Storia sentimentale delle sigarette
Amato, odiato, perseguitato. Il fumo dall'epopea alla gogna
Le Turmac di Berlinguer e quelle di Totò, le egiziane di Caruso. Il ragazzino del bar col vassoio dei caffè e le Marlboro di contrabbando. E Sciascia, avrebbe scritto meglio o peggio senza fumare? Romanzo del tabagista novecentesco
In un imprecisato mattino d’inverno del 1896 il maestro Costantino Palumbo, illustre concertista e insegnante di pianoforte principale nel Conservatorio di Napoli, entrò nella sala professori dell’antico convento di S. Pietro a Majella per firmare il registro delle presenze. Abbigliamento curato, andatura elegante, la sigaretta in bocca, il maestro non sa che quel giorno c’è la visita dell’ispettore ministeriale, un inflessibile burocrate il quale, al suo ingresso, lo scruta attraverso gli occhiali a stanghette e lo rimbrotta: “Professore, qui dentro non si fuma!”.
Ci sono istanti irripetibili per consegnare alla memoria una battuta, una risposta, un gesto. Però, per non sciuparli, vanno afferrati senza esitazione come per un sorpasso in autostrada ovvero, nel caso di Palumbo, come un gruppetto di biscrome. E il maestro, quel giorno, lo fa: “Se qui non si fuma – scandisce pronto – Costantino Palumbo preferisce la sigaretta all’ispettore ministeriale e si dimette”. Prima di lasciare la sala, si rivolge nuovamente all’impietrito funzionario e aggiunge: “Sappia, ad ogni modo, che per il Conservatorio di Napoli sarebbe stato meglio un Costantino Palumbo in più e un ispettore ministeriale in meno”. Avrà gettato, uscendo, la sigaretta ormai finita come la sua carriera di pubblico docente, cominciata nel 1873 con la conquista della cattedra dopo aver raggiunto celebrità europea di esecutore. Cinque anni prima del concorso, a Parigi, trascorreva le sere in casa di Rossini: mentre l’anziano genio componeva i Péchés de vieillesse, Palumbo glieli suonava al pianoforte. Tra una pagina di musica e l’altra, ovviamente, si poteva fumare.
Abbigliamento curato, andatura elegante, la sigaretta in bocca, il maestro non sa che quel giorno c’è la visita dell’ispettore ministeriale. Nato e cresciuto nel Novecento, il fumatore irriducibile s’è avanzato nel secolo nuovo affondando in quello vecchio
C’è sempre una norma, un codice, un decalogo aziendale di cui qualcuno garantirà la ferrea applicazione con quel gusto quasi erotico degli uomini meticolosi, quali che siano le ragioni del divieto: ministeriali, mediche, morali, religiose o criminali. Ma prima o poi s’imbatterà, o s’è già imbattuto, nel tipo ancorché rarefatto del professor Palumbo, il quale non è un anarchico ma un realista convinto che i regolamenti incidano più delle carte costituzionali sulle minuscole libertà e che siano queste, messe assieme, a comporre la Libertà maiuscola.
Forse nulla meglio del fumo rappresenta il transito dall’epoca che rimetteva la civile convivenza all’educazione individuale a una che la delega alla legge uguale per tutti. Forse nessuno meglio dei pervicaci fumatori ha constatato il mutamento velocissimo del mondo, utilizzando per parametro più il proprio vizio che il lunario dei governi, delle mode e delle incipienti tecnologie.
Nato e cresciuto nel Novecento, il fumatore irriducibile s’è avanzato nel secolo nuovo affondando in quello vecchio col piede di dietro e delegando anche alla sigaretta l’illusione della durata giovanile, secondo una poesia smentita dalla medicina, dal costume e dalla razionalità. È la poetica, e l’estetica, che ancora riemergono dai fotogrammi di una vita fa. Si riflettevano negli schermi televisivi in bianco e nero, dove posacenere e sigarette costituirono l’accessorio di ogni Tribuna politica e di ogni conferenza stampa. E persistettero anche dopo la liquefazione di quell’Italia nei programmi a colori, in una durata supplementare o forse postuma agganciata al vizio di sparuti personaggi: Marco Pannella, Gianfranco Funari. Furono estetica e poetica che si riflessero lungamente negli schermi cinematografici laddove il fumo, con l’esibizione di pacchetti sgargianti e accendini dorati, fu elemento essenziale delle sceneggiature. E’ tutto nella durata di una sigaretta, che brucia sul bordo di un tavolo, il colpo di scena finale del capolavoro di Fernando Di Leo, Milano calibro 9, con l’uccisione a tradimento di Ugo Piazza, l’ingannevole perfidia di Nelly e l’indignazione omicida di Rocco. Al di là dei volti di Gastone Moschin, di Barbara Bouchet e Mario Adorf, permane dopo quella manciata di secondi – come fotogramma conclusivo – la sigaretta che sta per farsi cenere sulla parola “Fine” mentre scorrono i titoli di coda. Il gioco d’erudizione tra cinefili può ben partire, Casablanca sarebbe troppo facile perciò non vale, però senza l’estetica del fumo chilometri di pellicole risulterebbero tagliati o deturpati. Con Le conseguenze dell’amore è già passato il Duemila quando Titta Di Girolamo, nel tedio coatto di un grigio albergo svizzero che somiglia troppo alla vita di tanti, puntella giorni sonnolenti e notti insonni accendendo sigarette con la compulsiva noncuranza dei veri fumatori. Più avanti ancora Toni Servillo, nei panni assai diversi di Jep Gambardella, puntellerà di sigarette il kitsch e il vacuo dei giorni e delle notti romane. E’ La grande bellezza e senza farci caso quanto resta di quella poetica s’è già allungato al 2013.
Quella vita fa, e la sua ostinata rimanenza, furono germinate dal senso di abbondanza e meraviglia conseguibili persino dagli adolescenti dinanzi al muro multicolore dei pacchetti. S’ergeva alle spalle dei tabaccai, dove s’accatastavano decine di opzioni in un’epoca che ne offriva generalmente poche. Si sceglieva una marca piuttosto che un’altra per provare sapori e per distinguersi grazie alle sigarette: come se fossero segni astrologici, ma questi erano solo dodici e quelle molte di più. La virilità antiquata delle Nazionali, la passabile medietas delle MS (gialle, rosse o blu), il glamour americano delle Marlboro, delle Lucky Strike o delle Chesterfield, il coraggio necessario per le Pall Mall (specie se senza filtro), la sobrietà teutonica delle HB, la raffinatezza delle Dunhill, la femminilità delle Astor, la scelta pseudosalutista delle Milde Sorte pubblicizzate addirittura da Adriano Panatta e da Gustavo Thoeni, l’avveniristico filtro delle Gallant, la trasgressione al mentolo con le dozzinali Pack oppure con le ricche St. Moritz dalla fascia dorata, costose ma di un lusso che una volta all’anno si poteva sfoggiare. Magari a Capodanno. Magari per il compleanno.
E’ tutto nella durata di una sigaretta, che brucia sul bordo di un tavolo, il colpo di scena finale del capolavoro “Milano calibro 9”. Toni Servillo, nei panni assai diversi di Jep Gambardella, puntellerà di sigarette il kitsch e il vacuo dei giorni e delle notti romane
Nei giorni di penuria si potevano acquistare le sigarette “sciolte”, ossia sfuse, anche una sola o due o tre, che il tabaccaio allungava avvolte nella plastica. Al capo opposto del benessere e dell’approvvigionamento, la stecca da dieci pacchetti corrispondente a un momentaneo tesoro da porre al sicuro.
La scelta di quel segno zodiacale, quasi una sorta di tatuaggio, poteva pur essere compiuta poiché mossi più dalla seduzione del pacchetto che dal gusto del tabacco. Il rosso e oro delle Roy (pronuncia: roi), il nero e oro delle John Player Special, l’azzurro pallido delle Gauloises con l’elmo alato e il pacchetto corto, la bianchezza delle Kent (candido anche il filtro). Scelte che furono elemento distintivo, il tratto mobile nella breve biografia di chi, cambiando intenti o ragazza, cambiava anche marca di sigarette e qualche volta genere di musica, letture, attività sportiva. S’avanzava tutti dinanzi a uno sciame di conoscenti o di parenti anziani, naturalmente quasi sempre fumatori ma di marche dai sapori reputati disgustosi o impossibili, tabacchi d’altri tempi. “Sai che è morto il benzinaio? Chi, quello che fumava le Colombo? No, quello delle Stop senza filtro”. Una zia esibiva le Multifilter, il nonno le Presidente, i poveri più poveri le Alfa senza nemmeno il cellophane. Altro che segni zodiacali. Si tracciò sui tipi di sigarette la dettagliata carta astrale dell’umanità in un’Italia che oggi è nel ricordo piccola e circostante. “Che sigarette fumi? No grazie, preferisco le mie. Prova una di queste”: sanno di nicotina certe stereotipe battute del secondo Novecento, assieme a parole divenute desuete quali “Minerva, svedesi, cerini, Bofil”.
