Un'invisibilità perversa
Contro il coronavirus una guerra comprensibile solo all’uomo che sa intuire l’umano. Gli sfollati brancolano nel deserto. Fragilità e speranza in un mondo che si è incistito
Non ho mai pensato che gli uomini fossero forti, la Storia vincente, la Civiltà padrona del Mistero. Da quando in Cina è scoppiato il caso del coronavirus, sono rimasto per un bel po’ distratto dal mio corpo. Il corpo l’ho usato sempre come medium, per combattere e per percepire le cose e dunque scrivere. E seppur distratto, il mio intuito sfrenato mi ha subito inoculato l’idea che a Wuhan stava accadendo una roba “inconcepibile” soltanto per gli umani sprovveduti, o meglio: per gli uomini che vivono senza sapere di essere già morti. Mentre ero impegnato a controllare la ferituzza sui genitali, i tre chili di peso (tutto zucchero) che devo smaltire, aspettando le bozze del mio nuovo romanzo di un uomo che come Camus non solo disprezza il mondo ma crede che il disprezzo è l’unico sentimento che possa deviare il destino, sui social notavo una dose di ironia troppo sperperata per non essere l’anticamera della paura. Così, osservando una opera dell’artista Felice Levini, che mostra un cielo da aurora boreale e un ritratto di pirata con tricorno e maschera, ho scritto su Fb: “Non so perché questa operina del mio amico Levini mi conforta. Insieme al radicale amore ritrovato per Drieu. Credo che solo Drieu (insieme a me) avrebbe potuto staccare il virus dalla corona. Come? Strozzando nella culla i Savoia”. Aggiungo in anticipo l’intromissione di Drieu La Rochelle, per una sua frase appunto pertinente a ciò che cercherò di sviluppare: “L’Europa si è ridotta a portare le sue chiese senza Dio, i suoi palazzi senza re come gioielli scintillanti sul seno sfatto”. Mi fermo qui. Perché c’è moltissima carne sul fuoco (povere bestie migliori di noi).
Ripenso a Drieu La Rochelle: “L’Europa si è ridotta a portare le sue chiese senza Dio, i suoi palazzi senza re come gioielli sul seno sfatto”
Si era partiti dal corpo. Ho visto gli operati negli ospedali degli anni Sessanta. Parevano bestie a pezzi appese ai ganci dei macelli. Mi hanno asportato le tonsille da sveglio. Insomma sono stato sempre preparato al duello tra maschera di plastica nera che si usava per le anestesie, bisturi, gessi e operazioni al cuore. Ma il virus proprio non lo contemplavo. Da bimbo ebbi la varicella. Quando mi dissero di rimanere fermo a letto senza toccarmi il viso con le mani, altrimenti sarei rimasto “sfregiato”, indossai metaforicamente La maschera di ferro che avevo visto al cinema e rimasi mummia per giorni e giorni. Senza offesa per nessuno, da grandicello non ho mai messo piede in un ristorante cinese, mangiando ancora adesso come un contadino. Però misi piede senza saperlo in un loro negozio, quando un mio amico malato di Parkinson si pisciò addosso nel cesso di un bar e dovetti andare a cercargli un paio di pantaloni asciutti e puliti. La cinese mi voleva vendere a forza quelli che costavano cinque euro e non quelli da quindici. Mi parve strano. Me ne feci un’idea. Ma tralascio.
Mao non mi piaceva. Preferivo perfino Stalin. E i cinesi li ho sempre avvertiti come un formicaio indaffarato e affamato. Io sono uno che non ha amato Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci. Eppure ho divagato con la fantasia sui viaggi di Marco Polo e del gesuita Matteo Ricci. Mi sto spingendo con simpatia fin qui per dire che dall’oriente sono nate le grandi civiltà: egizia, babilonese, greca… Omero aveva messo in bella copia i Canti orali nell’Iliade e nell’Odissea. E Virgilio aveva provveduto a inoltrare quella saggezza. Bastava così. Ogni cosa era stata detta. Dante infine li ristudia e riordina nella sfera santa del sistema tolemaico.
