Foto LaPresse

Fumus legislationis

Maurizio Crippa

Dagli hippie alla normalità sociale. Ma se a legiferare sulla cannabis è la Cassazione, qualcosa non torna

“Gli hippy avevano la loro erba, i punk le loro anfetamine e i loro beveroni, i pochi beatnik che venivano dai sobborghi di periferia preferivano l’eroina, i raver le loro chicche, gli yuppie la coca, i poveracci il crack, e il resto si ubriacava. Ora che invece sono tutti consumatori, ognuno sceglie quello che gli serve”, diceva qualche mese fa in una conferenza Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting, notando che “la cultura del consumismo ha inghiottito tutte le culture”, comprese quelle tossiche, e ora tutto dipende dagli stili di vita e “dall’immagine che ognuno ha di sé, e anche questa è flessibile”. Già vent’anni fa Big Lebowsky che con una mano beveva e con l’altra fumava uno spinello (in macchina) era la citazione di una generazione che non c’era più. Ma prima (e soprattutto dopo) il Drugo è notevole constatare di quanto si sia allungato l’elenco di film (quasi tutte commedie giovaniliste) in cui la cannabis è un’allegra boccata d’aria. Mentre sparivano le sigarette. Non più un calcio ai proibizionisti, ma la normalità di uno stile di vita. Poco dopo arrivò L’erba di Grace ad aprire le praterie della valorizzazione economica, a prescindere dalla legalizzazione come antidoto al mercato criminale. La cannabis – di cui la sentenza della Cassazione del 19 dicembre per la prima volta ritiene lecita la coltivazione per uso privato, separandola dalla coltivazione per vendita – come altre droghe più o meno naturali o leggere è divenuta da un paio di decenni uno stile di vita dentro la molteplicità di consumi e diritti acquisiti. Mentre il discorso degli effetti sulla salute è stato ridotto ad argomento retrivo o confinato esclusivamente al discorso sulle devianze.

 

Forse non è colpa soltanto del consumismo, come pensa Welsh. Ma fintantoché erano il cinema o la pop culture a sdoganare la cannabis, si poteva ragionare sulla evidenza (benvenuta o ineluttabile) di un costume sociale ormai modificato. (Anche la percezione sociale del rischio è molto modificata: oggi fa malissimo l’acqua nelle bottiglie di plastica). Servirebbe qualche domanda in più, se però l’effetto libertario alla Big Lebowsky o il consumismo palliativo vengono assunti come principio di giurisprudenza dalle sezioni riunite della Corte di Cassazione (che finora aveva interpretato la materia con logica proibizionista).

 

Ovviamente è normale che l’interpretazione delle leggi tenga conto anche della modificata percezione sociale. Si cominciò dal comune senso del pudore, del resto. Ma nemmeno il più relativista dei distratti potrebbe negare che quando sono i giudici di Cassazione a determinare, dettare o abolire le leggi, e non il Parlamento, qualcosa non torna. Soprattutto perché in Italia sono ormai troppe le materie sensibili, che riguardano comportamenti e salute, su cui i giudici di fatto si sovrappongono, o fanno supplenza, alla mancata capacità della politica di decidere e di dare un indirizzo condiviso ma univoco. L’ultimo caso, forse il più estremo, è il suicidio assistito. Ma lo stesso si può dire delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. Coltivare due vasi di cannabis da balcone non modificherà, dicono in molti, né il mercato né le abitudini dei consumatori. Ma è innegabile che sia anche un’ulteriore normalizzazione del suo consumo e un passo in più verso la legalizzazione. Senza però che il popolo sovrano si sia espresso in materia. Nemmeno i più puri proibizionisti possono negare che la legislazione attuale sulle droghe sia criminogena e inadeguata. E del resto la nozione di uso personale è uno di quei diritti, come direbbe Raphaël Enthoven, da cui le nostre società non faranno marcia indietro. Ma discuterne, almeno? Prendersi la responsabilità di decidere e deliberare, anziché delegare alla magistratura il compito di trasformare l’opinione sociale più diffusa, non sempre prevalente, in legge?

 

Qualcuno, molto pochi per la verità, si è posto il problema delle ricadute educative di questa sentenza: sarà più difficile, se non impossibile, spiegare a un preadolescente che una certa sostanza può o potrebbe fare male, visto che si coltiva in terrazzo. Il tema della responsabilità sociale verso le nuove generazioni – che intralcia quello dei diritti individuali, ma non può esserne fagocitato – dovrebbe essere cruciale, in queste materie. Invece è il più assente. Non è inspiegabile.

Di più su questi argomenti:
  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"