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La globalizzazione è il vaccino

Giuseppe De Filippi

L’economia, il commercio, il panico, il rapporto con il mondo. La Cina sta scoprendo a sue spese che per combattere il virus letale ha bisogno di tutto ciò che non ha: la trasparenza, la libertà della rete e soprattutto l’apertura verso il mondo. Il demone cinese oltre l’influenza. Contro indagine

L’economia di mercato con un alto grado di libertà per l’iniziativa imprenditoriale è, tra quelli disponibili, il migliore meccanismo – adesso la parola di moda è algoritmo – per gestire il cambiamento, per far progredire una società. I dirigenti cinesi hanno cominciato a familiarizzare con questa idea almeno dalla fine degli anni Settanta e, con le loro peculiari necessità (eufemismo), la hanno applicata con sempre maggiore convinzione. Non sono diventati liberali, tutt’altro, ma hanno testimoniato un fatto storico e tutto sommato banale, e cioè che il liberalismo economico funziona mentre il socialismo pianificato no, e hanno cominciato a far salire di scala il vecchio metodo dell’imitazione. Dalle copie di singoli prodotti, che davano ovviamente risultati scadenti e creavano un’immagine imbarazzante, alla copia dei processi produttivi (smonto una fabbrica di un paese capitalista e la porto qui o tento di riprodurla uguale), un passo ancora non sufficiente e figlio di una visione riduttiva della complessità di una società industriale, fino a cominciare, sia pure con molta gradualità, a riprodurre, copiandone le impalcature relazionali e il sistema dei prezzi come diffusore di segnali, il motore dell’economia capitalista e quindi lo stesso meccanismo attraverso il quale il mercato dà le informazioni con cui le aziende possono prendere le decisioni di investimento (sbagliando spesso ma realizzando anche successi, il mercato accetta e anzi esalta questa visione probabilistica, pluralista e fallibile del processo decisionale d’impresa, quindi non teme i fallimenti, anzi ne fa uno dei suoi punti di forza).

 

Questo processo di innesto del flusso di informazioni necessarie per le imprese (non solo i prezzi ma anche tutte le altre, comprese quelle statistiche e quelle che riguardano previsioni e aspettative e, come si vede in questi giorni, quelle che riguardano ad esempio i rischi sanitari) in un sistema rigido e burocraticamente controllato ha appassionato e continua a interessare moltissimi studiosi e in questi giorni viene messo nuovamente alla prova da un’esperienza drammatica e travolgente come la scoperta e poi la constatazione della diffusione epidemica del nuovo coronavirus.

   

I piani sui quali gli effetti saranno visibili sono tre. C’è un piano politico, con possibile redistribuzione del potere, questione da super esperti che qui si può solo tratteggiare. C’è un piano economico interno, sul quale vengono quindi rappresentate le necessità di risposta immediata e di riorganizzazione futura da parte del sistema produttivo localizzato in Cina, fortemente integrato con il mondo (è il luogo in cui avviene l’importazione delle informazioni dai sistemi di mercato liberale e dalle società aperte in cui i consumatori hanno dettato, ad esempio, il successo degli smartphone spingendo le aziende cinesi a inserirsi nella corsa industriale mondiale su quella filiera di prodotti, ed è anche il luogo in cui avviene l’importazione degli input regolatori a livello mondiale, per cui ad esempio l’industria cinese dell’automotive si è concentrata, creando anche quella che sembra una bolla, sulla mobilità elettrica). E c’è un piano economico esterno, nel quale si devono fare i conti con il rischio di dover reimpostare varie catene produttive almeno per i tre mesi a venire, secondo lo scenario più ottimistico (non troppo lontano quello immaginato da Standard & Poor’s che fissa nel secondo trimestre di quest’anno l’avvio della ripresa dell’attività produttiva).