Da Levante sono arrivati gli etruschi che hanno costruito la spina dorsale dell’Italia. E da là è arrivato lo spirito di Cristo che si dimentica di sangue ebreo. Là è arrivata la vita, cioè la luce, e la morte. Dopo Bisanzio, fu fondata Costantinopoli allo scopo di riunire una intera civiltà ricca di sincretismi. Non è stato possibile. Ma esiste Gerusalemme. E cioè la vita e la morte del mondo. Sono certo che il vaccino per questo Covid-19 lo scopriranno in Israele. Sarebbe una vera nuova alba per l’umanità. Dicevo che il Dio fattosi uomo è morto sul Calvario mentre la sua parola ha costruito la Civiltà d’Europa. Ha edificato cattedrali e inventato arte; fatto nascere santi e guerrieri.
Non ho più dimenticato quella parola, “fragile”, che perfino i non credenti avrebbero dovuto applicare a ogni singola vita umana
Ora c’è da confermare che con questa pandemia (zoonosi) arrivata all’uomo attraverso il pipistrello che l’ha iniettata al pangolino – un animaletto con la schiena simile a foglie di carciofo, rassomigliante all’istrice o a una faina ricoperta di scaglie di pesce o branchie sempre di pesce, animaletto commestibile – è scoppiata una guerra inedita. Che sappiamo all’incirca quando è iniziata ma non quando finirà. E’ invisibile. Non è affatto eroica. Non è quella combattuta sul Piave, anche se nella Grande guerra si usavano gas invisibili, né ha a che spartire con la Seconda del Novecento. E comunque questa guerra che ci tocca combattere nudi e stupidi più degli animali di ogni specie migliori in intelligenza di noi, è una guerra che ha in dotazione armi rassomiglianti agli ultimi e sempre ravvicinati conflitti.
Oggi la sigla della bomba è Covid-19; ieri era il missile V2 e la Bomba H. Atomica. Fu sganciata a Hiroshima e Nagasaki. Per decenni il mondo fu terrorizzato da una Terza belligeranza nucleare. Per non dimenticare l’Hiv o Aids.
Il coronavirus è invisibile come il terremoto. Ma per quanto è devastante quest’ultimo (io l’ho nel Dna giacché sono nato sui vulcani e lo percepisco fin da quando ero nella culla), la invisibilità che viene dall’Asia è perversa. E’ una guerra perversa comprensibile solo all’uomo che sa ancora intuire l’umano, senza maschere da manipolazione genetica. Gli sfollati brancolano nel deserto.
Non ho amato “Piccolo Buddha” di Bertolucci. Eppure ho divagato con la fantasia sui viaggi di Marco Polo e del gesuita Matteo Ricci
Sragionando trovo che “invisibile” può essere sinonimo di “fragile”. Almeno è plausibile in questo narrare. Mi fa ricordare due prediche sulla fragilità. Certo allora fatte da sacerdoti cattolici in due chiese: una a Siviglia; l’altra a Roma in Sant’Andrea della Valle nella notte di Natale. Io che sono un pre cristiano o delle origini, e non cattolico praticante (pur parteggiando per il Papa emerito Ratzinger), tradussi le parole del gesuita spagnolo (“bisogna riconquistare… siamo fragili… dobbiamo riconquistare…), e quelle del capo politico e guida spirituale di Cl Giacomo Tantardini (siamo fragili… può cadere tutto da un momento all’altro… Siamo fragili… fragili…) come due moniti che mi colpirono alla stregua di sentenze capitali. Eppure ascoltavo il prete a Siviglia con un occhio al Duomo e uno all’aranceto; e Tantardini perché ero là inginocchiato con una moltitudine di giovani del movimento, soprattutto con Luca Doninelli e Giuseppe Frangi che volle farmi scrivere per il Sabato da eterodosso quale io ero e sono. E’ passato un trentennio e non ho più dimenticato quella parola (“fragile”) che perfino i non credenti avrebbero dovuto applicare a ogni singola vita umana e a ogni minuzia o grandezza partorita dall’umano.
