“Il diario di Bridget Jones” (Bridget Jones's Diary) è un film del 2001 diretto da Sharon Maguire (Wikipedia)

A lavoro non amarmi

Simonetta Sciandivasci

Le aziende americane adesso regolano pure la vita sentimentale. Le policy anti molestia (e distrazioni) nella distopia della produttività

Quando Bridget Jones fa il colloquio per diventare tv reporter e il direttore di rete le chiede come mai vuole lavorare in televisione, lei risponde: “Devo lasciare il posto dove lavoro adesso perché mi sono scopata il capo”. Lui l’assume all’istante e le dice: “Qui a Sit Up! Britain nessuno è mai stato licenziato per essersi scopato il capo. E’ una questione di principio”. Sembra un fantasy, e invece è soltanto il 2001 o, se preferite (e preferiamo), è il mondo prima che arrivasse il #metoo. Una battuta così, adesso, a un dirigente, a un capo, può valere la carriera, perché la questione di principio è opposta: se il superiore finisce a letto con una dipendente, va licenziato, anche se lei è consenziente, entusiasta, innamorata, felice e contenta. E’ capitato all’ormai ex ceo di McDonald’s, Steve Easterbrook, che qualche settimana fa si è dimesso perché aveva una relazione con un’altra lavoratrice del ristorante dell’umanità, violando non la volontà di lei (che invece ricambiava l’amore e con lui ci stava perché aveva scelto di starci), bensì la policy aziendale, e dimostrando così di avere “scarsa capacità di giudizio” (è scritto nel comunicato stampa che l’azienda ha diffuso a epurazione di Easterbrook, consensuale anch’essa, terminata).

 

Le relazioni sentimentali tra dipendenti, le Office Romance, ci hanno dato Bill Clinton e Monica Lewinsky, ma pure gli Obama

Lo Stato non mette (ancora) bocca sulle relazioni tra i dipendenti di una stessa azienda, quelle che gli americani chiamano Office Romance e che Business Insider s’è affrettato a ricordare che hanno dato al mondo Monica Lewinsky e Bill Clinton, certo, ma pure Michelle e Barack Obama, Melinda e Bill Gates, Brigitte ed Emmanuel Macron, e quindi cautela, ché l’amore tra colleghi, alla pari o no che siano, non è detto che degeneri in abuso di potere, circuizione, molestia a fine di lucro: talvolta degenera in matrimonio. Ed è per questa possibilità, o scampolo di libero arbitrio, che lo stato sceglie di non ingerire e non farsi etico, ora che etico rima con asessuale, lasciando uno spazio di manovra personale al personale. Non tutte le aziende, però, accettano che i propri dipendenti s’autoregolino e da quando la seduzione è diventata difficilmente separabile dalla molestia, per evitare grane e soprattutto mostrarsi esemplari in fatto di safe space, inclusione, tutela delle donne, cooperazione con l’ampio progetto di destrutturazione e distruzione del patriarcato, ce ne sono alcune, specie se multinazionali, specie se con molto capitalismo da farsi perdonare, come nel caso di McDonald’s, che stilano normative sentimentalmente disincentivanti.

 

I love contract, ovvero le linee guida che un’azienda impone per statuto ai propri dipendenti che abbiano una relazione sentimentale, negli Stati Uniti non sono una novità portata dal #metoo, naturalmente, ma negli ultimi due anni sono stati scritti o riscritti con una cura particolare per la prevenzione del contatto e l’inibizione dell’espansione, alla luce della rielaborazione del consenso, il bandolo di tutte le nostre matasse, la spada che penzola sulla testa di tutti. Il 51 per cento delle aziende statunitensi prevede, nella propria policy, un love contract, più o meno romantico, più o meno illiberale, più o meno femminista, più o meno utopista.

 

