Cari millennial, smettete di chattare: una telefonata vi salva la vita
Così la messaggistica ci sta rendendo nevrotici
"Su Instagram tutti sanno tutto. Io voglio una connessione più diretta con i miei fan”, ha detto Puff Daddy qualche settimana fa in una Instagram Story, prima di passare al pratico e lasciare il suo numero di telefono, invitando tutti a scrivergli (una cosa che – pensavamo – non fa più neanche quello che incontri a un appuntamento al buio). Hanno fatto lo stesso anche Paul McCartney, Marshmello, Sophia Bush e un crescente numero d’altri vip che si sono resi conto del raffreddamento dei social network e pensano di correre ai ripari e restare vicini al proprio pubblico tornando ai classici. Naturalmente, a chi ha scritto un sms a Puff Daddy è arrivata una risposta automatica, perché quel numero non è davvero il suo personale, ma quello che gli ha assegnato Community, una start up di Los Angeles che sta riportando in voga (in vita?) la messaggistica tradizionale, offrendo un servizio di comunicazione privata accurata per superstar e politici. “A Community capiamo il valore del dialogo diretto”, è scritto sul sito. E fa niente se è finto, se Puff Daddy vi risponde con un sms che non ha scritto: il punto è che è soltanto per voi e voi potrete sapere che effetto fa vedere sul vostro schermo scintillare un “Diddy sent a message to you”. La messaggistica privata è il nuovo social network, ha scritto la scorsa settimana il New York Times.
E c’è un rinverdimento anche dell’altra decrepita cosa che facevamo, un tempo, con i cellulari: telefonare.
Non che i millennial telefonino. E non perché siano silenziosi, anzi: sono verbosi, comunicano continuamente, s’esprimono su tutto, specie su quello che non conoscono, perché credono di conoscere tutto, astrofisica compresa – “Parlo mai di astrofisica io?”. I millennial e pure tutti gli altri (ammettetelo) usano i messaggi privati (spesso vocali) o gli status pubblici (spesso subliminali) sui social network, le mail, i Dm (direct message, gli sms sui social network), le chat di WhatsApp. Comunicazioni molto lunghe, monologhi travestiti da dialoghi che danno almeno due grandi vantaggi o, se volete, libertà: escludono o posticipano, in fin dei conti edulcorano l’interazione con l’altro; dilatano il tempo dei contatti, consentendoci di rispondere a una richiesta quando ci va, soltanto se ci va. Svantaggi: quella dilatazione ci disabitua al sostegno, alla prontezza, alla semplificazione, al carpe diem e ci rende più facilmente rinunciatari; l’eccesso di libertà ci fa dittatori o almeno dittatoriali; la posticipazione ci fa rimuginare eccessivamente, e pensare ripensare leggere rileggere correggere cancellare riscrivere non porta che a evitare, rifuggire. Senza contare il fraintendimento, che è alla base delle interazioni fra persone e che durante una telefonata si può sventare subito, mentre in una chat o con dei messaggini vocali no. Possiamo scrivere due o tre o sette domande a qualcuno: risponderà sempre a una su due, una su tre, quattro su sette, noi impazziremo di rabbia, delusione, senso d’abbandono, e cominceremo a costruire castelli in aria, a mandare mail chilometriche e recriminatorie, mentre magari quell’altro, poverino, semplicemente ci aveva risposto di fretta alle cose che credeva più importanti, ripromettendosi poi di assolvere al resto, e naturalmente dimenticandoselo nello spazio di un pomeriggio perché distratto dal gruppo WhatsApp del condominio, e poi da quello dei colleghi, e poi da quello della palestra, e poi da quello per la cena con gli amici della palestra.
Scriveva di recente l’Atlantic che tutto questo aspettare, riformulare, fraintendere e centellinare l’immediatezza ci sta rendendo nevrotici e stanchi abbastanza da sperare ragionevolmente che presto vorremo salvarci, riaverci e, scortati dai ventenni, riprenderemo il coraggio di “fare almeno una telefonata”, come Zingaretti avrebbe voluto che facesse Renzi prima della scissione. Scrive l’Atlantic che i ventenni (Gen Z) hanno maggiore dimestichezza con la fisicità degli scambi verbali, essendo cresciuti con YouTube, Snapchat, Skype, FaceTime, tutti strumenti che, per quanto virtuali, li hanno abituati a parlare molto più che a scrivere. Anche i millennial cominciano a dare segni di esautorazione, probabilmente perché pagano a caro prezzo e sulla loro pelle l’essersi illusi che la comunicazione scritta li facilitasse e consentisse loro di esporsi: cominciano invece a capire che dire liberamente non corrisponde a fare liberamente, e che non c’è modo di spianare l’incontro con l’altro. Certo, dovranno prima curare l’ansia patologica da conversazione che, nel frattempo, hanno maturato (a settembre il New York Times ha pubblicato un articolo che rassicurava i giovani in carriera sull’innocuità delle chiacchiere tra colleghi: ragazzi, abbiate fede, scambiare due parole con capi e sottoposti o liberi e uguali non potrà ledere al vostro curriculum vitae e anzi, in certi casi, non farà che aumentare le vostre skill – e già).
E allora telefonate. Messaggiate. Lasciatevi andare. Lasciate gli addii via Instagram agli scissionisti. Siate quelli che restano, e che ci mettono la voce, o un sms. Prima o poi verrete rivalutati, imitati, seguiti, perdutamente amati. Specie dai ventenni.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio