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Non industrie, ma risarcimenti. Il sud in preda al delirio di onnimpotenza

Angelo Mellone

Nella gigantesca bolla comunicativa in cui sono intrappolati i discorsi sul disastro economico del Sud, non c’è spazio per l’autocritica. Il pensiero meridiano tra decrescita e muretti a secco

Anche lo Svimez è entrato nel cortocircuito social, e con esso i dati dolorosi che sforna con preoccupante regolarità sul Mezzogiorno. Oggi l’importante è trovare un colpevole e dunque, se statuiamo che milioni di meridionali hanno lasciato la propria terra – compresi coloro che potrebbero avere le competenze giuste per far del bene al luogo dove sono nati – è colpa dei Savoia. Se Palermo o Napoli non sono Milano è perché Milano è una città parassita che ingurgita miliardi e non risputa niente.

  

Ecco. Nella gigantesca bolla comunicativa in cui sono intrappolati i discorsi sul disastro economico del Sud, non c’è spazio per l’autocritica e anzi è un continuo rilancio ad additare il colpevole supremo: i Savoia, causa di tutto, sono fuori gioco, ma c’è lo Stato. E dunque lo Stato deve “risarcire” le terre che ha spogliato di energie, denaro, professionalità. Non serve ricordare, per dirne una, la Cassa del Mezzogiorno, non serve neppure riavvolgere il nastro della storia istituzionale del Sud per far notare il fallimento storico delle sue classi dirigenti e dunque delle masse popolari che quei dirigenti hanno eletto, reiteratamente, rendendosi complici di uno scambio politico depressivo, rapinatore e improduttivo, non serve nulla di tutto questo perché conta solo la presentificazione delle emozioni, la sarabanda dei like e oggi i like vanno in direzione di chi recita la litania dei “depredati”, degli sfruttati, dei buoni seviziati dai cattivi nordici e capitalisti. In questo fenomeno di psicanalisi collettiva, in questa gigantesca e mostruosa eco-chamber, ha attecchito una sorta di mito neo-pauperista – vedi la questione della decrescita felice, a sua volta prodotto del “pensiero meridiano” degli anni Novanta – che vorrebbe ristabilire l’identità meridionale sulle coordinate della lentezza, della smobilitazione industriale, scartando l’impetuosità dello sviluppo capitalistico a favore della bonaccia del mare ionico, guardando in direzione di un Mediterraneo ridotto a spazio di una gigantesca siesta multiculturale.

 

Più volte mi è capitato di sentirmi rispondere, mentre sbattevo come una mosca nel barattolo contro il muro di un paradigma suicida – ne ebbi la riprova anni fa in un surreale dibattito a Trani con Serge Latouche – che “da noi dove si mangia in due si mangia anche in tre”, a significare che dai nostri bisnonni possiamo recuperare l’abitudine ad accontentarsi, a vivere di poco, tanto è sufficiente il dono della bellezza di cui molti meridionali sono circondati senza esserselo meritati. Basta la barchetta per trasportare i turisti nella bella stagione, lo scorcio, il tufo bianco, i muretti a secco, l’economia informale e sommersa del baratto, e tutto si sistema. Poveri ma felici. Pezzenti ma finalmente liberi dalla nevrosi capitalista dell’accumulazione. E se il Sud si spopola – è quello il terribile corollario di questa mentalità – poco male, avremo meno bocche da sfamare, più spazio da condividere, meno persone con cui spartire il sole a picco in acqua e la meraviglia del chiaro di luna. Chi non si trova a suo agio in questo universo a-storico non deve far altro che raggiungere una stazione, un aeroporto, o mettersi in macchina e andare altrove. E’ così semplice.

  

Ma ecco il secondo corollario: tutto questo potrà avvenire solo quando lo Stato avrà “risarcito” – immagino con sussidi, agevolazioni, pensionamenti anticipati, o con il mito ricorrente delle “no tax area” – i meridionali vittime e sfruttati. Se non si comprende questo ingranaggio immaginario, che potrebbe essere definito un “delirio di onnimpotenza”, neppure si capisce la ragione per cui anziché porsi il problema vitale di come trattenere le imprese al Sud, gli unici movimenti sociali che appaiono sulla scena brigano in ogni modo per farle scappare, mentre le maggioranze silenziose preferiscono galleggiare in una silenziosa rassegnazione. Taranto è solo l’ultimo, e il più drammatico, di questi casi, ma è il possibile punto di un reale non ritorno. Il pauperismo può affascinare, la povertà fa orrore quando appare dove prima c’era benessere.

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