Far durare l'amore anche oltre San Valentino
Siamo un popolo di eterni innamorati che però non si sposano e non fanno figli. Gli amori sono sempre più rapidi, provvisori, fragili ma pur sempre un antidoto alla routine e alla noia
Ieri sera, San Valentino, i ristoranti erano pieni. Non solo perché siamo una società signorile di massa ma anche perché siamo un popolo di eterni innamorati. Che però non si sposano più né fanno figli. Più che delle coppie sembra divenuto, San Valentino, il protettore dei ristoranti, perché ieri non si trovava un tavolo libero da nessuna parte. Tavoli e cuori occupati. Il tempo di una cena. A Los Angeles, al 6751 di Hollywood Boulevard, c’è il Museo delle relazioni finite. È pieno di storie di coppie che si sono lasciate e di oggetti che, nel tempo dell’amore, hanno contato: il primo regalo, fotografie, poesie, lettere, un disegno che sul treno uno straniero aveva lasciato ai due innamorati. I legami che si interrompono sono così tanti che ce n’è quanto basta per allestirci un museo.
Nel 2014 Papa Francesco invitò in Piazza San Pietro i giovani fidanzati che avevano in programma di sposarsi, da un’idea di Mons. Vincenzo Paglia, che a Terni, città del Santo, lo aveva fatto per anni. Il Papa mise in guardia dal rischio di una “cultura del provvisorio” e, più avanti, in Amoris Laetitia, avrebbe poi riconosciuto che “coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo”. Ecco, appunto: sperano. Niente più che, spesso, solo una grande speranza.
Nelle parrocchie, certo, è raro che manchi un “corso prematrimoniale”. Ma, stando ai frutti, dovremo riconoscere che la Chiesa ha un problema col matrimonio. E, forse, con le parole con cui parla dell’amore. Anche se è scritto, nella Bibbia, che “Dio è Amore”. Di matrimoni ce ne sono pochi e meno ne durano. Gli amori però sono in piena salute, spuntano e fioriscono come sempre, anzi quasi di più, liberi e sottili, effimeri magari ma eccitanti: popolano, riempiono, purificano l’ambiente, rendono esaltante e frizzante la noia quotidiana o turbano e infettano l’aria e il vivere di ogni giorno, a seconda dei punti di vista. Senza chiedere il permesso sbocciano tra i banchi di scuola, dove gli è consono nascere ma anche in ufficio, tra le mura domestiche altrui, dove non sarebbe il caso di intromettersi (più). Ma l’amore è libero. E anche un po’ populista. Credo che, nel mondo, abbiamo raggiunto il maggior numero mai esistito di amori, ce ne saranno miliardi. Rapidi, provvisori, fragili ma pur sempre un antidoto alla routine e alla noia.
Edgar Lee Masters fa dire alla sua Sarah Brown: “Non ci sono matrimoni in cielo, ma c’è amore”. Se ha ragione il poeta americano, il Cielo è – quanto meno – solo un gran caos. Ma capiremo un giorno. Intanto, stando coi piedi per terra, qualche riflessione pare urgente. Guai a sottovalutare quella splendida creazione che è il colpo di fulmine e la complicata origine dell’infatuazione amorosa ma oggi manca una voce che, per lo meno, sappia, con un po’ di sana ironia, restituirgli la giusta dimensione. Lo faceva Balzac, con la sua Eugénie Grandet, descritta così a poche ore dall’incontro col bel Charles: “Le erano venute alla mente più idee in un quarto d’ora che di quante ne avesse avute da quando era nata”.
Finalmente il tema della denatalità sta emergendo. Se ognuno farà il proprio dovere, politici, sociologi ed economisti saranno chiamati ad analisi e soluzioni. La Chiesa dovrà però trovare la sua propria, di lettura e di proposta. I figli non si fanno con i soldi, caso mai per farli, i soldi. Nella storia i figli li hanno sempre fatti i poveri, anche perché contribuissero alla crescita delle risorse. La questione economica è fake news. È vero, però, che credere che i miei figli saranno un po’ più poveri di me non fa sorgere il desiderio di mettere al mondo una prole che noi supponiamo sarà, per questo, infelice. Questo pensiero è il più efficace metodo anticoncezionale. Né i figli li fanno i muscoli che all’atto che li genera sovrintendono. Quelli pare che funzionino, come sempre. Roberto Volpi, su queste colonne, ha osato dire, dati alla mano, che si fanno più figli dopo i terremoti. È stato così ad Amatrice, a L’Aquila, in Giappone. Si fanno se si sente di dover costruire, di dover partecipare, contribuendo, all’opera creatrice che continua con la generazione.