Scongiurare i rischi della vita, con tutti gli errori e i ripensamenti che affrontarla comporta, si può soltanto per legge o policy aziendale, e in un tempo in cui viviamo più in ufficio che fuori, più per lavorare che per amare, è evidente che a incidere nel nostro privato, nella nostra autonomia e autodeterminazione, è più la policy della legge: un paradosso non da poco per un mondo che si vuole liberista. Se nei tribunali, nelle teorizzazioni femministe ed etico-morali, nell’opinione pubblica la linea di demarcazione tra amore e molestia, sì e no, assenso e dissenso, entusiasmo e tolleranza, è oggetto di continua ridiscussione, nelle aziende dove si bada al pratico no: si taglia la testa al toro e si stabilisce come un invito a cena di un collega può configurarsi harassment, che avere una relazione con una propria dipendente è irresponsabile, che salutare con troppa enfasi è disturbante, che abbracciare è violazione del safe space, che dichiararsi è traumatizzante. Nei comportamenti molesti che McDonald’s elenca tra gli esempi di “cattiva condotta che non verrà tollerata”, nel lungo paragrafo “What is harassment?”, ci sono anche il guardare a lungo un collega, condividere immagini di cartoni animati che abbiano riferimenti sessuali e raccontare barzellette erotiche. Ai poveri laidi che credono ancora di farci ridere con storielle porno di quart’ordine, la policy di Facebook non consente neppure di scusarsi: vietato, e per di più inutile, un “chiedo venia” non esonererà nessuno dalla punizione, men che meno lo farà il dirsi ubriachi, influenzati, scaricati, depressi. Il dipendente Facebook che assista, senza intervenire, a esternazioni sessiste, bullismi veteropatriarcali, varie e complesse circuizioni di una persona a scopo di sesso o flirt, è secondo l’azienda complice e quindi colpevole dello stesso reato di chi lo commette. Conseguentemente, da ciascun dipendente ci si aspetta una molto matura e consolidata consapevolezza di cosa sia o non sia molestia, di cosa sia gradito o no, deontologico o no, consensuale o no. Vale per chi è in coppia, e per chi vorrebbe entrarci.

 

Il 70 per cento degli italiani ha avuto o ha un amante in ufficio. Il 73 per cento dei dirigenti d’azienda li licenzierebbe

I love contracts delle grandi aziende statunitensi sono propedeutici ai regolamenti di buona condotta in fatto di relazioni tra uomini e donne, o tra uomini e uomini, o tra donne e donne (eccetera eccetera) e cercano soprattutto di arginare le ripercussioni che lo stato di salute di una coppia, in fieri o rodata, può avere su un posto di lavoro: è evidente che se in un ufficio di quindici persone lavorano fianco a fianco anche un uomo e una donna che stanno facendosi la guerra per dividersi la casa dopo il fallimento di un matrimonio lampo, nessuna scrivania, nessun posacenere e nessun collega è al sicuro. Pertanto, una delle regole più frequenti dei love contracts è la trasparenza: quando due colleghi stanno insieme, hanno il dovere di comunicarlo al dipartimento delle risorse umane, primo perché questo garantisce che sono entrambi consenzienti, secondo perché in questo modo si apre un tavolo di trattativa, nel quale gli innamorati e l’azienda concordano cosa i due faranno in caso di rottura, se accetteranno di trasferirsi o saranno capaci di tornare colleghi come prima; come evitare ripercussioni sulla stabilità e serenità del resto della squadra; quanto e quando concedersi effusioni; quanto e cosa far sapere agli altri dipendenti della propria relazione; come evitare che uno dei due attui nei confronti dell’altro una rappresaglia per fargli scontare eventuali tradimenti, inevase lavatrici, intenzionali ferimenti. Non c’è aspetto della vita di coppia che non costituisca un potenziale pericolo pubblico, pertanto la burocrazia aziendale è investita del compito di creare uno scudo per ciascuno di essi. E, soprattutto, a essere regolamentata è la vita prima della coppia, cioè il suo farsi, tutto ciò che la porta in essere. Di recente, Google e Facebook, che rendono pubbliche le proprie policy ritenendo a ragione che questo favorisca la loro reputazione, sono state molto liete di annunciare l’introduzione della clausola “one strike and you’re out” (un colpo e sei fuori) in base alla quale puoi invitare a uscire quella che ti piace una e una volta soltanto: se ti dice di no e tu bissi, sei passibile di denuncia per stalking. Non sono esplicitate le ragioni che, in caso di mancato sì, possono motivare una deroga dello strike, quindi un “accidenti ho un altro impegno” equivale a un “no, ti odio, vai via, sgorbio”. Senza contare che l’essere umano vive sia d’istinto sia di ripensamento, sia di pane sia di celiachia, e quello che vuole oggi potrebbe non volerlo domani, e allora, diamine, come si fa? E che ne è della sacra regola del tirarsela, corollario dell’intoccabile “in amor vince chi fugge”? Come possono Google e Facebook stabilire che una volta è poca e due sono troppe per provare a instaurare una relazione, come possono essere così avide da pensare che sia buona sempre e soltanto la prima, che tentare significhi reiterare il fallimento e non, invece, spianare il successo e alimentarlo con il bene più prezioso di tutti, la durata?

 

Chissà, chissà domani su cosa metteranno le mani questi distaccamenti dello stato etico travestito, questi avvocati peggiori degli avvocati (e noi che pensavamo che il limite al peggio esistesse e fosse l’avvocatura matrimonialista).

