Prima l'analisi, poi l'indignazione. Il 25 novembre non è l'8 marzo
“Contro le violenze”, il convegno organizzato a Roma dall’associazione NO O.D.I.
Roma. Prima dei dati, le questioni di metodo. Gli errori che facciamo, quando parliamo di violenza sulle donne, sono soprattutto due: scorporiamo l’odio dalla natura umana e trascuriamo l’ampiezza delle conseguenze che ha, in ragione della quale parlare di violenza sulle persone è più corretto e non significa negare la specificità del problema culturale, ma evidenziarne l’incidenza e le conseguenze che ha sulle sue vittime. Che sono: le donne che la subiscono, i bambini che la vedono succedere (specie se in casa) e i carnefici, gli uomini che la perpetrano.
Negli ultimi anni, la percentuale di ragazzini che hanno assistito a scene di violenza su una donna è aumentata in modo esponenziale: le statistiche dimostrano tanto che un bambino tende a riprodurre un abuso se gli capita davanti, quanto che “esiste una correlazione molto stretta tra il produrre condotte devianti e il vivere in povertà e incuria educativa”. Lo ha detto, nel cuore del suo intervento al “Convegno contro le violenze” organizzato ieri a Roma dall’associazione NO O.D.I., Maria Luisa Iavarone, professoressa di Pedagogia e presidente dell’associazione A.R.T.U.R. che ha fondato quando suo figlio, due anni fa, è stato aggredito e accoltellato, per strada, a Napoli, da un gruppo di ragazzini (il più vecchio aveva sedici anni).
A fare violenti i violenti non sono né la mancanza di certezza della pena, la disfunzione cronica della giustizia, né la conseguente impunità che droga i bulli di onnipotenza. Il contesto socio familiare, la disattenzione dei genitori, la dispersione scolastica, l’iper narcisismo che sottrae energie alla condivisione e trasforma l’educazione in una performance: la violenza sulle donne ha le sue radici lì e non nella tossicità patriarcale che ne è, al massimo, un portato relativo, uno dei molti.
Qualche dato sul contesto italiano: il 12 per cento di minorenni del nostro paese vive in povertà materiale; un ragazzo campano su tre non si diploma, oltre l’85 per cento degli eventi abusivi avviene in casa (denunce in aumento del 31,6 per cento rispetto a cinque anni fa), e sei volte al giorno un bambino vi assiste; ogni quarto d’ora una donna subisce maltrattamenti. E’ chiaro che gli scioperi contro il maschio tossico, le operazioni simboliche sui social network (se sei donna, oggi oscura il tuo profilo, dimostriamo com’è orrendo il mondo senza di noi – è stato proposto, e purtroppo anche fatto), gli editoriali sulla necessità di essere madri femministe, sono una risposta più simbolica che altro, uno sguardo sul problema che, tuttavia, non riesce ad ampliarsi. Quando si lamenta la pochezza dei finanziamenti ai centri anti violenza (12 milioni di euro nel 2018: fanno 70 centesimi per vittima) lo si fa perché ostacolare l’assistenza alle vittime di violenza significa favorire non la tossicità patriarcale, ma l’idea che picchiare una donna incida soltanto su una parte di società, quella direttamente coinvolta.
Sullo specifico femminile del problema, che naturalmente esiste e che richiede analisi e studio più che indignazione, Roberta Patalano, economista e psicologa, spiegando perché la violenza non deriva dall’odio ma dal fatto che non ci occupiamo dell’odio (lo releghiamo nella bestialità, nell’inversione o nella perversione), ha ricordato che già nell’utero tra madre e figlio s’instaura un rapporto di amore e odio e che, dopo la nascita, il bambino possiede un sé spietato che vuole la madre sempre presente. In ragione di questo e della necessità di render chiaro che l’odio è sentimento umanissimo, Winnicot, molti anni fa, stilò le 17 ragioni per cui una madre odia il proprio figlio: tre di esse erano “l’assume 24 ore su 24, non le riconosce diritti, la tratta come una schiava”. Di questi due poli, tuttavia, soltanto quello materno può dare uno sbocco evolutivo alla violenza che consegue dall’odio. Gli atti del convegno sono già disponibili in un libro edito da Rubbettino, curato da Claudio Patalano: leggetelo, è un modo per iniziare ad allargare lo sguardo, e serve più della militanza social. Ieri è stata una giornata importante, con molte cose fatte per bene, e talune altre fatte per male: in pole position gli status dei femministi sull’importanza di rispettare le donne, neanche fosse l’8 marzo.
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