   

Si è detto ma vale la pena di ripeterlo che, malgrado l’esperienza della Sars, le autorità cinesi non hanno capito fino in fondo (o non hanno potuto realizzare quello che avevano capito) quanto la circolazione delle informazioni sia un elemento fondante del modello economico da cui vogliono trarre vantaggi, quello di mercato, e che perciò, una volta accettata la partecipazione all’economia integrata mondiale, la circolazione libera delle informazioni deve riguardare, almeno per cose essenziali, anche la propria situazione interna. E che quindi mettere la sordina alla diffusione di notizie particolarmente rilevanti come quelle sui sospetti riguardo al nuovo virus nei primi giorni in cui si manifestava è un fatto grave dal punto di vista della sanità pubblica ed è anche un errore che proprio il mercato mondiale integrato non può perdonare. Non sono solo gli schemi rigidi a contare, gli elementi fiduciari sono altrettanto importanti. E tra questi c’è sicuramente la trasparenza su notizie in grado di influenzare l’andamento dei flussi commerciali e dei mercati finanziari.

  

Rispetto alla crisi della Sars, è stato osservato da molti, la quantità e qualità delle informazioni diffuse è aumentata. E riandando indietro si può vedere come tutto il processo di adozione delle modalità di funzionamento proprie del mercato sia stato graduale, come ogni volta (dall’apertura dei mercati finanziari all’introduzione di una moderna regolazione, dall’accettazione degli investitori esteri in quote di controllo all’applicazione di decenti criteri civilistici) si sia trattato di progressi faticosi, incompleti, realizzati sbattendo contro resistenze locali.

 

In questa occasione si sono viste all’opera entrambe le forze, sia quelle che spingono verso maggiore trasparenza sia quelle che hanno tentato di nascondere e conservare le cattive abitudini, con una leggera prevalenza delle prime. Gli stessi mercati azionari, anche grazie alla chiusura per il capodanno cinese, hanno reagito in modo sufficientemente informato e con modalità tipiche di piazze finanziarie mature. C’è stato un calo molto marcato a caldo, ma senza arrivare a situazioni di panico, e poi progressivamente piccoli recuperi. Cioè si è assistito al classico intreccio tra operazioni opportunistiche, movimenti automatici dettati dagli algoritmi e scelte basate su aspettative razionali. Nient’altro, insomma, che il normale mix delle forze che muovono i mercati finanziari.

 

Vale la pena ripercorrere il parallelo con la (scarsissima) trasparenza registrata con l’esplosione dell’epidemia poi definita come Sars. Allora passò esattamente un anno dal primo caso accertato fino al riconoscimento pubblico del problema. Nel novembre 2001 i primi casi a Foshan, nel Guanddong, mentre la notizia veniva diffusa con ufficialità nel novembre 2002 e solo perché i dati a disposizione dell’Organizzazione mondiale della sanità erano diventati, come dire, chiari ed espliciti per conto loro, mostrando senza equivoci l’esistenza di un picco di infezioni respiratorie al quale andava data una spiegazione. Le vittime ufficialmente attribuite all’azione della Sars furono 774, con l’epidemia dichiarata conclusa nel luglio del 2003. Le cifre sul tasso di mortalità dell’infezione lasciano qualche dubbio residuale sulla completa diffusione dei dati da parte delle autorità cinesi, perché negli altri paesi coinvolti si ebbero tassi tra un minimo del 10,7 per cento a Taiwan fino a un massimo del 17,1 per cento in Canada mentre in Cina il tasso di mortalità si fermò al 9,6 per cento (altro confronto, con un’area fortemente integrata, è quello con Hong Kong, dove venne registrata una mortalità per Sars del 17 per cento).

