Non argineremo il coronavirus con la scienza, almeno non solo, non subito. Serviranno, servono da ora, e in verità servivano da ieri, le buone maniere, le precauzioni, la disciplina. Tutte arti che l’umanità da anni espunge dall’esercizio quotidiano di civiltà e civismo, nel nome dell’uno vale uno e di una società più giusta, trasparente, sincera, autentica. Ma adesso, quasi al culmine di questo processo di abolizione di regole, gerarchie, competenze, differenze e ruoli, un contagio influenzale dalle potenzialità un giorno ridicole e il giorno dopo preoccupanti, ci costringe a starcene al posto nostro, imparare a seguire un galateo, obbedire a precisi codici comportamentali che sono anche tutti da riscrivere, massimizzare, centuplicare, immettendo nell’etichetta ciò che prima stava nella psicopatologia. Se lavarsi continuamente le mani era rupofobia, adesso è patriottismo. Ricordate Jack Nicholson in “Qualcosa è cambiato”, lo scrittore inamabile che tornava a casa, si lavava le mani a lungo e poi gettava via la saponetta? O Larry David che in “Basta che funzioni” di Woody Allen si lavava le mani cantando “Happy Birthday”? Ieri erano sociopatici misogini misantropi, oggi sono modelli comportamentali. In Inghilterra si raccomanda di lavarsi le mani cantando “Happy Birthday” due volte di fila. Il ministro Roberto Speranza non ha ancora stilato una playlist di pezzi da cantare mentre ci mondiamo le estremità (noi consigliamo Elettra Lamborghini).
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