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Restando a casa

Nadia Terranova

Effetti di una quarantena anti contagio, quando il mondo è diventato all’improvviso una prigione a cielo aperto (grazie social, grazie chat). E ci si sente rassicurati ad avere per una volta gli stessi pensieri di tutti. Una solitudine che non è mai stata così piena di paese reale

Gli orologi di casa mia si sono fermati tutti insieme. Mentre scrivo, in cucina sono le tre meno un quarto, in bagno le sette, in camera da letto le dieci meno cinque; ma il tempo non ha più importanza da quando è iniziata la quarantena. Già, quando è iniziata la quarantena? La mia amica residente a Milano parla di terza settimana; quella residente a Bologna conta i giorni al contrario per tornare al sud, a casa, lanciando uno sguardo ottimista su Pasqua; io direi che l’ora zero è la chiusura di tutti gli esercizi commerciali tranne “due discoteche e centosei farmacie” (se non avete riconosciuto la citazione non andrete da nessuna parte, con o senza un deca), ma in effetti non è che nei giorni prima fosse diverso, e nemmeno la settimana prima, e prima ancora non ci voglio pensare perché se mi ricordo che a gennaio potevamo e dovevamo già rinchiuderci tutti mi sento male e do le craniate al muro. Ed è comunque questo che facciamo: dar craniate al muro. Dai nostri oblò, ovvero social e chat, sbirciamo angoli di case che non sono la nostra dove persone che non siamo noi tirano su un libro, lo mostrano alla videocamera e dicono che bisogna leggere proprio quello, quello e nessun altro, perché ci aiuterà a passar meglio questi giorni.

  

Dai nostri oblò sbirciamo angoli di case che non sono la nostra dove qualcuno mostra un libro e dice che si deve leggere proprio quello

Confesso: lo faccio anch’io, non parlo male d’altri che non siano me stessa. Eppure lo so, lo sappiamo, che se esiste una persona al mondo capace di godersi questo Ucciardone a cielo aperto che il nostro mondo è diventato all’improvviso, quella persona rara come un unicorno sicuramente è off line. Possiamo sognare la sua casa perfetta: non ha mattonelle anni Ottanta né imbarazzanti strofinacci alle pareti, non ha sedie macchiate di sugo né olive vecchie di una settimana all’ora dell’aperitivo, non ha pile di libri scomposti, al massimo la collezione dei Gettoni di Vittorini, non possiede oggetti inutili come quelli che accumuliamo noi pensando che domani poi li buttiamo, intanto potrebbero servirci quel frullatore a immersione o quella macchina per fare la centrifuga larga quanto uno scaldabagno, quella che per lavarla, dopo aver goduto di appena mezzo bicchiere, servono tre quarti d’ora e nel frattempo lo zenzero ti è andato di traverso. Insomma, la casa della persona perfetta dev’essere quella della persona off line. Certo non è casa mia.

   

Il primo giorno (che non avendo orologi funzionanti non so di preciso quale sia) mi sono addormentata vestita, truccata e un po’ ubriaca, con addosso le lenti a contatto e le scarpe, e ho sognato che il presidente del Consiglio mi tartassava di domande per essere sicuro che avessi letto tutto il decreto. Mi capita spesso di essere scambiata per Giuseppe Conte, di questi tempi: mia zia mi chiede se il figlio può andare in macchina sui colli, mia madre se mia cugina può mangiare la pizza con un’amica sul divano e se sì a quanti metri di distanza, e una volta quantificati i metri se servono due cuscini o ci possiamo fidare, una signora per strada mi ha domandato se erano aperte le banche e se le facevo una fideiussione. Io, giuro, rispondo a tutti con tono rassicurante e, se non so le risposte, me le invento per non scontentare nessuno: un piccolo sforzo e possono immaginarmi in giacca e cravatta, mentre dispenso la soluzione più paterna, la più confortevole, con lo sguardo che sussurra: coraggio, siamo una grande famiglia. Quindi, per una volta che non ero io il presidente, ero curiosa di sapere cosa mi avrebbe detto, allora lui nel sogno mi ha guardata e mi ha chiesto: si possono portare i cani a fare i bisogni, questa è facile e la sai, ma per quanti minuti?