 

Questa volta i tempi di attivazione delle procedure straordinarie e, prima, i tempi di diffusione delle notizie ufficiali, sono stati ben minori, anche se non ancora aderenti ai migliori standard internazionali. Ci sono stati giorni evidentemente di grande concitazione e le autorità si sono mosse lungo direttrici palesemente contraddittorie. Il 31 dicembre vengono diffuse le prime notizie ufficiali su casi sospetti di infezioni respiratorie, ma il primo gennaio si viene a sapere che 8 persone sono state punite per aver parlato del rischio di un ritorno della Sars proprio nella zona di Wuhan. Insomma, entrambi, sia le autorità sia le persone che segnalavano il nuovo rischio, avevano informazioni incomplete ed entrambi avevano una conoscenza limitata e affetta da errori della reale situazione. Tuttavia qualcosa si stava muovendo. Ma devono passare altri venti giorni per avere l’ammissione ufficiale del rischio di trasmissione da umano a umano del nuovo virus e la stessa indicazione delle sue caratteristiche e del grado di rischio potenziale sulla salute dei contagiati. I tempi, a voler essere burocratici, sono stati tagliati di 11 mesi rispetto alla crisi del 2001-2002. Si direbbe un altro mondo, anche se siamo ancora lontani, come si diceva, dalla piena correttezza dei comportamenti e anche se restano dubbi sulla data dei primi contagi, la cui decorrenza potrebbe in realtà andare un po’ indietro nel calendario.

 


Si direbbe un altro mondo rispetto all’epidemia della Sars, anche se siamo ancora lontani dalla piena correttezza dei comportamenti e anche se restano dubbi sulla data dei primi contagi, la cui decorrenza potrebbe in realtà andare un po’ indietro nel calendario


 

Il resto sta avvenendo in questi giorni sotto i nostri occhi, dall’isolamento del virus alla nuova diffusione di notizie non verificate, questa volta a proposito degli effetti di alcuni farmaci antivirali già in produzione (usati per contrastare altri virus o retrovirus). E’ possibile che abbiano qualche effetto e infatti sono stati gli stessi medici dell’ospedale Spallanzani di Roma a somministrarli alla coppia cinese ricoverata in condizioni di massima sicurezza. Per le conseguenze sull’economia e sulla filiera integrata mondiale della produzione ha però un particolare rilievo la maggiore reattività dimostrata in questa occasione da parte del governo e delle autorità sanitarie cinesi, anche se, a ridurre un po’ la portata di questo riconoscimento, va detto che il mondo del 2001 era molto meno unificato dai flussi informativi e commerciali di quanto sia il mondo di oggi, e quindi la tentazione di tenere tutto nascosto nel 2001 poteva avere spazio e i dirigenti politici potevano ritenere di avere la possibilità concreta di farla franca, contando, di mese in mese e per un intero anno, sull’estinzione autonoma dell’ondata virale.

 

Quella strategia, che probabilmente ha tentato qualcuno anche questa volta, è stata messa fuori gioco dalle stesse condizioni di integrazione, quindi, si potrebbe dire, è stato lo stesso mercato a imporre la trasparenza grazie alla quale può progredire. Il mercato, però, si riorganizza anche lungo direttrici proprie. Prima di tutto gli operatori cercano di orientarsi rispetto alle aspettative. Diventano quindi particolarmente rilevanti le stime sulla durata dell’epidemia, sulle quali le evidenze del passato possono essere fortemente di aiuto. Le indicazioni prevalenti sono due. Una è di parte cinese e fissa il picco previsto nella settimana della festa delle lanterne, quindi nei giorni attorno al 10 febbraio. Si tratterebbe insomma proprio di questi giorni, ma c’è un sospetto di recidiva nel cercare di minimizzare e circoscrivere il problema. Le autorità internazionali non pongono invece ancora una data da cui avviare il rientro del pericolo di infezione, ma vedono la possibilità di mantenimento della condizione di emergenza, con tutte le misure necessarie, fino a primavera inoltrata. Si capisce che sono scenari completamente diversi.

