Milano, oh cara
Ho scritto sul Foglio un lungo articolo contro la Capitale morale. Tra social minacce, insulti e confessioni, ecco quello che è successo dopo
Se questo fosse un articolo di Vice si intitolerebbe “Ho scritto un pezzo che dice che Milano fa schifo ed ecco cos’è successo”, ed ecco dunque la cronaca fedele di dieci giorni nella bolla dei social a vedere che effetti produce un articolo su Milano, con qualche rara puntata all’esterno, chiuso in casa tra la pioggia, l’influenza, e un malessere crescente.
Tutto era iniziato un paio di lunedì fa nel migliore dei modi, con un messaggio, del ministro Provenzano. Carino, il ministro, da cui tutto era partito (quello secondo cui Milano deve “restituire” qualcosa all’Italia), e che io avevo sfotticchiato in un lungo articolo sul Foglio di lunedì scorso, attribuendogli sogni inconsci d’andare ad abitare al Bosco Verticale. L’avevo chiamato il Provenzano’s complaint: guardi che il lamento del sud è un genere molto nobile, rispondeva ‘o ministro. “E però al Bosco Verticale mai, come le viene in mente. Semmai in Brera”. Ironico, insomma, il ministro del sud. Da Beppesala, ministro del Nord, anzi più che ministro, supersindaco, anzi caro leader dell’Italia migliore rappresentata da Milano, invece niente, nessuna reazione (però intanto s’era fatto tante nuove foto su Instagram, tra cui una con un bel cappelletto blu, e la B dorata dei Boston Red Sox ma anche di Beppesala).
Ma il mercoledì, per qualche ragione, ecco che qualcosa succedeva. Il pezzo iniziava a circolare nei meandri dell’internet
Tutto procedeva tranquillo, insomma. Continuava a piovere su Milano e pure su Roma, ai margini dell’impero. Un po’ rassicurato e un po’ deluso, mi apprestavo a una tranquilla settimana sotto il monsone. Arrivavano le consuete richieste dell’articolo in pdf di chi proprio non ce la fa a spendere l’euro online, e i soliti affettuosi complimenti delle zie (il pubblico dei giornali moderni). Ma il mercoledì, per qualche ragione, mentre tuonavano gli acquazzoni, ecco che qualcosa succedeva. Intanto mi sentivo un po’ di febbre. Un gonfiore alla gola. E poi il pezzo iniziava a circolare nei meandri dell’internet. Sgorgava libero, senza più limiti, sbloccato dal paywall, e dunque rimbalzava su su nella città stato, nell’Emirato. Da lì arrivavano subito molti messaggi carbonari: “Abito da dieci anni a Milano e ho sempre pensato quello che hai scritto, GRAZIE”. “Nessuno aveva il coraggio di scriverlo, vai avanti”. “La scrivo per ringraziarla del suo pezzo Contro Milano. Ho ventotto anni, molti dei miei coetanei vivono là. Non parlano più italiano. Da alcuni anni hanno smesso di usare parole come ‘luogo’, o ‘posto’, dicono solo ‘location’ e condividono il food. Le ragazze organizzano ‘female-led talks’ in qualche ‘creative hub’ per parlare di ‘female gaze’ ai tempi di Instagram. Leggere il suo articolo mi ha consolata molto, e in fondo credo di aver fatto bene a rimanere qui, sola, senza uno straccio di business plan o una strategy”. Stava succedendo qualcosa che non capivo. Ma se in privato i messaggi erano di incoraggiamento clandestino, in pubblico tutto diverso, un tono di generale condanna, di alto o basso tradimento. “Non hai parlato dei bambini!”; “Non hai parlato delle periferie! Non hai parlato del volontariato!”; “Hai parlato troppo di Instagram”. “Nella Milano che conosco non c’è spazio per Instagram” (scritto in un post su Instagram). Le reazioni erano soprattutto di due tipi. Giovani novizi della bolla, e maturi custodi dell’ortodossia. I primi accusano di dipingere una Milano grottesca, che non esiste, macchiettistica; “la caricatura di questi che guadagnano mille euro e abitano nelle loro camerette”, mi fa dire un amico di un amico, che guadagna ottocento e vive in una cameretta. Nel secondo gruppo, prevale la fatwa, il malocchio, la maledizione. “Ti appenderanno a testa in giù, e avranno ragione”, colleghi, scherzosi ma non tanto. Rispondevo “a piazzale NOLO” (North of Loreto), tentando l’ironia che maschera l’angoscia. “Se hai le palle il prossimo pezzo lo fai su quanto è figa Roma”, un amico molto internazionale. Ma che c’entra, è come quelli che ti dicono “e allora facciamo il pride anche degli etero”; ma qui si parla di Milano, è ovvio che Roma oggi fa schifo, c’è un sito apposito (a proposito, il suo founder, come dite qui, si sta trasferendo a Milano, attenzione). Si attacca Milano proprio perché nessuno lo fa, e, da quanto capirò poi, perché è socialmente sconsigliabile, è l’indicibile.
