuale, la Yale University Press ha da poco pubblicato un libro dell’economista e storica Deirdre McCloskey dal titolo Why Liberalism Works. E’ il controcanto a Why Liberalism Failed, libro del conservatore Patrick Deneen pubblicato dalla stessa casa editrice all’inizio del 2018, e diventato un caso editoriale – anche Barack Obama lo ha messo nei suoi consigli di lettura – per via della sferzante critica a un sistema che ha nel suo successo il germe del suo fallimento. McCloskey sostiene una tesi che più lontana non potrebbe essere. Il sistema liberale, dice, non solo è il migliore dei sistemi possibili, ma è anche molto meglio di quanto i suoi sostenitori siano disposti ad ammettere. Ha prodotto ricchezza diffusa, strappando generazioni su generazioni alla povertà, e ha generato un clima di libera circolazione di idee, innovazioni e capitale sociale e umano che è il vero motore del progresso occidentale. Se questo non è adeguatamente percepito è perché l’originale idea liberale, che lei chiama “liberalismo humane” è stato nel tempo minacciato da usurpatori che, anche nel nome del liberalismo, hanno introdotto elementi di centralismo statalista che sono estranei alla tradizione di John Stuart Mill, Adam Smith e via dicendo. Il sottotitolo è significativo: How True Liberal Values Produce a Freer, More Equal, Prosperous World for All, dove la parola più importante è true: la battaglia di McCloskey è per il “vero liberalismo”, quello disprezzato apertamente dai Trump, dagli Orban e dai Putin, ma anche messo sotto accusa dalla sinistra radicale che ha rinvigorito le categorie marxiste e visto con qualche grado di sospetto perfino dai sostenitori del “paternalismo libertario”, tendenza nudge. Il Vero Liberalismo è il suo pensiero dominante.
Deirdre McCloskey è una economista e storica americana che ha prodotto importanti contributi alla riflessione sulla condizione contemporanea, in tempi recenti con un’ambiziosa trilogia sull’“età borghese” – dalla prima rivoluzione industriale ai giorni nostri – che infiniti benefici ha addotto alle società occidentali e al mondo globalizzato. L’architrave concettuale di quelle opere è che le idee, il capitale umano e sociale espresse nell’ideale borghese sono stati i veri motori di una prosperità senza precedenti, che non può essere dunque ridotta al semplice accumulo e sfruttamento di capitali economici. McCloskey non è solo un araldo accademico della visione liberale e post-moderna, ma in un certo senso ne è un’incarnazione, una testimonianza, avendo deciso all’età di 53 anni di diventare donna dopo un lungo passato in cui era nota come Donald, esperienza raccontata nel libro Crossing: A Memoir, pubblicato nel 1999. Fiera critica di ogni forma di dirigismo e avvocato dello stato minimo, spesso viene associata al mondo conservatore oppure descritta come “libertaria”, aggettivo che non ama ma dal quale non riesce a liberarsi del tutto. Una volta si è definita così: “Una donna letteraria, quantitativa, postmoderna, liberista, progressista, episcopaliana, midwestern di Boston che un tempo è stata un uomo. Non ‘conservatrice’! Sono una libertaria cristiana”. Più di recente si è detta soltanto “liberale”, oppure “vera liberale, “liberale humane” – l’aggettivo è da intendersi nel senso di compassionevole – o “liberale 2.0”, in opposizione a una vecchia forma di liberalismo che giudica condivisibile ma incompleta.