 

Chi ha vissuto l’epidemia di Sars e già allora si occupava di servizi per le attività commerciali tra il resto del mondo e la Cina, dove proprio in quegli anni si cominciava a consolidare il processo che ne avrebbe fatto la manifattura del mondo, ricorda bene che in quell’occasione i tempi di recupero della piena operatività economica furono piuttosto rapidi. Con un’interruzione dei rapporti contenuta nel giro di due mesi, un intervallo compatibile col mantenimento di gran parte dei contratti di fornitura. A soffrire furono, e ora sta succedendo lo stesso, solo i contratti per forniture just in time, per le quali è dirimente il rispetto assoluto dei tempi di consegna. Diversi contratti sono già stati annullati anche in questi giorni. Ma il mercato, attraverso sistemi assicurativi o semplicemente scontando questi rischi nei prezzi, è già tutelato rispetto al mancato rispetto delle consegne just in time, per le quali i motivi di cancellazione possono essere tanti e quindi il nuovo virus viene solo ad aggiungersi alla casistica ordinaria di ragioni per cui quel tipo di forniture può saltare. Diverso è il caso della produzione integrata, cioè delle grandi filiere produttive che attingono a fornitori, ciascuno per una parte del prodotto finito, da diverse parti del mondo, tra cui la Cina con sempre maggiore rilievo.

 


Un’indicazione di parte cinese fissa il picco previsto in questi giorni. Le autorità internazionali invece non pongono ancora una data da cui avviare il rientro del pericolo di infezione, ma vedono la possibilità di mantenimento della condizione di emergenza fino a primavera inoltrata


 

Mario Zen, cognome veneto anche se dal suono asiatico, ha un’azienda di servizi specializzata nei rapporti con la Cina. C’era ai tempi della Sars e c’è adesso. E’ lui a riferirci di come il mondo si organizzò allora, riuscendo a superare il periodo di fermo delle relazioni commerciali, anche perché, come si diceva, non fu superiore a due mesi o poco più. Con un semplice stop delle consegne e una ripresa, inizialmente a ritmi accelerati, con cui si riuscì a recuperare in pieno il ritardo nei prodotto finali. Ora, ci dice, da quella lezione si è anche imparato ad avere una maggiore capacità di tenuta rispetto a fermi produttivi grazie a una migliore gestione di scorte e magazzini e a una migliore differenziazione delle fonti di approvvigionamento. Ci riferisce, certo, di suoi clienti – è il caso di un contratto chiuso tempo fa per una consegna just in time in Austria – per i quali si è dovuta annullare la fornitura, facendo saltare pagamenti e contratti. Ma per gli altri casi si sono attivati quei cuscinetti logistici creati proprio dopo l’esperienza della Sars.

 

Certo, la tenuta del sistema è a tempo. Il persistente stato di crisi epidemica fino alla tarda primavera farebbe saltare alcune catene produttive. Sono le notizie di questi giorni. In Italia c’è stata una speciale attenzione per le parole di Mike Manley, Ceo di Fca, che ha parlato di possibile imminente sospensione delle attività in uno stabilimento europeo del gruppo.

  

Non ha specificato quale – e così i timori si sono fatti ancora più forti – dicendo poi al Financial Times che “c’è un team incaricato di monitorare qualsiasi potenziale impatto sulla produzione” e che le conseguenze del rallentamento o dell’interruzione dei rapporti di interscambio e di fornitura di pezzi con la Cina non sono al momento quantificabili. Torna quindi a essere caratterizzante la durata della crisi sanitaria. Prendiamo da un tweet di Roberto Burioni un’indicazione, lasciata da lui stesso in sospeso e quindi sottoposta alla necessità di verifiche, ma in grado di sollevare molte preoccupazioni. Nota l’infettivologo che, dai numeri ufficiali, risulta 1 caso positivo tra 56 rimpatriati in Italia e 1 su 9 tra i rimpatriati belgi e poi aggiunge, con la brevità tipica del mezzo, che “o è un colpo di sfortuna incredibile o a Wuhan la situazione è oltre ogni immaginazione”. E poi ancora Burioni cita fonti attendibili riportate da suoi colleghi americani dalle quali emerge la possibilità molto concreta che i casi cinesi riportati siano sottostimati per un fattore di 1 a 10 e che i casi fuori dalla Cina lo siano per un fattore di 1 a 4. Si capisce che con dati di questo genere lo scenario sarebbe completamente diverso. E d’altra parte ciò che risulta finora, dalle fonti ufficiali, in termini di mortalità sembrerebbe far pendere il giudizio verso il caso più preoccupante indicato da Burioni. Ripetiamo che la Sars (forse con una sottostima anche allora, però) fece registrare 774 vittime, mentre con l’epidemia del nuovo coronavirus vengono già indicati 724 morti. La progressione sembra più veloce e più aggressiva, mentre è della settimana scorsa la prima vittima non cinese del virus.