  

    

Al secondo giorno di quarantena mi era chiaro che sarei impazzita, come tutti, però per fortuna continuo a dormire

Forse è perché non ho cani che non sono stata pronta con la risposta; non so neppure se si può fare un bagno a mare e vorrei essere in una casa sulla spiaggia, adesso, per poter pormi il problema. Invece mi sono risvegliata a casa mia, nella prima periferia romana, e pochi minuti dopo ero già seduta per terra davanti alla lavatrice a fissare cupamente il carico dei colorati. Al secondo giorno di quarantena mi era chiaro che sarei impazzita, come tutti, però per fortuna continuo a dormire, e vorrei dirlo piano, molto piano, per non far svegliare l’insonnia cronica, ma: mentre il rumore dell’allarme del mondo è altissimo, io non ho mai dormito tanto e meglio (fatta eccezione per quando il presidente si è infilato in un mio sogno per controllare che, nel mio ruolo di dispensatrice di regole, le avessi prima capite). E’ strano guardarla con aria riposata, la casa che in tutto questo tempo non avevo mai visto; ci vivo da più di dieci anni e non ho mai fatto lavori di ristrutturazione, cambiamenti sostanziali, certe settimane la attraverso come una saetta, qui dentro tutto si agglomera e si accumula e si ammucchia e si perde, si perdono i libri e si moltiplicano in doppie copie, si è persa la collanina che mi hanno regalato le mie nonne quando mi hanno battezzata, il tè tedesco alle erbe dai nomi pieni di dieresi, le batterie di ricambio con cui potrei far ripartire gli orologi, gli acquerelli che potrebbero servirmi ora che posso disegnare di nascosto a tutti. Non si trova nulla, e io dovrò stare murata qui più o meno per sempre. Né ho intenzione di lamentarmi: casa è una parola scontata solo per chi ne ha una.

    


Casa è la casa e tutto attorno. E oggi ci manca metà della frase di Emily Dickinson. L’attorno dipinto di rossetto rosso fuoco nell’ora di libertà: la spesa al supermercato. Ma siamo dalla parte giusta della storia


  

Casa è una parola neutra per chi non subisce violenze domestiche, e quando leggo i giustizieri del web indignati perché cosa farà mai tutta quella gente in strada, oltre a chiedermi cosa ci fanno loro, in strada, a controllare come bulletti, vorrei che contassero fino a cento prima di tuonare, il tuono più veloce del web. No, contare non serve. Basta un superpotere per entrare dentro i gangli delle persiane e vedere da cosa stanno scappando tutti, affamati nell’aggrapparsi a quell’ora di libertà; anzi no, basterebbe il superpotere di guardare con onestà dentro le nostre vite e le nostre case e sentire l’angoscia salire: tra le tue quattro mura sei davvero nel posto dove vorresti e dovresti essere? Con accanto la persona, le persone che vorresti e dovresti avere? Senza la persona, le persone che vorresti? Fin qui, nulla di diverso da quando ti chiudi in bagno alla cena di Natale, solo che il Natale poi passa, la quarantena no, e investe l’esistenza intera, peggio dello psicoanalista.

 

Lasciate stare i film sulle pandemie. Adesso ho voglia di romanzi che raccontano la vita che fino a ieri ci stava stretta, ci sembrava noiosa e banale, quella da cui volevamo tanto evadere. La vita in cui uscivamo, litigavamo, ci spintonavamo. Ho bisogno di tutto fuorché di un romanzo apocalittico