Seppero di nicotina gli scioperi, gli attivi sindacali, i cineforum, le sezioni di partito di qualunque colore e persino le Brigate Rosse. Anche dietro i loro deliri si risente puzza di posacenere pieni. Nelle scuole la differenza sostanziale tra un professore e gli studenti era che lui poteva fumare in classe e quelli no. Loro si rifacevano nelle assemblee, dove chi soffriva il fastidio del fumo si vergognava di lamentarsene come se confessasse al microfono: “Sapete, sono monarchico”.
Si sono intanto diradati, quasi come i monarchici e inversamente agli smartphone, alcuni riti tipici del Secolo breve di Hobsbawm (che è invece lungo per i fumatori). Per esempio quello di “un’ultima sigaretta e poi andiamo” per misurare i minuti conclusivi di interminabili serate fra amici, discutendo alle due di notte sotto le stelle che erano un po’ di Kant e un po’ di Kerouac; un’ultima sigaretta che, come in Milano calibro 9, si sovrapponeva ai titoli di coda già dedicati ai film della vita a venire, che dovendo tutti cominciare parevano tantissimi. Oppure il rito antico di accendere una sigaretta e passarla al vicino, descritto da Giuseppe Marotta in un racconto dal bel titolo (“Legno, carne”): “Io accesi una sigaretta e la misi fra le labbra del barcaiuolo, da noi si usa, è sinceramente fraterno il nostro modo di essere estranei”. O il rito mai notturno ma mattutino delle sigarette con libri e giornali per un caffè davanti al mare, come piaceva all’irredento fumatore Camilleri e che lo schivo scrittore Nicola Pugliese faceva immaginare, quale proprio ultimo atto, all’alter ego Andreoli Carlo protagonista del romanzo Malacqua, nel suo giorno “definitivo e solare”. Con “un pacchetto di sigarette americane, la scatolina degli svedesi, si sarebbe sistemato a sedere in una confortevole sedia di vimini e sulla sedia di fronte avrebbe allungato le gambe a ricordare, sì, avrebbe ripercorso la breve stagione tenerissima, i fiori, e le poesie, odori di fanciulle, ed il lavoro amato, e la città che si stendeva avanti, le luci incostanti della notte, gli amici, il ricordo del padre… E com’è strano a riassumere davvero, ci si rende conto alla fine di avere per le mani un pugno di mosche e forse quelle neanche, e pure dolcissima è stata questa vita”.
Come Andreoli Carlo, giornalista – mestiere che per un fumatore costituisce aggravante sentimentale – è lo Scalfari Eugenio narrato in prima persona da Antonio Gnoli e Francesco Merlo. Nelle pagine conclusive di “Grand Hotel Scalfari”, confida: “Il fumo per me è ancora un vizio senza colpa, com’era prima che l’oncologia lo mettesse al bando. So che in quella mia mano incerta, con cui accendo e porto alla bocca la sigaretta, trema la mia voglia di vivere, e dunque fumo con la pienezza leggera di una coscienza felice, che è il contrario della coscienza di Zeno”.
Sì, nel Novecento – secolo lungo del fumo, cominciato prima e tuttora residuale – la nicotina intrise tanta scrittura e annuvolò le redazioni fin quasi a farsi oleografia banale del mestiere o a esasperarsi in personaggi che bordeggiarono gli estremi, compatibili, della letteratura e della perdizione. Marotta li avrebbe definiti “facce dispari”, oggi riscuote successo la dizione “irregolari”. I loro nomi sono troppi quanto gli aneddoti perduti e raccolti. Dall’anno zero del secolo scorso si può ripescare memoria di Ernesto Ragazzoni, assunto da Alfredo Frassati alla Stampa e ricordato dai colleghi come quello che “stava quasi sempre in piedi, fumando la pipa accanto alla finestra”. Dissipatore di cospicuo talento, l’avrebbe ucciso la cirrosi prima della nicotina, nel 1920. Scrisse fra i vari frammenti quattro versi che riassumono da soli un certo fisico piacere del giornalismo del passato:
“E’ finita. Il giornale è stampato,
la rotativa s’affretta,
me ne vado col bavero alzato,
dietro il fumo della sigaretta.”