 

Di fronte a questi numeri sembra che la previsione di ripresa rapida, intesa in aprile, del normale interscambio e soprattutto delle forniture di parti per i processi industriali, non sia la più probabile. La lista di grandi aziende multinazionali che hanno fermato la loro attività in Cina si fa intanto più lunga. Qualche nome ci mostra l’ampio raggio di produzioni coinvolte. Airbus ha interrotto il lavoro nel sito di assemblaggio degli A320 a Tianjin, nel nord-est della Cina, e lo fa malgrado il momento di forte domanda sul mercato dei suoi aerei, dovuta anche alle attuali difficoltà del concorrente Boeing. Da Tianjin normalmente escono sei A320 al mese. Nei giorni scorsi erano stati i coreani di Hyundai, che hanno diversi stabilimenti in Cina, a bloccare le linee produttive locali. Aveva colpito, più per ragioni di immagine che per effetti sulla catena industriale mondiale, la chiusura di Starbucks e di McDonald’s. Poi è arrivata Toyota, quindi Bmw, e a seguire pressoché tutto l’automotive multinazionale presente in Cina, che ha proprio in Wuhan la città di riferimento, dove sono concentrare le competenze tecniche e l’indotto. Apple ha dovuto rinunciare all’accelerazione che aveva appena chiesto ai suoi fornitori asiatici, dai quali voleva uno sforzo ulteriore del 10 per cento in vista di una buona stagione di mercato. Niente da fare, invece: non solo non arriverà la maggiore produzione ma ci sono difficoltà per mantenere i livelli di output precedenti, e proprio mentre si stava per lanciare il modello a costo medio per aggredire il mercato asiatico, facendo leva sulla forza del marchio e su prezzi abbordabili. Al momento resta l’annuncio della ripresa dell’attività nella filiera Apple per oggi, ma un rinvio sembra probabile.

 


L’incognita della durata della crisi sanitaria. Si allunga la lista delle multinazionali che hanno fermato la loro attività in Cina.Le rinunce di Apple. Le difficoltà del mercato globale del lusso e le possibili ricadute sul settore energetico. Un’occasione per rafforzare l’adeguamento agli standard europei


 