Anche chi non crede alla Divina Provvidenza è costretto a convenire che essa è una colla, cioè il più squisito latte umano
Si riparla finalmente di Alessandro Manzoni e del suo romanzo. Oggi, si cita oggi, per via del coronavirus. Si giocherella con l’assioma: peste-virus. Ma pochi hanno davvero letto I promessi sposi. Nella peste manzoniana, nel lazzaretto e quando finisce, l’uomo mai si stacca dalla speranza. Anche chi non crede alla Divina Provvidenza è costretto a convenire che essa è una colla, cioè il più squisito latte umano. Rivedo il dibattito Rai tra “il cinico” Moravia, che liquidava il romanzo come “cattolico”, e il cantore del Sacro Monte di Varallo Giovanni Testori che invece nella sua versione teatrale dell’opera scrive così di Milano: “Sì, città, città sigillo, città cesta dove un giorno riposeremo la nostra stanca testa. Io vi saluto case, strade, piazze, asili, fabbriche mai finite, strade dalla peste circuite, città ospedale. Oh vale, sì vale essere figli tuoi anche qui e ora. L’afa di morte sale, ma tu stranita, vuota, morta, città scorta, città porta adoprati e accetta che sia questa prova il sì che veramente ti rinnova”.
Sembra uno scherzo dal sapore gotico o apocalittico ma non lo è. Almeno dalla prospettiva del mio essere un piccolo uomo. Più di vent’anni fa, siccome ho sempre prestato attenzione e curiosità per le scritte sui muri, passando per una strada su un intonaco fresco lessi: MORTE AI MAGHI E ALLE STREGHE W CRISTO RE. Mi servì per il finale del romanzo che stavo scrivendo (Tuttestelle, perdonatemi se mi cito). Ecco, in quel libro del 1998, il Cristo morto a Gerusalemme e giunto tramite la parola dei suoi apostoli in Europa e nel mondo intero, scelsi di farlo rassomigliare al Cristo di Grünewald, talmente piagato e trafitto da sembrare preda di una infezione mostruosa. Così lo descrissi: “Nel mio sogno di maghi e streghe non c’era nessuna traccia. Invece contro un cielo assolutamente nero si stagliava un Cristo in croce che aveva le braccia lunghe e le gambe ricurve all’indietro. Il corpo mi pareva gommoso, mentre le dita delle mani erano atteggiate ad artigli, per via della contrazione dei palmi trafitti dai chiodi.
Anche le dita dei piedi erano artigliesche, anzi mi parevano rassomiglianti più a pinne di un anfibio che non alle dita di un uomo.
Sulle anche il Cristo aveva legato uno straccio liso, proprio uno strofinaccio da cucina.
L’addome, nel sogno, sembrava costruito con una gabbia di legno rivestita di materiale plastico. La faccia era calcata sulla spalla destra: i capelli e la barbetta posticci o formati da peli ghiacciati. Gli occhi erano serrati. La bocca aperta, priva di respiro.
Il Cristo sulla croce pareva un lebbroso, così ricoperto di vesciche e pustole. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse macchiato o bucato. Ma a un certo punto nel sogno accadde che dalle centinaia di ferite partirono altrettanti raggi di luce, che andarono a colpire il cielo nero che ora invece si illuminava di tuttestelle.
Mi svegliai che avevo negli occhi il firmamento”.
Eravamo alla fine del secondo millennio. Pensavo che l’inizio del terzo fosse un cielo luminoso come quando principia un amore. Il 7 settembre del 1997 la tivvù, in mondovisione, trasmette i funerali di Lady Diana, la principessa del Galles, l’ex consorte di Carlo d’Inghilterra, morta in un feroce e surreale incidente automobilistico a Parigi. Ecco, quel giorno, il mondo faceva le prove televisive della globalizzazione che sarebbe nata con il nuovo secolo. Secolo e millennio che si annunciavano magici. Invece da allora non siamo saliti verso il firmamento. Anzi. Pare che il cosiddetto secolo “breve”, cioè il Novecento, sia lunghissimo. Come se non fosse mai passato. Il mondo non si è elevato. Si è incistito. Guerre, perversioni, crescita di una abnorme massa di servi della gleba, potenti che non sanno più neppure loro dove va la Storia. Infatti non faccio che ripetermi ossessivamente: Ma la storia va avanti? Mi risponde il titolo di un romanzo di D’Annunzio: Forse che sì, forse che no. Oppure la Storia, mi viene in mente stupidamente, procede come la strofa di una canzone di Adriano Celentano?
“Tre passi avanti e crollano i bugiardi”.