Il ciclone-virus è arrivato nel punto esatto della vita in cui era non dico opportuno, ma almeno non troppo inopportuno che arrivasse? Se sì, sei stato fortunato: magari due anni fa stavi divorziando, stavi traslocando, eri appena rimasto disoccupato, stavi cambiando lavoro e ancora non avevi iniziato il nuovo. Magari non avresti voluto che la pandemia ti congelasse proprio in quel momento, e ti saresti ritrovato rinchiuso in una casa che non percepivi come tua, stare murato lì dentro sarebbe stato nel migliore dei casi una beffa e nel peggiore una galera. Se invece sei quella persona felice e off line, insomma quella persona più rara degli unicorni, c’è comunque poco da stare allegri, l’essere umano non è fatto per stare tutta la vita in un posto soltanto con certe persone soltanto; e siccome al momento l’Ucciardone-virus è fine pena mai, tutte le domande che assediano le nostre scelte rivelano la tragicità di una congenita instabilità umana.

  

Allora, che fare? Meglio mettersi un rossetto rosso fuoco per andare a fare la spesa, buttare la spazzatura e fare un salto in farmacia (raccomandano di ottimizzare i tempi, tutto in una unica uscita, ma i più diabolici di noi non sono quelli che si riempiono le sporte, sono quelli che lasciano apposta i fagioli sullo scaffale, così torneranno anche domani). Non sapendo quando potrò andare la prossima volta dalla parrucchiera, tengo duro non toccando l’ultima messa in piega del mondo finora conosciuto. Quando comincerò a puzzare forse mi farò uno shampoo secco, non ho mai capito cosa sia ma, se le profumerie sono rimaste aperte in quanto forniscono generi di prima necessità, sarà il momento giusto per scoprirne i segreti. Lasciate stare i film sulle pandemie dove tutti sono pettinati alla perfezione e ripassate Batman di Tim Burton, quando a Gotham City si scopre che girano cosmetici letali, ma non si sa quali siano. Kim Basinger, a non andare dal parrucchiere e non mettersi creme, si riduce maluccio, ed è Kim Basinger: chissà cosa ne sarà di noi mortali (spoiler: alla fine non era un singolo cosmetico, ma una certa combinazione: passiamo la quarantena a chiederci se c’è un messaggio in tutto questo).

 

Casa è la pancia del pescecane (poi diventato una balena) dove Geppetto ritrova Pinocchio, ma forse casa è quell’abbraccio: e ora noi non abbiamo né un pescecane, né una balena, né un abbraccio, ci dobbiamo abbracciare
da soli uno di fronte all’altro

Tra tutte le domande angoscianti sull’esser soddisfatti o meno della propria esistenza, sento di poter dare una risposta autoelogiativa circa il posto in cui ho scelto di vivere: il mio umanissimo quartiere di Roma Est, con i suoi ferrovieri in pensione e i suoi adulti gentrificatori, si è attivato prima degli altri per fare la spesa gratis a chi non può e nelle strade, giustamente deserte, ci si saluta con sguardi che sono un po’ famiglia. Quando ho scelto dove mettere il cuore e la casa, il posto l’ho scelto bene; se poi in queste ronde surreali in cui i vigilanti urlano al megafono il nuovo “è arrivato l’arrotino”, ovvero “tenetevi a distanza”, se in queste ronde ci facessero il piacere di vigilare, oltre che sulla nostra prossemica, sulla possibilità che approfittando di queste ore di grande nulla il quartiere non torni la piazza dello spaccio che è stata in un passato recente, allora queste ronde starebbero facendo meglio il loro dovere. Non sta sbroccando l’anziana che è in me, ma la potenziale tossica che è in tutti noi: tra social impazziti e messaggi solenni alla nazione, tra poco saremo tutti a rischio droghe pesanti, anche chi non ha mai fumato una canna in vita sua.