Il caso di Apple è particolarmente significativo per capire come i grandi produttori mondiali di beni di consumo di alta gamma vengano messi sotto pressione dalla crisi in corso. Il progetto di lancio di uno smartphone di fascia media potrebbe essere rallentato o spostato molto in avanti nel tempo. Significa aprire, nell’immediato, la necessità di creare nuovi spazi nei mercati che si consideravano maturi, come Europa e Stati Uniti, e ripensare le strategie sui prodotti. In Asia era relativamente semplice far leva su un marchio dalla forza straordinaria come la mela morsa e soprattutto questo era il momento giusto per massimizzare i risultati di una vasta campagna di marketing (ragione che probabilmente aveva determinato quella richiesta di aumento del 10 per cento della capacità produttiva annunciata prima dell’esplosione dell’epidemia). Si trattava di colpire sui mercati asiatici prima che il processo di crescita dei marchi locali e di altri concorrenti andasse a soppiantare, sia pure gradualmente, il predominio come immagine e status symbol dei prodotti Apple. Insomma, era il momento giusto e il cigno nero è arrivato, con altrettanta negativa tempestività, a rovinare un piano perfetto. Il marketing di tutte le aziende di prodotti di alta gamma e del lusso dovrà ripensare le sue strategie. E’ la parte creativa delle imprese quella più stressata. Il caso di Apple si può applicare, con solo piccole differenze, a molti altri, e in tanti si troveranno a dover ripensare l’approccio ai mercati di consumo. Ad oggi – si legge dalle fonti più accreditate sul tema – circa un terzo del mercato globale del lusso dipende da acquirenti cinesi che però effettuano il 76 per cento delle transazioni all’estero, per questioni legate al desiderio di autenticità del prodotto e al maggior costo che i prodotti di importazione hanno in Cina. A questi numeri si affianca però la volontà del governo cinese, intenzionato a pianificare anche questo tipo di fenomeni, di aumentare la quota di acquisti sul territorio nazionale portandola, secondo un obiettivo ufficioso, al 50 per cento nel 2025, e questa dinamica potrebbe accelerare di fronte a una prolungata diminuzione del numero di viaggi all’estero. E, ricordiamo, al momento gran parte dei collegamenti da e per la Cina sono stati bloccati dalle principale compagnie aeree mondiali.

 

Un altro settore che dà un’idea della frenata anche solo in questa prima fase degli effetti dell’epidemia è quello dell’intrattenimento. Nel 2019 l’incasso dell’industria cinematografica in Cina ha superato i 9 miliardi di dollari, risultando inferiore solo a quello degli Stati Uniti (11,3 miliardi di dollari). La chiusura forzata – si legge sempre nei primi rapporti in circolazione – di cinema, teatri, sale, stadi e del parco di divertimenti Disneyland a Shanghai ha affossato le aspettative di incasso per 1 miliardo di dollari solo in occasione delle (mancate) vacanze per i festeggiamenti dell’anno lunare. Le stime circolanti restavano centrate sulla possibile ripresa delle attività a partire dall’8 febbraio, ma, come si è visto, questo non si è verificato. Ugualmente, arrivando al mondo produttivo, non risulta alcuna ripresa, dopo il periodo di ferie forzatamente allungato di una settimana, delle principali attività manifatturiere. Il paese principale manifattura del mondo, in questo momento, è sostanzialmente fermo.

  

Torniamo ai confronti col passato per capire che cosa potrebbe aspettarci in termini di contrazione dell’economia. La Sars ebbe un costo globale di circa 40 miliardi di dollari. Ancora una volta dobbiamo usare quel riferimento solo per capire di quanto moltiplicarlo. Dal 2003, anno dell’epidemia di Sars, al 2018 i viaggiatori cinesi all’estero sono passati da 20 a 150 milioni. Solo il giro d’affari determinato da questi minori movimenti causerà, secondo S&P, una contrazione del pil cinese dell’1,2 per cento, mentre altre fonti la calcolano nell’1 per cento. Le stime mondiali ormai hanno aggiustato intorno al 5 per cento la crescita attesa per la Cina nel 2020, rappresentando quindi la maggiore frenata rispetto alle attese degli ultimi anni. Il segnale più diretto, riscontrato già dalla scorsa settimana, è quello sulla riduzione di ordini da parte dell’industria cinese per le materie prime energetiche. Le importazioni di petrolio erano già in calo da giorni, con conseguenze su domanda e prezzo internazionali. Mentre il Sole 24 Ore riferiva di consegne di gas (Gnl) respinte nei porti cinesi perché chi lo aveva ordinato faceva appello alla forza maggiore per non ritirare la merce e non chiudere quindi la transazione. Se l’industria cinese, che aveva fatto razzia di prodotti energetici negli anni recenti, interrompe, sia pure temporaneamente, il flusso di ordini, i problemi su scala mondiale diventano molto rilevanti. Tutto ciò in un paese dove le protezioni per i lavoratori in caso di crisi aziendali sono basse o inesistenti e dove mancano gli strumenti per gestire le tensioni sociali (finora l’unico metodo è stato l’effetto congiunto della continua crescita economica, che dava spazi di inserimento per nuova forza lavoro, e del controllo burocratico e poliziesco sulla vita delle persone). Cosa può succedere sul fronte sociale e politico interno non è facile da prevedere.

