Guardando il mondo dagli oblò delle instagram stories
Tutti chiusi in case aperte agli altri. In cerca del calore dello stesso disordine
Se avessimo potuto scegliere tra la vita e la morte, avremmo scelto Instagram. Valeva fino a ieri, nel mondo che il direttore di questo giornale ha chiamato ACV, Ante Corona Virus, e varrà ancora, ma con un significativo cambio di registro, di tono, di tutto. Continueremo a guardare il mondo dagli oblò delle Instagram Stories, soltanto che anziché essere teletrasportati in vacanze da sogno, salotti stratosferici, vertiginosi appartamenti di CityLife, da volti e corpi filtrati, editati, sgrassati, ringiovaniti, verremo trascinati nei tinelli di tutti, popstar e dirimpettaie, giornalisti della Cnn e cugini acquisiti, che abiteranno (già abitano) in case molto simili, mediamente tetre, sciatte, spoglie, e si offriranno per noi senza trucco, senza camicia, senza quella adrenalinica verve che prima ci davano la finzione, l’epica, il desiderio di conquistare seguaci per poi influenzarli.
A vedere lo stato in cui versano la maggior parte degli artisti che ci coccolano con persecutorie dirette Instagram, o dei collegati ai talk-show televisivi, le differenze tra noi e loro, tra i nostri aperiskype con le amiche del liceo e i loro live dal divano, sono quasi nulle. Le felpe di Emma Marrone le abbiamo viste tutte, e anche i suoi adorabili brufoletti. E voi direte: che novità, è ormai da un pezzo che ci viene propinato il vero più vero per favorire il body positive e ridimensionare l’ansia da prestazione degli adolescenti, e disintossicarci dai vecchi modelli, e dire che abbiamo tutti diritto a essere accettati così come siamo. Ma mentre il body positive aveva degli obiettivi, costruiva una nuova estetica, e aveva una sua epica, tutto questo riversarsi dell’umanità in mondovisione è un modo per passare il tempo, per trovare conforto. Siamo tutti in quarantena, e quindi divisi, lontani, e ci mancano gli odori degli altri, i rumori, il fastidio, le molestie, e quello che di loro mai e poi mai avremmo voluto vedere per pudore, adesso invece ci sembra un bene prezioso per capirli, per sentirci parte delle loro vite, adesso che le vite si assomigliano tutte, si svolgono tutte entro quattro mura, e non c’è stipendio, agio, culo che possa far la differenza.
Non ci piace fantasticare ma partecipare. Non vogliamo evadere, ma stare. Ridiamo di quanto ingrasseremo, ne andiamo fieri, lo scriviamo su Twitter e lo dimostriamo su Instagram – vedasi il profilo “Obese in un mese”, i cui tenutari raccontano come un italiano vive la quarantena e cioè oscillando tra il mangiare e il discutere di cosa mangiare. Prima era abbrutimento, adesso è mondanità. La vita domestica è il solo oggetto sul quale possiamo costruire narrazioni e così, visto quanto è faticoso renderla affascinante, ci sforziamo di innamorarcene, ci diciamo che in casa si può far tutto, e la stanza non ha più pareti ma connessioni, connessioni infinite. Entriamo nelle case di tutti, dei capi, dei nonni, dei premi Oscar, e di tutti vediamo tutto.
Fino a qualche mese fa su Amazon si compravano pareti finte da montare in casa durante le Instagram Stories, di modo da sembrare più cool, e adesso il 50 per cento di noi ha visto le mutande del proprio capo stese nello stendino alle sue spalle durante una call. Nessuno si premura di riassettare il salotto prima di collegarsi in riunione con i propri colleghi, è una forma di confidenza con la quale cerchiamo di riappropriarci di quel calore che ci è stato portato via dai decreti che proibiscono abbracci e assembramenti. I musicisti si impegnano a intrattenerci, ed è molto carino da parte loro, ma quello che davvero cerchiamo, su Instagram, sono gli specchi riflessi delle nostre vite. Kaitlyn Tiffany dell’Atlantic ha scritto che niente la appassiona come i clippini delle sue amiche che si spremono i brufoli, e noi che siamo quarantenati da giorni la capiamo bene. Noi non chiediamo agli oblò niente di più che annoiarci un po’.
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