 

Quando torno su, a casa, non mi tolgo certo il rossetto, mi godo l’ebbrezza di lavorare sulla mia poltrona viola truccata bene e accovacciata male; casomai mi dovessero chiedere un altro videoconsiglio di lettura sono perfetta fino all’ombelico, come si conviene nell’era del mezzobusto pandemico. Elizabeth Strout? Vitaliano Brancati? Artemidoro? Proust? Ian McEwan? Cosa posso suggerire oggi? Letteratura del contagio, basta: pietà. Andava bene i primi giorni, quando sorridevamo in faccia a chi diceva “finiremo come la Cina” e snocciolavamo tutte le volte che non eravamo morti, la Sars, l’aviaria, la suina, quando qualcuno organizzava l’apericena contro la paura, anzi no contro il panico, anzi no contro l’allarmismo. Magari il virus servirà a questo, chiamiamolo dizionario-virus: avete notato che quelle tre parole vengono usate come sinonimi? E’ il risultato di anni ossessivi di slogan “contro la paura”; ma la paura è sana, se non hai paura muori a tre anni e mezzo toccando il fuoco o cadendo nell’acqua ghiacciata – almeno ci ricorderemo, in futuro, di aggiungere “immotivata”, se proprio non possiamo fare a meno di parlare a casaccio. Niente romanzi ambientati in epidemie indefinite, si diceva, sperando che a nessuno venga più in mente di dire che I promessi sposi è un testo superato: voglio vedere se qualcuno ha ancora il coraggio di dire che invece dovremmo leggere Don DeLillo.

   

  

Adesso però io ho voglia di romanzi che raccontano la vita che fino a ieri ci stava stretta, ci sembrava noiosa e banale, quella da cui volevamo tanto evadere. La vita in cui uscivamo, litigavamo, ci spintonavamo, quella in cui il citofono suonava da un momento all’altro e non era per forza un pacco che avevamo comprato due giorni fa. Insomma, ho bisogno di tutto fuorché di un romanzo apocalittico, per lo stesso principio per cui, quando la piattezza mi opprime, ho bisogno di fare il giro del mondo in ottanta giorni o di andare dalla terra alla luna; allora oggi so che il giorno in cui avrò voglia di riprendere in mano Il racconto dell’ancella, vorrà dire che sarà davvero finito tutto. Festeggerò la fine della quarantena sventolando Atwood sulla nave che traverserà lo Stretto riportandomi come dopo un lungo sogno in quell’altra casa, quella di Messina: per una che si sente a casa nell’andirivieni fra l’isola e la terraferma, vivere senza una delle due è respirare con un polmone solo. Si può fare, anche se non viene tanto bene; ci si abitua a tutto, taccio e non mi lagno, ché ci manca solo questo. Però me lo chiedo un po’ più forte, cos’è che le persone chiamano casa? Quando è arrivata la pandemia stavo leggendo un libro di Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori: la casa della protagonista è un cimitero, lei ne è la custode. Casa è la pancia del pescecane (poi diventato una balena) dove Geppetto ritrova Pinocchio, ma forse casa è quell’abbraccio: e ora noi non abbiamo né un pescecane, né una balena, né un abbraccio, ci dobbiamo abbracciare da soli uno di fronte all’altro, come ci ha spiegato Altan in certe deliziose regolette illustrate della Pimpa. Casa è quella dove Pollicino vuole tornare, anche se i genitori lo odiano e hanno deciso che si vive meglio senza di lui, ma è perché sono poveri e disperati, mica perché sono cattivi, e se casa è dove ossessivamente vogliamo bene a qualcuno, contro ogni ragione e contro ogni evidenza, adesso casa è dove c’è quel qualcuno che non ci vuole, che sia nel nostro letto o in un’altra città.

   

  

Casa è Itaca, dove Ulisse aveva lasciato il letto scavato nell’ulivo, così che nessuno potesse spostarlo, solo che a leggere adesso di tutti quei proci, viene più che altro da pensare alla povera Penelope che non ha neanche uno straccio di decreto contro gli assembramenti da brandire sul grugno di quegli screanzati.