Le reazioni sui social network erano soprattutto di due tipi. Giovani novizi della bolla, e maturi custodi dell’ortodossia
L’offesa tribale: “Un climber di provincia che cercava feste e giri giusti e non ha trovato niente”, una giornalista. E poi ancora: “L’hai fatto per andare al Corriere della Sera!”, e non capivo se ero io che ero nel delirio della febbre o qualcosa non tornava. Seppure con 39, fare un pezzo contro Milano non sembrava l’idea migliore per insediarsi a via Solferino. Il centro sociale Colibrì: “Posto che Milano se la cava benissimo da sola e non ha bisogno di avvocati, ci teniamo a spendere due paroline due CONTRO (maiuscolo) quest’articolo pubblicato da Il Foglio”. Però milanesemente concordavano sulla bontà dell’aspirapolvere a cui avevo paragonato la loro città in quanto aspiratrice di città e territori vicini (“Quanto al Dyson, è chiaro che sia l’aspirapolvere migliore del mondo”). Su Facebook: “Ma cosa vuole questo? Se ha dei problemi con Sala se li risolvesse con lui”; “Ci sono dei buoni spunti ma questo mena il terrone” (con lapsus micidiale invece di torrone). “Masneri ha rotto i coglioni. Sta diventando sempre uguale a sé stesso. Arguzia fine a sé stessa. Come Valerio Mastandrea”; quando il termometro indicava 39 mi sono andato a vedere delle foto recenti e mi sono chiesto davvero se fossi come Mastandrea, che mi è sempre piaciuto, ma non ci ho trovato nulla di simile.
In generale, nota un amico, i più infuriati sono i milanesi di risulta, i faticosamente inurbati, a Milano si direbbe latecomers, con l’eccitazione dei convertiti dell’ultim’ora. Per consolarmi riguardo uno dei miei film preferiti, “Sessomatto” di Dino Risi (1973). L’episodio “Un amore difficile” mostra travestite che si ricongiungevano tra le fughe di cervelli e fratelli dalle Puglie. “Ma sei proprio milanese?”, domanda Saturnino appena arrivato in città a una certa affascinante Gilda, bionda che esercita il meretricio in viale della Liberazione, all’ombra oggi del Diamantone (140 metri, l’edificio in acciaio più alto d’Italia, progetto Kohn Pederson Fox Associates). Gilda risponde “milanese di fuori”. Gilda si scopre poi essere Ferreri Cosimo, con la “o” stretta, e fratello all’anagrafe di lui, Ferreri Saturnino. Gilda/Cosimo alla fine si porta il suo fratello-amante nel suo appartamentino “ristrutturato dall’architetto Baraldi”, felici e contenti e milanesi di fuori. Che film definitivo.
“Vai avanti così. Non farti intimidire”. Mi sento lord Mountbatten quando gli propongono di guidare il golpe
Ma il giorno dopo riapro i social. L’accusa più infamante: “Così spiani la strada a Salvini, che nel 2021 farà una campagna per conquistare il comune di Milano proprio su questo, contro la bolla di Sala e dei calzini arcobaleno” (oddio, ho spianato la strada a Salvini). “Cosa ti hanno offerto?” (un conoscente). Mia risposta: un posto sicuro a Avellino (l’ironia maschera in me l’angoscia ormai crescente). Sono un climber, sono un sessista, sono colui che consegnerà Milano alla lega. Su Facebook: “La caduta di stile di aver definito Myss Keta un donnone cela delle criticità personali”. Ma ancora: “Non hai parlato dei bambini! Non hai parlato delle periferie! Non hai parlato del volontariato!”. “Non è la mia Milano, la Milano che conosco”. Sul volontariato insistono tutti molto, e io di volontariato milanese non so molto, giuro che mi informerò, studierò, però poi un mio amico giusto ieri mi racconta che non ne può più di andare a queste cene rigorosamente alle 20, che devono terminare alle 22,30, che hanno tutti come tema il volontariato o meglio il charity, cene di supermanager dove si dice “alziamo l’impatto del terzo settore”, “contribuire in kind” tra “head hunter” per empowerment femminili ad alto tasso di diversity (l’amico romano sostiene un po’ cinicamente che la charity sia la nuova arte contemporanea. Io non so: a Roma non abbiamo né l’una né l’altra). L’amico dice anche di avere la sensazione d’essere invitato spesso a questi raduni in quanto romano, in quota romano. Perché pare che anche i milanesi, almeno i più illuminati, questi che fanno le charity, siano ultimamente un po’ percorsi da un timore, uno scrupolo, insomma un pensiero, d’esser troppo milanesi, stare troppo tra di loro. Forse ci sono troppi barbari che premono sui bastioni. L’immigrato da Roma è la nuova diversity.