Un paio di settimane fa l’autrice ha aggiunto un nuovo tassello alla sua produzione, pubblicando un libro dal titolo Why Liberalism Works: How True Liberal Values Produce a Freer, More Equal, Prosperous World for All (Yale University Press) il cui valore fondamentale non va ricercato già nell’originalità delle tesi esposte – è una raccolta ordinata e sistematica di cose che l’autrice dice da almeno quindici anni – ma nel dibattito all’interno del quale si colloca. Non sarà sfuggito a nessuno che di questi tempi il liberalismo è sotto accusa, e non è appena un fatto legato alla crescita di offerte politiche di marca illiberale, raccolte sotto il termine-ombrello “populismo”, quanto alla riflessione sulla tenuta di un sistema di pensiero che secondo diversi critici sta mostrando falle strutturali. Un fatto più profondo dei transeunti successi elettorali dei Trump, degli Orbán, dei Bolsonaro, dei Duterte e compagnia. I critici odierni del liberalismo si possono dividere grossolanamente in due categorie, i “reazionari” che si concentrano sulla dimensione antropologica e sociale – a loro dire autocontraddittoria – su cui poggia l’edificio liberale, e i “radicali” che denunciano gli effetti nefasti che il sistema ha prodotto in termini di disuguaglianze (non solo economiche) e di concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e delle grandi corporation, a discapito degli ultimi. Gli argomenti di questi gruppi si sovrappongono in alcuni punti della pars destruens, per poi divergere quando si tratta di immaginare come dovrebbe essere il futuro post liberale. Dovendo citare due autori particolarmente influenti nelle due tribù vengono alla mente Patrick Deneen, politologo americano dell’università di Notre Dame, e l’economista francese Thomas Piketty. Poi ci sono – e anche qui la distinzione è grossolana – diversi difensori del liberalismo la cui posizione potrebbe essere sintetizzata così: il liberalismo è buono e giusto, nei principi, ma qualcosa nella sua applicazione storica è andato storto, quindi occorre un qualche processo di rifondazione per restaurarne l’ideale originario.
In questo schema ipersemplificato, McCloskey confuta le critiche dei primi due gruppi – li chiama i “judgers” e i “nudgers”, quelli che castigano l’individuo o lo vogliono orientare con forme morbide di paternalismo statalista – ma allo stesso tempo resiste anche all’assimilazione nella squadra dei liberali in vena di parziale autocritica, e prende la strada della difesa dell’impianto liberale così com’era stato concepito, principalmente nel XVIII secolo, e come poi è stato applicato, e poco importa delle imperfezioni e dei tradimenti sperimentati lungo il percorso. Questo sforzo di difendere il mere liberalism, per parafrasare C.S. Lewis, di produrre cioè una esaltazione dell’ideale liberale “in purezza”, per dir così, è ciò che rende questo libro un contributo fondamentale per il dibattito odierno. Non sostiene che il liberalismo funziona malgrado i suoi limiti interni, ma che ha trionfato, cambiando il mondo in meglio, nonostante la massiccia campagna – iniziata, a suo dire, negli anni Ottanta dell’Ottocento – che ha visto la perniciosa estensione del ruolo dello stato nel regolare la vita delle persone. Le concessioni allo statalismo, talvolta portate nel nome di un “falso liberalismo”, sono all’origine delle sofferenze odierne, ma per McCloskey non è nulla di irreversibile, e perciò il suo è un libro “ottimista”, non annuncia la fine dei tempi né lamenta l’invasione dei barbari. Coerentemente con questa visione, l’economista giudica il momento populista come un accidente storico, una breve fase che passerà, non un sintomo di qualcosa di più profondo, e sostiene che Francis Fukuyama aveva ragione indicando l’ideale liberale come telos della storia. Probabilmente crede nella tesi di Fukuyama più di Fukuyama stesso, che nel tempo ha introdotto correttivi ambivalenti.
Per spiegare che il liberalismo funziona, McCloskey, che è innanzitutto un’economista quantitativa, nota che dalla rivoluzione industriale la condizione dei più poveri in occidente è migliorata del tremila per cento, e dunque i rivoluzionari o reazionari riformatori del capitalismo cattivo dovrebbero sapere che nessuna invenzione umana ha fatto tanto per combattere la povertà quanto l’era del Grande Arricchimento, epoca segnata dai diritti individuali e dal libero mercato. Su questa premessa, l’economista americana costruisce un manifesto per un “liberalismo 2.0”, che è “preTrump e adulto nelle politiche commerciali e nel dibattito civile; di tolleranza post obamiana nelle politiche sociali; postLyndon Johnson sui diritti civili; pre McKinley nella politica estera e preLincoln, o addirittura preJackson, nell’intervento dello stato nell’economia”. In sostanza, questo liberalismo dal volto umano “è principalmente contro la policy“, cioè contro la regolamentazione centralista, che questa avvenga in forme apertamente autoritarie oppure attraverso l’estensione delle burocrazie e l’orientamento dei comportamenti. Si potrebbe dire che si tratta di una posizione “libertaria”, ma è proprio questo il punto del libro: McCloskey sostiene che è liberalismo, anzi il Vero Liberalismo.