  

In dodici ore e in pochi metri quadri, per decreto del governo, dobbiamo essere con la stessa persona comprensivi, generosi, simpatici intrattenitori e infine bombe sexy per la notte, ché già è complicato quando si può uscire e ci si vede per un terzo del tempo, figuriamoci adesso

“Dicono che casa è dov’è il cuore. Io penso che sia dov’è casa, e tutto attorno”, scrive Emily Dickinson, e oggi che ci manca metà di quella frase, la testa si concentra solo su una parola, l’attorno che dipingiamo furiosamente di rossetto rosso fuoco nella nostra ora di libertà. E poi tornare a tenere il cuore nel salotto mentre i figli nostri o degli altri giocano o studiano e ci fanno ammattire, dove il nostro compagno fa il suo “lavoro agile” in ciabatte e noi il nostro in vestaglia e con il cerchietto e ci chiediamo com’è possibile che in dodici ore e in pochi metri quadri, per decreto del governo, dobbiamo essere con la stessa persona comprensivi, generosi, simpatici intrattenitori e infine bombe sexy per la notte, ché già è complicato quando si può uscire e ci si vede per un terzo del tempo, figuriamoci adesso. A proposito: mentre discutiamo se in questo mese i giornali debbano aprirsi a tutti gratis, ridurre gli abbonamenti oppure alzarli per far tornare l’autorevolezza dell’informazione, Pornhub ha deciso di offrire agli italiani un accesso premium gratuito per il periodo della quarantena, scavalcando tutti sulle priorità. A breve molleremo i libri e faremo video suggerendoci i gadget migliori per far passare il periodaccio, così quando arriverà il libera-tutti, essendoci caduta definitivamente la faccia, l’autosegregazione sarà diventata finalmente spontanea.

  


I figli nostri o degli altri che giocano o studiano e ci fanno ammattire. Il compagno che fa il suo “lavoro agile”in ciabatte. Asserragliati dentro le nostre case, non siamo mai stati più esposti di così, mai più visibili di così. Il buco della serratura è il nuovo megaschermo, nei giorni dei cinema chiusi


    

Intanto, i modi in cui possiamo sputtanarci si moltiplicano: non vediamo l’ora di far sapere al mondo che non siamo mai riusciti a buttare l’abatjour rosa della prozia, che sul bracciolo c’è un dito di polvere, che collezioniamo fischietti a forma di musicanti di Brema e sussidiari di elettrotecnica degli anni Novanta, che abbiamo tazze ridicole (io, io: una collezione, potete scegliere tra Karl Marx, Jane Austen e lo Stretto di Messina). Crediamo di parlare al popolo per consigliargli di leggere Camus, e intanto il popolo si concentra sui dettagli dei nostri angoli, delle nostre vite; possiamo aver scritto i memoir più scottanti di tutti i tempi, possiamo aver rivelato un segreto pazzesco alla persona più pettegola del mondo, ma è ora che siamo in piazza. Siamo asserragliati dentro le nostre case e non siamo mai stati più esposti di così, mai più visibili di così, il buco della serratura è il nuovo megaschermo, nei giorni dei cinema chiusi. All’improvviso, mentre ci guardiamo intorno studiando sospettosi questi spazi sconosciuti che dovrebbero essere casa nostra, succedono cose nuove. Per esempio, tornano di gran moda gli elettrodomestici, non solo i fornelli dove dopo secoli ricominciamo a friggere melanzane o il congelatore in cui, mentre stigmatizziamo quelli che fanno le code ai supermercati, per sicurezza abbiamo infilato due fettine in più di manzo magro (quanto al frigorifero, il mio ha scelto il momento peggiore per impazzire e adesso devo tirare fuori l’insalata con due ore di anticipo perché ghiaccia tutto come un iglù). Mi riferivo proprio agli elettrodomestici di una volta: il televisore per il telegiornale, lo stereo e le casse per la musica, la stampante per l’autocertificazione, il telefono fisso. Abbiamo tutti parenti e amici che dell’espressione smart working capiscono solo “smart” e ti chiamano a tutte le ore perché si sentono soli e vogliono chiacchierare, qualcuno si è fatto furbo e la terza volta in cui non rispondevi ha chiamato a casa. Un giorno, ricorderemo questo periodo anche con una serie di variazioni sull’aneddoto: dopo anni ho sentito un suono che non ho riconosciuto, ho capito con stupore che era il telefono di quell’altro secolo che per pigrizia non avevo mai disattivato, e con altrettanto stupore ho appreso che non si trattava di un call center albanese che mi proponeva un cambio di compagnia, ma di mia madre che voleva accertarsi che non fossi morta e il mio cadavere divorato dagli alsaziani (se non riconoscete la citazione avete un libro da leggere, senza bisogno di videoconsigli).