Offline la situazione è un po’ meglio: amici romani tranquillizzano (“so’ quattro gatti”). Milanesi riflessivi giustificano: “Ma i milanesi sono tradizionalmente molto spiritosi” (’nzomma). Nel frattempo guardo la terza stagione di “The Crown”. Proprio mentre mi sto godendo i drammi dell’Inghilterra anni Settanta mi invitano a cena però dei vecchi amici, degli intellettuali. C’è un’aria di urgenza. Ho ancora un po’ di febbre ma non dico di no. Lì, mi ritrovo al centro dell’attenzione. Sembra un raduno per iniziati. Ci sono dei milanesi. Temo il peggio. L’imboscata. Invece: “Vai avanti così. Non farti intimidire”. Mi sembra di essere lord Mountbatten, l’ammiraglio della Flotta, quando viene convocato e gli propongono di guidare il golpe nel paese sconquassato dagli scioperi. C’è anche un’insospettabile ufficia stampa milanese, che credo a quel punto mi odi. “Ma come hai mai pensato che io potessi amare Milano. Io ogni sera prego ardentemente, e in segreto, di poter tornare a vivere a Roma, sperando che X non intercetti le mie preghiere”.
Milano scusa, stavo scherzando. Vado al Maxxi a vedere la mostra di Gio Ponti e vedo il Pirellone. Una visione?
Torno a casa, mi rimetto a vedere “The Crown”. “Ti difendo io”, mi assicura un amico direttorone. Ma no, non c’è bisogno. Mi perseguita piuttosto il pensiero di Salvini. Cresce il senso di colpa. Milano è una cosa così bella e così fragile? Sarà per questo che sono così permalosi? La chiesa di rito ambrosiano prevede la redenzione? Guia Soncini screenshotta tutto il pezzo nelle sue stories su Instagram, tra improperi e vaghi apprezzamenti, e io sono “il Tom Wolfe che ci meritiamo”. Non capisco se è buono o no. Dopo ore di discussioni, un amico milanese: “Guarda che non è vero che le cose che dici tu noi non le diciamo. Le diciamo anche noi. Ma tra di noi”. Insomma, siamo al neorealismo, io sono De Sica con Andreotti, è il 1952. I panni sporchi si lavano in famiglia. Forse è il delirio della febbre. A 39,3 siamo al culmine della temperatura e insieme della rilevanza: arriva finalmente il meme. Non avevo mai avuto un meme mio. C’è una classica foto divisa in due, nel primo riquadro una bionda che urlava forse piangendo indicando qualcosa, nell’altro un gatto bianco dall’aria un po’ indemoniata con larghe orecchie bianche, davanti a un piatto di carne e verdure. Sopra la prima immagine c’era scritto: “Milanesi in Fondazione fan di Beppesala”, e si capisce. Nell’altra, “Michele Mesneri”. Il meme, il primo meme della mia vita, aveva non solo sbagliato il mio cognome (è Masneri, non Mesneri). Ma poi l’espressione del gatto era di difficile comprensione, non si capiva se fosse tronfio o perplesso o paralizzato. Però è un po’ come mi sento.
Mercoledì la febbre è stabile a 39. Federico Sarica mi propone per il festival di Rivista Studio in Triennale un incontro sul tema Milano, pro o contro. Accetto. Mi vorranno in quota diversity? Romano? Climber? E’ la bolla che accetta la critica per far finta di non esser bolla? A un certo punto esco comunque di casa, ho bisogno d’aria, sto meglio, ma tutto mi parla di Milano. Mi perseguita l’idea di Salvini, che arriverà ad abbeverare la Bestia a porta Venezia per colpa mia. Dove andranno le ragazze? Che farà Myss Keta? Emigrerà ad Avellino? Come ho potuto?
Giovedì la pioggia è finita, la temperatura è di 37,7. Mi scrive un caro amico, di Milano, persona intelligente, sensibile, mi fa: “Odi anche me?”. Forse non lo fanno apposta. “C’è molta insicurezza a Milano, sempre stata”, mi dice sottovoce. Mi sento ancora più in colpa. Milano scusa, stavo scherzando. Vado al Maxxi a vedere la mostra di Gio Ponti. Sulla loggia più alta, ecco un Pirellone in scala, stagliato sul panorama romano. E’ chiaramente un macabro scherzo. Da un video, lo spirito di Ponti che parla: “Ci sono città che hanno tutto. Napoli per esempio ha il Vesuvio, il mare, le isole. A Milano Dio non ha dato niente. Per questo dobbiamo pensarci noi a renderla bella”. Sta parlando a me? Mi sta dando ragione? Conferma che l’autoconvincimento è necessario per amare Milano? O sono i milanesi che hanno un mandato direttamente da Dio per difendere la loro città? Beppesala è defensor fidei come i re d’Inghilterra? Il giorno dopo la febbre è passata, è uscito il sole, e tutto mi sembra lontano, come una vaga allucinazione; come la nebbia che una volta avvolgeva Milano.
Politicamente corretto e panettone