La nicotina fu assieme all’inchiostro uno tra i cento odori delle tipografie. Lo è stata fino agli ultimi del Novecento, quando la sigaretta dei grafici si consumava sul bordo del tavolo luminoso mentre erano impegnati con righello e taglierino a montare gli articoli, ripetendo senza saperlo una notte dopo l’altra la scena clou di Milano calibro 9. Senza finale cruento, ma con la stessa fretta calma che attraversava il killer se si trattava di “chiudere” una pagina o di ribattere un’edizione, e i tempi per un motivo o l’altro s’erano fatti stretti.
Più che un fil rouge, è stato un fil di fumo (di pipa, sigaro o sigaretta) a collegare gli albori del giornalismo alle sue successive evoluzioni, e i più felpati rumori redazionali e il veto del tabacco coincidono – chissà se è un caso – col presumibile declino del mestiere. Quel fil di fumo si prolungava nel tempo e nello spazio, accomunando gli uffici di corrispondenza romani a piazza San Silvestro alle redazioni londinesi sullo Strand, raccontate da Henry James e rievocate da James Matthew Barrie in “My Lady Nicotine”, libretto appassionato di un fumatore affrancato dal vizio grazie all’aut aut della futura moglie Mary, tuttavia nostalgico dei propri smoking days, quando era accolto in un club che praticava l’arte degli anelli di fumo premiando il vincitore con una scatola di sigari alla fine dell’anno. Ars gratia artis tanto inutile quanto istruttiva, riconvertita negli anni seguenti nella specializzazione analoga di soffiar bolle di sapone, assurta a filosofia di vita oltreché a inno di un club calcistico. Il West Ham è tuttora inconcepibile senza I’m Forever Blowing Bubbles cantato dagli spalti. Ma questo accadde dopo, quando Barrie aveva divorziato dalla moglie Mary ed era divenuto celeberrimo con la creazione di Peter Pan. (Senza mai riprendere, però, la pipa).
La scelta delle sigarette, il tratto mobile nella breve biografia di chi, cambiando intenti o ragazza, cambiava anche marca di tabacco. La nicotina intrise tanta scrittura e annuvolò le redazioni fin quasi a farsi oleografia banale del mestiere di giornalista
A differenza sua, più o meno negli stessi anni, mancò clamorosamente la promessa amorosa Italo Svevo, assicurando alla futura moglie Livia che avrebbe abbandonato il vizio perché “se non riesco almeno a tanto allora cosa potrò fare per te nella vita?”. Era più sincero quando le confessava per lettera “l’indifferenza per tutto meno che per la sigaretta”, soprattutto se è sempre “l’ultima”, e il capitolo di “La coscienza di Zeno” intitolato al fumo ha conquistato un posto centrale nella letteratura dedicata all’argomento, piantando un dilemma irrisolvibile in mezzo alla pagina: “Che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta”.
Può davvero essere il fumo l’alibi di mancate riuscite? Può offrire la comodità di sentirsi grandi di “grandezza latente”? O piuttosto il contrario? Sorge, con le dovute scuse per l’impertinenza, una controdomanda: Leonardo Sciascia avrebbe scritto meglio o peggio se non avesse potuto fumare? Come si sarebbero sviluppate le inchieste giudiziarie di Falcone e Borsellino se avessero proibito loro le sigarette? Sergio Marchionne senza tutta la sua nicotina sarebbe stato ugualmente Marchionne?
E’ insomma lecito il sospetto che la tesi di Zeno possa essere rovesciata, e che alcune grandezze sarebbero rimaste “latenti” proprio perché senza sigarette. C’è un legame, di tanto in tanto richiamato dai cultori del fumo vintage, tra due personaggi altrimenti diversissimi: Enrico Berlinguer e Antonio de Curtis in arte Totò. Ed è la sigaretta Turmac, di cui furono entrambi accaniti consumatori e di cui chi scrive fece appena in tempo a saggiare la varietà in pacchetto rosso, quando già s’avviava a sparire dal commercio (indissociabili restano certe sigarette dalla memoria locativa, ci si rammenta il come e il quando con lo stolto rimpianto di un’irripetibile boccata). Sarebbero vissuti più a lungo, Berlinguer e Totò, senza le Turmac? Probabile, se non sicuro. Ma sarebbero stati gli stessi? Sarebbe stata più seducente, senza le sigarette che le arrochivano la voce, Claudia Cardinale? Sono domande che il lettore rivolgerà sempre a Zeno, ricordandogli che su un pacchetto di Turmac il principe della risata fermò di getto le parole della canzone Malafemmena.