Una seconda spinta a fare figli viene dalla capacità di far durare l’amore. I figli li fa l’amore che dura. L’amore fragile e a tempo non prevede figli. Almeno a questo ci arrivano tutti, anche i giovani meno seri, impegnati, assennati: siccome tra poco ci lasceremo, non metto al mondo un figlio monco di genitori. Siamo, forse, al centro de problema: la fedeltà dei legami, la capacità di durare e perseverare. Perché Dio è lento, calmo, paziente e, perciò, fedele. Oggi suscitano molto interesse studi e letture che aiutino a scoprire la “vera natura” dell’amore. Una visione naturale dell’amore fa fiorire molta letteratura su relazioni tra amore e cervello, tra mente ed emozioni. Tanti cercano uno specchio in cui riconoscere cosa accade quando ci innamoriamo.
In Homo Biologicus, Vincenzo Piazza osa l’impossibile: afferma che il meglio dell’umano, il piacere, la libertà, l’amore e persino la guerra tra progressisti e conservatori, tutto è già scritto nella biologia umana. Anche le cellule amano il piacere e vogliono essere libere, scrive Piazza. Ma, nei secoli, la Chiesa si è sempre assunta la responsabilità di raccontare l’uomo partendo dalla sua Natura, per poi proporre la strada della Grazia. Natura e Grazia dovrebbero essere la specialità del pensiero cristiano, non solo dei neuroscienziati.
Oggi però, la Natura come la possiamo scoprire e conoscere non è più quella di Agostino ma neppure dei grandi teologi di cinquant’anni fa. Angelo Scola riporta la breve sintesi di Helen Fisher su come il legame di coppia si sarebbe naturalmente sviluppato secondo una lettura evolutiva e deterministica della nostra natura. “Credo che l’amore romantico sia una delle tre reti primordiali del cervello, che si sono sviluppate per spingere gli esseri viventi all’accoppiamento e alla riproduzione. La libido, cioè il desiderio di gratificazione sessuale, si è manifestato per motivare i nostri antenati alla ricerca di un rapporto sessuale con un qualsiasi partner. L’amore romantico, l’euforia e l’ossessione dell’innamoramento, li ha spinti a concentrare l’attenzione su di un solo individuo, conservando così tempo prezioso ed energie per l’accoppiamento. E infine l’attaccamento uomo-donna, cioè la sensazione di pace e di sicurezza, che spesso si trova per un partner di lunga durata, si è sviluppato affinché i nostri antenati amassero questa persona abbastanza a lungo da allevare i figli nati dalla loro unione”. E il vescovo dubita che queste parole abbiano l’esclusiva “pretesa di spiegare la sequenza persona – famiglia – società”. Se tutto fosse così semplice, infatti, ogni matrimonio dovrebbe “naturalmente” giungere serenamente e in pace alla sua conclusione con la morte dei coniugi. Siccome non è così, è evidente che manchi qualcosa, molto. Ma cosa? Ad ogni modo affermare che l’amore di coppia sia sorto, ai primordi della specie, per prendersi cura dei figli in maniera più seria e profonda, sembra un dato da non trascurare. Vorrebbe dire che l’amore non è affatto disinteressato ma un interesse ce l’ha e come: curare la prole. E che, di default, tutti ne siamo dotati. Esisterebbe, già in natura, una progressione che va verso la medesima direzione di quest’altre parole: L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto (Mt.19,6). Che invece le ha dette Gesù Cristo e non un antropologo evoluzionista. O, forse, il migliore antropologo in assoluto.
Quel che manca, secondo lo spirito cristiano, è la Grazia. Perché la Natura sarà pur buona, capace, ma siccome è ferita zoppica e non avanza da sola, almeno nella giusta direzione. Un antico pensatore ha detto che “la grazia calma la natura”. Calmare vuol dire permettere di percorrere il cammino che si deve percorrere. Questa realtà soprannaturale, la Grazia, è – in fin dei conti - la capacità di rendere attraente e affascinante l’abitudine. L’avere sempre la stessa persona accanto. Se ai nostri giorni piace molto l’uomo naturale, così come lo ha fatto la mamma, spontaneo, immediato e un po’ impulsivo e trucido nel suo modello basic, allora di matrimonio nemmeno a parlarne. Per il nostro cervello primitivo solo la novità è eccitante. Solo ciò che è giovane, piccolo, nuovo, con tutta la vita davanti, non mi fa pensare che c’è la vecchiaia, più in là, e, alla fine, un mistero che non sappiamo come affrontare. Questa tendenza neotenica a farci eccitare da ciò che è giovane e bello non aiuta neppure l’amore per i vecchi, che infatti scartiamo, come Francesco ricorda spesso.