 

E’ interessante che non ci siano, nei love contract, clausole che prevedono il licenziamento in caso di sesso fra dipendenti, a meno che l’accoppiamento non avvenga in corridoio o sulla stampante, durante la giornata lavorativa, e per paradossale che possa sembrare, in verità, la cosa è un’astuzia. Innamorarsi e poi amarsi sono diritti inalienabili, libertà fondamentali che la legge tutela e una policy aziendale può esprimersi fintanto che non contraddice la legge.

 

E’ interessante perché dice tutto del nostro tempo: più di ogni altra cosa ci terrorizza il tentativo.

 

Nei comportamenti che per McDonald’s sono esempi di “cattiva condotta” ci sono anche il guardare a lungo un collega

Disincentivare una relazione è un modo infallibile di disincentivare il sesso, specie tra due persone che, vedendosi tutti i giorni per molte ore, condividendo ansie, sacrifici, fatiche, risultati, riuscirebbero a non superare la soglia della liason pornographique. Lo scopamico è possibile, lo scopacollega, forse, no. Nonostante i love contracts, infatti, le percentuali di colleghi che si amano sono ancora piuttosto alte: in Inghilterra almeno il 30 per cento dei lavoratori sostiene di aver avuto una relazione con un collega, in Italia il 70 per cento (settanta! Popolo di aziendalisti!), in Australia il 40 per cento delle persone tra i 35 e i 50 anni ha incontrato il proprio partner in ufficio, negli Stati Uniti – lo scriveva con molto disappunto Forbes, a San Valentino di quest’anno – quasi la metà della popolazione che ha un lavoro dipendente vive una office romance (si arriva al 72 per cento tra gli ultracinquantenni). Numeri così sbalorditivi che, secondo Forbes, dimostrano inequivocabilmente che i dipendenti non sono abbastanza informati sulle policy aziendali in fatto di sesso, seduzione, corteggiamento tra le pareti dell’ufficio.

 

Google e Facebook menan vanto della clausola “one strike and you’re out”: invitare fuori un collega più di una volta è stalking

Esistono tre tipi di policy aziendale: quelle che proibiscono in modo categorico a un dirigente di uscire con una o un sottoposto, quelle che scoraggiano qualsiasi relazione tra i colleghi (“dismissal for fraternisation”), quelle che obbligano alla sottoscrizione di un contratto (il love contract, appunto) e che sono, com’è evidente, le più lasche. Immaginatevi la scena: voi, neoassunti dopo anni di precariato, smunti dall’Iva e finalmente pronti a rimpolparvi, talmente felici per questo da esservi spinti a chiedere alla vostra dirimpettaia di desk di uscire e aver incassato un sì entusiasta e averla quindi portata a cena e poi a letto con grande soddisfazione vostra e sua, all’indomani del vostro primo giorno di dignità e libertà da adulti, dovete andare a conferire col capo, uno che ha il calendario Pirelli del 1984 appeso sotto il crocifisso. E dovete dirgli: “Sa, capo, ieri sera ho fatto sesso con Teresa, quella che sta nel mio team, poi verrà anche lei a dirglielo, per adesso le do la mia parola che la nostra relazione non si trasformerà in una sotto-azienda antagonista, non ci faremo favori né favoritismi; se ci lasceremo nessuno si farà male, e se ci sposeremo sarete tutti invitati. Mi dica dove devo firmare”. Imponente distopia, vero? A un oceano di distanza da noi è una regola.

 

Diceva Agnelli che ci si innamora a vent’anni e basta, dopo s’innamorano soltanto le cameriere – e infatti in Fiat di love contracts neanche l’ombra, mai. In nessuna azienda italiana ce ne sono, tuttavia l’attenzione dei vertici d’impresa a prevenire molestie, abusi, disuguaglianze, raccomandazioni è alta come nel resto dell’occidente. Da un sondaggio di BP Academy dello scorso anno risultava che il 73 per cento dei manager italiani si diceva pronto a licenziare i dipendenti che tubavano, ritenendo l’amore sul lavoro una sciagura per gli affari.

 

Gli studi che le università americane (solitamente sono sempre quelle dell’Oregon o dell’Arkansas) producono e confezionano come cioccolatini, invece, negli ultimi anni concordano tutti su un punto: gli Office Romance fanno bene alla produttività dei contraenti e, di riflesso, a quella di tutta l’azienda. Come potrebbero dire il contrario a un mondo dove i trentaquarantenni che hanno un’occupazione passano a lavoro l’80 per cento del proprio tempo, in uffici infinitamente più accoglienti e funzionali dei loro appartamenti . Google e Ferrero hanno palestre, saune, sale cinema, videogiochi, nidi aziendali, e come si fa a non innamorarsi lì dentro, e perché mai ci si dovrebbe innamorare fuori, dove tutto scorre, invecchia, non conosce utile, né regole, né argini, dove tutto è quella induzione a delinquere che è la vita.

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