Due pacchetti di egiziane al giorno, le antesignane delle Camel, bruciava il tenore Enrico Caruso. Sosteneva: “Se non posso fumare non posso cantare. Il fumo è l’unica cosa che mi calma i nervi”. Raggiunse il paradosso, racconta il figlio Enrico Jr., perché “ordinava ad uno dei suoi valletti di tenere regolarmente una sigaretta accesa dietro le quinte, e appena usciva di scena cominciava a fumare”. Una volta, durante un’Aida, intonò la frase finale del terzo atto, Sacerdote, io resto a te!, “splendidamente in un solo respiro mentre il fumo gli usciva dal naso e dalla bocca. Anche io l’ho visto emettere l’ultima boccata di fumo camminando sul palcoscenico”.
Oggi la direzione del teatro eleverebbe una multa persino a Caruso – le regole valgono per tutti oppure no? – ammesso che un’occhiuta squadra di vigili del fuoco non avesse bloccato prima il valletto col mozzicone dietro le quinte. Il trionfo dell’ordine e della salute ha purificato l’aria di teatri, cinema e redazioni. Né Andreoli Carlo né persino Scalfari potrebbero accendersi più la sigaretta senza la riprovazione generale corroborata da immancabile sanzione. Merita a questo punto la menzione un giornalista d’agenzia, Zeccardo Gianluca (sempre prima il cognome, come usava Pugliese nel suo romanzo ripetendo lo stile dei mattinali), il quale sfidando quasi il boia di Londra è riuscito di recente a fumare a più riprese con perizia particolare nelle toilette dell’aeroporto di Heathrow, dove il fumo è stato progressivamente bandito.
Risulta ora chimerica nel ricordo (ci si chiede cioè se sia davvero esistita) l’epoca in cui saliva al giornale il ragazzo del bar col vassoio dei caffè e le Marlboro di contrabbando, rappresentando in una volta sola numerosi reati: dal lavoro minorile in nero all’evasione fiscale al traffico di tabacchi lavorati esteri, proprio mentre i cronisti battevano sulla macchina per scrivere corsivi contro la camorra o il sequestro di un carico di “bionde”, di cui resta soltanto (è davvero esistita? Certo che sì) l’epica meroliana degli scafi blu. E chimerico come una città invisibile di Calvino è il panorama urbano, reperibile soltanto negli archivi fotografici, dei banchetti di sigarette che punteggiavano Napoli sovente custoditi dall’indolenza feroce di monumentali vaiasse o dalla sporadica avvenenza di bellezze taglienti alla Sophia Loren. Esistevano sì, e qualche loro frammento ispirato dalle cronache venne nobilitato nel cinema.
Col suo sdegnoso gesto il maestro Palumbo – sulla scena di uno stesso articolo certe distanze temporali risultano annullate – continua a uscire dalla sala professori del Conservatorio davanti all’ispettore sbigottito. “Sarebbe troppo ingenuo attribuire ad un banale incidente una così grave decisione professionale”, spiegava riferendo l’episodio delle dimissioni il musicista Vincenzo Vitale: “La verità è che Costantino Palumbo attraversò quella che oggi definiamo una ‘crisi esistenziale’, un rifiuto sempre più deciso di quanto circonda il nostro vivere”, aggiungeva. Che è poi la paludosa mescolanza di “amarezze, delusioni, difficoltà d’inserimento in ambienti che sentiamo mutati nell’ethos che ci aveva nutriti, coinvolti: forse intrappolati. La sigaretta, l’ispettore: ordinaria amministrazione pretestuosa”. Ecco perché Palumbo il fumatore continua tenacemente a fumare e a incedere con eleganza in un tempo che si ripete nella sua “ordinaria amministrazione pretestuosa” e da cui si sottrasse ritirandosi nella sua villa a Posillipo, dove poteva fumare senza ispettori e ricevere i giovani che cercavano un miglioramento sulla tastiera di un Erard a coda.
Sempre meglio, comunque, sarebbe smettere di fumare o se possibile non cominciare mai (tra l’altro J.M. Barrie, da scozzese genuino, alle varie ragioni accompagnava un dettagliato calcolo dei costi). Chi voglia invece continuare, facendone magari anche questione di principio contro un contesto vieppiù fastidioso, si assicuri di avere villa a Posillipo prima di incamminarsi sull’esempio di Palumbo.
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