Pubblichiamo qui uno stralcio dell’introduzione del libro di Deirdre McCloskey “Why Liberalism Works: How True Liberal Values Produce a Freer, More Equal, Prosperous World for All”, pubblicato negli Stati Uniti dalla Yale University Press, e al centro del “Pensiero dominante” di questa settimana.
Quando avrete finito di leggere questo libro, spero di avervi convinto con l’idea di un nuovo, e vecchio, liberalismo. La parola liberalismo non dev’essere letta nel senso americano di una sfiancante politica antiliberale e avvocatesca di crescente pianificazione economica, regolamentazione e coercizione. E’ invece l’idea che ha il resto del mondo del liberalismo, “il piano liberale”, come il vecchio Adam Smith ha scritto nel 1776, “di uguaglianza sociale, libertà economia e giustizia”, con uno stato ridotto al minimo che aiuta davvero i poveri. Il vero liberalismo moderno. Sostengo la desiderabilità del liberalismo concepito nel XVIII secolo (questo è quanto sono originale e aggiornata), un’idea lentamente messa in pratica dopo il 1776, con molte esitazioni ed errori. Attorno al 2005 ho cominciato a rendermi conto che una “retorica” liberale spiega molte delle caratteristiche buone del mondo moderno se paragonata ai regimi illiberali precedenti – il successo economico del mondo moderno, le sue splendide arti e le scienze, la sua gentilezza, la tolleranza, l’inclusività, il tratto cosmopolita, e in particolare la massiccia liberazione di sempre più persone dalle gerarchie violente antiche e moderne. Progressisti, conservatori e populisti ribattono che il liberalismo e la sua retorica spiegano anche molti presunti mali, come la riduzione di qualunque cosa al denaro e al mercato o la scomparsa delle comunità, di Dio o la calamità dell’immigrazione da parte di non-bianchi e non-cristiani. Ma hanno torto.
Dalle Filippine alla Russia, dall’Ungheria agli Stati Uniti, il liberalismo è stato assalito di recente da populisti brutali e che usano la paura. E’ un problema. Eppure che un secolo e mezzo la rilevanza del liberalismo per una buona società è stata negata da un’offensiva più prolungata e stabile, portato da gentili e non-così-gentili progressisti e conservatori. E’ ora di dirlo.
Questo è un libro ottimista, in contrasto con la nube da fine dei tempi che è sempre a buon mercato. Il pessimismo è espresso in modo innocente da accademici ed editorialisti perbene. Ma poi viene sequestrato da tiranni che non sono affatto perbene […].
Il punto è convertirvi a un “liberalismo umano e vero” che probabilmente avete già dentro di voi: il liberalismo moderno […]. Ho cercato di muovermi sempre in avanti, nonostante le ripetizioni. E alcune ripetizioni sono salutari, sono cose che dovete davvero – davvero – sapere; innanzitutto che secondo il consenso scientifico fra gli storici dell’economia, a partire dal 1800 il tanto vituperato capitalismo ha innalzato il reddito reale pro capite fra i più poveri non del 10 o del 100 per cento, ma di oltre il 3.000 per cento. Cibo a basso costo. Appartamenti grandi. Alfabetizzazione. Antibiotici. Aerei. La pillola. L’educazione universitaria […]. E’ il fatto più macroscopico, eppure trascurato, del mondo moderno. Le statistiche dicono che la maggior parte delle persone pensa che l’effettivo potere d’acquisto dei più poveri siano aumentata circa del 100 per cento, tutt’al più del 200 per cento, cioè raddoppiata o triplicata. Si sbagliano. La crescita è stata molto più grande. Se lo capissimo, questa comprensione cambierebbe anche la nostra politica. Ad esempio, il Grande Arricchimento è un elemento cruciale per mostrare che il vero liberalismo umano che difendo qui è buono e arricchisce, in tutti i sensi. Il Grande Arricchimento non significa, naturalmente, che non si possa fare di più per aiutare i poveri, in particolare voltando le spalle alle numerose, mostruose eppure politicamente efficaci policy che li danneggiano. Ma significa che è assurdo attaccare, come fanno molte teorie politiche, un “capitalismo” che ha fatto più di qualunque altra cosa per aiutare i poveri. Il Grande Arricchimento non significa che alcuni pezzi di altri sistemi debbano essere scartati. Ma significa che sostituire completamente “il sistema” sarebbe un disastro per i poveri, com’è stato dimostrato nell’Unione sovietica a partire dal 1917, in Venezuela dopo il 1999 e molte altre volte nella storia.
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