  

Dentro questa casa che non conosciamo fino in fondo, ci suggeriscono di diventare persone migliori, usando la reclusione per elevare le nostre anime. Premesso che, a ogni invito a rallentare e cogliere la bellezza di un tempo rarefatto, in ogni persona normale aumenta soprattutto la voglia di usare la mascherina come un passamontagna e correre in strada a urlare senza autocertificazione, il giorno prima che cominciasse la quarantena, qualsiasi giorno fosse, sono andata in un negozio di belle arti e ho comprato un album e un pacco di matite. Ho disinfettato, più dagli acari che dal virus, la mia chitarra, appoggiata in un angolo sotto la finestra. Ho preso un libro per imparare il griko, la lingua che si parla nella Grecìa salentina. Mi sono abbonata a una app per gli audiolibri, a una per imparare le lingue e a una per le serie tv, tutto nel giro di cinque minuti, passando con velocità schizofrenica da un millennio all’altro, dall’aver spolverato un lettore per compact disc all’aver pagato per la prima volta un abbonamento che tutti i miei coetanei hanno da anni. Se lavo i piatti, che già di per sé è un’operazione che trovo estrema, e non mi ricordo di accendere anche Radio Radicale per occuparmi di cosa sta succedendo nelle carceri (un altro posto che qualcuno è costretto a chiamare casa, dovremmo ricordare), mi sento in colpa più di prima. Se alla fine di questa quarantena non avrò imparato il persiano, mi sentirò talmente inutile che dovrò fare un corso di autostima (se fanno videolezioni mi porto avanti con il lavoro).

  

Giù per strada, la felicità di incontrarsi per sbaglio si misura con l’altezza dell’arcata sopracciliare che aumenta a dismisura sopra le mascherine, le mani si agitano da lontano molto più del dovuto e tutto il mondo impara a gesticolare. Nessuno cammina più con gli occhi allo schermo, l’ora d’aria è troppo preziosa

Se però devo dare un senso alla parola “utile”, dato che non so cosa riuscirò a combinare, se faccio la fantasia di guardare a questa quarantena senza pensare alla ragione, cioè non come un provvedimento necessario ma come l’emanazione di ragioni irragionevoli, l’esercizio della progressiva perdita di libertà è fra le più alte sfide di empatia che possano capitarmi. Un mio amico dice che è il momento di rileggere Foucault; io penso a Mattino bruno di Franck Pavloff, un racconto sulle conversazioni di due amici che ogni giorno commentano scelte sempre più lesive, sono tornata a leggerlo per dare spazio a quella voce “quindi è così che si vive nelle dittature” che non riuscivo a zittire. Ho fatto l’unica cosa che so fare con i pensieri sgradevoli: li ho messi dentro un libro, mentre i concetti di delinquenza, ribellione e furfanteria prendevano nuove forme. Nessuno, un mese fa, sarebbe riuscito a restare serio sentendo che baciarsi con la lingua per strada sarebbe stato proibito dalla legge, che si sarebbe sentito un filibustiere tornando dalla farmacia, rapito col pensiero da un androne dentro cui proiettava sogni di baveri alzati e colluttazioni promiscue. Nessuno avrebbe immaginato la nuova galanteria: i vicini di casa che fanno una torta e te la lasciano davanti alla porta, mandandoti un bacio dallo spioncino, il corriere che mette tutto in ascensore e non sale fino al sesto piano. Il terrazzo condominiale, dove all’improvviso va chi si ricorda di poterci stendere il bucato o di dover fumare assolutamente la pipa, perché la quarantena è bella ma non ci vivrei, signora mia. Infatti, giù per strada, la felicità di incontrarsi per sbaglio si misura con l’altezza dell’arcata sopracciliare che aumenta a dismisura sopra le mascherine, le mani si agitano da lontano molto più del dovuto e tutto il mondo impara a gesticolare (la rivincita dei terroni, vorrei dire, se non fosse che la persona che conosco che gesticola di più è veneta: i luoghi comuni hanno questo difetto di pensare di comandare su una realtà che non vuole saperne di obbedire). Nessuno cammina più con gli occhi allo schermo, l’ora d’aria è troppo preziosa, e quando torno su con la spesa so che, nel silenzio che avvolge la città, con il mio metro di distanza da chiunque e le entrate contingentate negli esercizi commerciali, ho avuto la mia porzione quotidiana di solitudine e pace.

