Le culle vuote non sono una novità
Il tasso di fecondità è ai minimi (1,29). La politica pensa solo alle pensioni e così non nasce chi dovrà pagarle
Milano. Fatte le pensioni, bisogna fare gli italiani che le pagano. Ma gli italiani che le pagano non ci sono, non ci saranno, non nascono e non vivono. La popolazione residente, ci ha fatto sapere l’Istat ieri mattina pubblicando le statistiche demografiche 2019, è in calo per il quinto anno consecutivo; il tasso di fecondità è rimasto lo stesso del 2018, 1,29 figli per donna, in calo costante dal 2010; e il tasso di ricambio della popolazione non è mai stato così basso dal 1918, quindi da più di un secolo fa, l’anno in cui è finita la prima guerra mondiale, l’inutile strage. In Italia nell’anno appena passato sono nati in 435 mila, mentre 647 mila sono morti. Ci sono state appena 67 nascite ogni cento decessi. E non bastano gli ingressi dall’immigrazione, peraltro resi insicuri per legge, a compensare il calo, anche perché su 307 mila nuove iscrizioni all’anagrafe ci sono 164 mila cancellazioni, cittadini che decidono di andare a vivere altrove.
Il fenomeno è sempre più grave, ma non nuovo. Lo studio “Come arginare il crollo demografico: l’efficacia dei sostegni alle famiglie” pubblicato l’anno passato dall’Osservatorio sui conti pubblici dell’università Cattolica di Milano ricostruisce il trend complessivo: nel 1974 il tasso di fecondità media delle donne italiane era di 2,28 figli ed è sceso vertiginosamente a 1,19 nel 1995. Dalla metà degli anni novanta, afferma lo studio, si assiste solo a “un lento e modesto rimbalzo (in parte legato all’immigrazione, in parte alle donne che in precedenza avevano posticipato la maternità)”.
Le serie storiche Istat degli ultimi vent’anni mostrano però che dall’1,46 registrato nel 2010, il numero di figli per donna è tornato a calare in maniera abbastanza costante per arrivare all’1,35 nel 2015 e infine all’1,29 di oggi. Il problema è che questi dati smentiscono già ora le proiezioni demografiche su cui la Ragioneria dello Stato ha basato il rapporto sulle “Tendenze di medio e lungo periodo del sistema pensionistico e socio sanitario”, aggiornate al 2019.
La ragioneria prevede già un picco di spesa previdenziale al 16,1 per cento nel 2044, proprio a causa dell’incremento del “rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati introdotto dalla transizione demografica” che è compensato solo in parte dalla riforma Fornero e cioè “dall’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento” e “l’effetto di contenimento degli importi pensionistici esercitato dalla graduale applicazione del sistema di calcolo contributivo sull’intera vita lavorativa” della riforma Dini. Ma gli scenari adottati per i calcoli sono molto ottimistici. Si basano sulle previsioni demografiche del rapporto Istat “Il Futuro demografico del Paese” del 2018 e su quelle del gruppo di lavoro sull’invecchiamento demografico del Comitato di politica economica del Consiglio Ecofin che, al contrario di quanto accade, considerano un tasso di fecondità in crescita. Le stime Istat prevedono un rialzo della fecondità da “1,34 a 1,59 figli per donna nel periodo 2017 -2065”: una proiezione a dir poco positiva, visto che l’Italia non vede livelli superiori a 1,5 dall’inizio degli Anni 80. Tanto che la stessa Istat specifica che “l’incertezza aumenta lungo il periodo di previsione. L’intervallo di confidenza proiettato al 2065 è piuttosto alto e oscilla tra 1,25 e 1,93 figli per donna”.
Le stime europee si basano sulla previsione della popolazione di Eurostat su base 2015, un po' datata, e infatti è già stato previsto, spiegano le note del rapporto, un aggiornamento su base annua a partire dall’aprile di quest’anno. A oggi, comunque, secondo questa proiezione “il tasso di fecondità cresce linearmente fino a raggiungere il valore di 1,66 nel 2070. Tale valore risulta di poco superiore a quello dello scenario nazionale base, pari ad 1,61 alla stessa data”. Anche sui flussi migratori – anche questi necessari per tenere la spesa sotto controllo – le proiezioni sono più ottimistiche rispetto alla realtà degli ultimi anni. Se il “saldo migratorio con l’estero nel 2019 risulta positivo per 143 mila unità” e la media degli ultimi cinque anni è di un aumento di 156 mila l’anno, le proiezioni al 2070 dell’Istat prevedono un saldo positivo annuo di 162 mila ingressi e quelle di Eurostat altri 28 mila in più l’anno (190 mila). Su queste ipotesi demografiche la ragioneria ha previsto una crescita annua del pil reale dell’1,2 per cento circa, con un aumento tra 2022 e 2026 dovuto sostanzialmente all’abbandono di quota 100 e poi un calo e la conseguenze proporzione tra pil e spesa pensionistica. Ma la crescita è ferma e le previsioni sulle nascite sono smentite già da due anni. E per invertire la tendenza nel breve termine si sarebbe già dovuto investire molto di più sul fronte delle politiche per la famiglia.
Secondo l’analisi dell’Osservatorio della Cattolica, c’è una diretta correlazione tra spesa pubblica a sostegno dei genitori – sia sul fronte dei congedi che nell’offerta di asili – e tasso di natalità. La Svezia che fino agli Anni 80 aveva un tasso di fecondità più basso del nostro ha invertito la tendenza impegnando il 3 per cento del pil (circa il 10 per cento della spesa pubblica), l’Italia è ferma all’1,6 per cento (dati 2017). Per poter avere un futuro e un debito previdenziale sostenibile bisogna insomma investire sulle famiglie e sulla natalità. Invece la politica già pensa ad aumentare la spesa in pensioni, e di certo è anche per questo motivo che gli italiani per pagarle non nascono.
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