 

Fin qui lo scenario generale, soggetto ancora a cambiamenti e probabilmente a cambiamenti in peggio. Il modello fin qui seguito, ovvero l’uso opportunistico (si potrebbe quasi dire parassitario) delle informazioni su mercati, domanda, prodotti, prezzi, orientamenti dei consumatori, messe in circolazione dai paesi caratterizzati da economia libera e società aperta, potrebbe continuare a funzionare e potrebbe dare alla Cina gli strumenti per superare questa crisi. Ma, proprio per l’ambito di cui ci stiamo occupando, è il caso di dire che niente è gratis. Il governo cinese può anche avere i suoi progetti, in stile trumpiano, per spostare i suoi consumatori verso acquisti da produttori nazionali e può cercare di farlo in ambiti come il lusso, anche nell’automotive, o la tecnologia elettronica in cui i marchi non cinesi hanno una presa molto maggiore. E parallelamente i grandi produttori, anche costretti dal rischio di un blocco degli sbocchi presso il pubblico cinese, potranno riorientare le loro strategie di marketing. Ma si tratterebbe di due passaggi non efficienti. Soprattutto per la Cina e poi per il resto del mondo (come detto anche nelle previsioni del Fondo monetario).

 

I dirigenti cinesi possono anche tentare di rompere il giochino che ha permesso al paese la crescita di questi anni e interrompere il flusso di segnali di mercato con cui hanno orientato finora le scelte di investimento delle loro aziende nazionali proiettate verso l’export. Possono fare i piccoli Trump, ma è difficile, anche per i capi del Partito comunista, stabilire che cosa i consumatori nazionali devono comprare e poi farli anche andare materialmente a pagare alla cassa. Oppure possono usare il vaccino, l’immunizzazione, con cui si verrà prima o poi fuori da questa epidemia, per rinforzare anche il loro sistema produttivo. Con tante trasformazioni. A cominciare dall’adozione piena degli standard di igiene pubblica e alimentare dei paesi industriali con cui hanno scambi commerciali. Si critica spesso, da parte sovranista, l’attività regolatoria dell’Unione europea in materia, ad esempio, di sicurezza alimentare e di ambiente in generale, ma quelle regole stringenti, per quanto diano luogo a costi burocratici, sono anche state il presupposto per la circolazione di merci e di persone al riparo, per quanto è possibile, da rischi sistemici. La Cina potrebbe approfittare di questa occasione per rafforzare il suo adeguamento agli standard europei (i migliori al mondo) e farne anche motivo di investimenti pubblici a sostegno della crescita. E, altro passaggio non indolore per il potere, la scoperta del focolaio e poi la consapevolezza della gravità della situazione sono state accelerate da una maggiore attività giornalistica in varie forme, mentre il personaggio simbolo, l’eroe tragico, è stato il giovane oculista non ascoltato quando chiedeva di intervenire per capire cosa stesse scatenando le nuove infezioni che aveva individuato e poi è morto per le conseguenze del contagio subito. La sua vicenda viene raccontata con evidente connotazione anti-censura e avrà effetti profondi. Il mercato funziona così, dà molto e arricchisce chi ne fa uso, ma fermarne gli effetti indesiderati per il potere, per quanto sia consolidato e dichiarato eterno, non è cosa semplice.

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