  

  

La casa, al contrario, è affollatissima. Con molta meno disinvoltura riesco a mettere il telefono in modalità aereo, l’unica che permette a chiunque di concludere qualcosa, spaventata dal fatto che non essere reperibile, in questi giorni, possa suscitare lo spavento di qualcuno (è l’attesa di ansie essa stessa un’ansia?). Quindi, a telefono aperto, il mondo mi entra nella stanza: mia zia deve raccontarmi della ricetta con cui ha deliziato la famiglia, il marito di mia madre la immortala mentre legge il libro di Burioni, mio cugino anestesista manda messaggi dal fronte, la mia amica mette foto del cane su Facebook, il portiere mi manda le catene dei complottisti, il mio amico l’audio di quello che rifà Boccadirosa con coronavirus, e la mia solitudine non è mai stata così piena di paese reale. Va bene pure questo, sentirsi tutti uguali per un po’, ché il ribellismo di quelli che “svegliaaa!!! è solo un’influenza!!!” ha già fatto i suoi danni, mi sento più rassicurata a stare nelle nostre case sbagliate ad avere per una volta gli stessi pensieri di tutti.

 

A invidiare chi possiede un terrazzo, mentre da me c’è solo un balcone che negli anni ho trasformato in una specie di ripostiglio, non avendo in casa metri quadri a sufficienza per averne uno: mentre lo fissavo, colmo di giornali da selezionare, di buste che contengono chissà cosa e perfino di una cassapanca con pezzi di corredo, mi chiedevo cosa ho fatto di male per essere murata viva e non avere nemmeno lo spazio per fumare una sigaretta, anche se non fumo. Potrebbe venirmi voglia di cominciare: se già al terzo giorno di quarantena scriviamo lunghissimi lamenti, nessuno sa cosa potrebbe accadere al trentesimo. Allora ho avuto un’idea, e sul bloc notes che avrebbe dovuto servirmi per le mie ambizioni frustrate, anziché giocare alla piccola Caravaggio ho diviso la mia minuscola casa in zone, per esempio A è la cucina, a sua volta divisa in 4 blocchi. Ieri ho pulito tutta A1, e alla fine avevo una dispensa decente, ma prima ho dovuto lottare con delle acciughe scadute in un’epoca lontana in cui non avevo bisogno dell’antirughe. Alla fine avevo tre sacchi di spazzatura da buttare, mentre la radio passava le notizie degli stati che, a poco a poco, cominciano a seguire il modello italiano, ovvero: “Adesso vanno in giro a fare gli eroi, poi torneranno a casa un po’ come noi”, per riprendere la citazione iniziale. E poiché tutto, in queste domeniche della marmotta, è brullo, cosmico e ciclico, mi passo di nuovo il rossetto rosso fuoco, prendo la mia monnezza e attraverso il quartiere a passo svelto, con l’aria spaventata, arrogante e megalomane di chi non è abituato a sentirsi dalla parte giusta della storia.

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