Incapacità a perseverare e antipatia per i vecchi hanno la stessa radice: naturalmente aborriamo ciò che dura perché chi dura invecchia e a noi non piace la vecchiaia. L’abitudine rimanda a due punti sulla stessa linea, che si ripetono all’infinito e fanno una noiosa retta che non attira nessuno. E che assomiglia al nostro ultimo encefalogramma. Papa Francesco, nella sua lettera sull’Amore, chiede a tutti di provare a confrontare i nostri amori con il modello che la Bibbia descrive, in una lettera dell’apostolo Paolo. Tanto per avere un riferimento. Là è scritto così: L’amore è magnanimo, benevolo, non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità (1 Cor 13, 4-7). Il confronto tra queste parole e i nostri legami è, a volte, impietoso: quando si tratta del nostro vecchio partner, che tanto ci ha fatto soffrire, non siamo affatto magnanimi né benevoli, invidiamo la sua nuova storia d’amore, ci vantiamo di essere migliori, diventiamo orgogliosi, cerchiamo solo il nostro interesse, ci adiriamo tantissimo, teniamo in gran conto il male ricevuto, godiamo con piacere se l’altro viene tradito e ci rallegriamo di dire una valanga di menzogne.
San Paolo e la sua “carità” appaiono, davanti alla tempesta del naufragio dell’amore, quanto meno velleitari e utopici. Ma il cuore si educa, con pazienza e con calma. L’abitudine può essere illuminata e diventare una grande occasione. Già il termine viene da “abito”, che è qualcosa di grande e di bello, noi ne cambiamo uno ogni giorno ma sempre di un abito abbiamo bisogno. E l’uomo veste anche i morti, siamo molto legati agli abiti. L’uomo e la donna capaci di sostenere la vertigine dell’abitudine sono persone forti, stabili, con una identità ferma. Diamo molte colpe all’eccesso di individualismo ma per fare un matrimonio ci vuole più “io”, non meno. Ci vogliono persone con identità forti, costruite. La forza di resistere è ciò che manca al fragile “sé” dell’uomo dei nostri tempi. È questo l’aggettivo che usa il cardinale Montini mentre predica durante un matrimonio, a Milano: “Sarebbe da dire: un matrimonio ideale deve essere un matrimonio felice. Sì, ma non è la parola che mi soddisfa… io vorrei che la vostra famiglia fosse forte. Questa è la parola”. Aggiunge Chantal Delsol: “L’indeterminatezza del pensiero contemporaneo, che segue le logiche utopistiche, preferisce la libertà assoluta alla determinatezza che chiude sempre le porte. Io posso diventare qualunque cosa, se affermo di non essere nulla di definito …affermare che l’uomo ha un volto definito vuol dire far diminuire le sue possibilità mentre entra in scena l’essere. Equivale ad abbandonare l’obiettivo della libertà totale per affermare la responsabilità di chi, da quel momento in poi, dovrà proteggere e difendere ciò che è”.
Infine, dopo aver ricordato che per un matrimonio fedele ci vorrà più persona e non meno, dovremmo aggiungere con qualche provocazione che ci vorrà anche meno amore, non di più. O almeno meno passione, meno calore. L’uomo non ha scoperto il fuoco, c’era già. Ha scoperto come addomesticarlo e domarlo, per cuocervi qualcosa con la calma della tiepidezza. Pena il bruciare troppo e l’incenerirsi dei legami. Anche la vita è comparsa sulla Terra quando questa ebbe la bella idea di raffreddarsi un po’. Pascal Bruckner suggerisce: “Bisogna riabilitare il clima temperato del sentimento, all’amore folle opporre l’amore dolce che lavora all’edificazione del mondo, viene a patti con i giorni, li vede come alleati e non come nemici… i nostri avi si sforzavano di stimarsi a partire da un matrimonio combinato, noi dobbiamo fare il contrario: trovare delle sistemazioni amichevoli a partire da un’originaria passione”. Potrebbe essere un commento alle parole che Benedetto XVI rivolse alle coppie, a Milano, nel 2012: “Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente «secondo vino» è più bello, migliore del primo vino. E questo dobbiamo cercare. E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici”. Se impareremo a far durare l’amore, torneremo anche a dare figli al mondo. E la festa di San Valentino ritroverà un senso, a parte quello di occupare il tempo di una cena. La prima e, troppo spesso, l’ultima.
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