Appunti per il dopo (virus)
Non voglio un mondo nuovo, rivoglio indietro quello vecchio. Ferito desolato convalescente, da piangere e da festeggiare. L’allegria vacillante e l’istante che fiammeggia. La tracotanza della libertà
Perché ci sarà, un dopo. Un giorno in cui usciremo di casa e diremo: è finita, ricominciamo. Abbracceremo chi ha perso qualcuno, come prima cosa. Per ora non possiamo, tenere la mano a chi soffre appartiene ai comportamenti proibiti; e consolarsi al telefono, o anche ridere al telefono, amarsi al telefono per tanti, è tutto. Ma ci sarà questo giorno, che tutti stiamo aspettando, su cui ci interroghiamo, di cui abbiamo desiderio paura e diffidenza, un giorno che non sappiamo ancora esattamente collocare nel tempo (l’estate? La fine di maggio? La fine della scuola? Se siete pessimisti, con il pensiero potrete anche arrivare a settembre), in cui un amico ti darà appuntamento in un bar. E il bar sarà aperto, e non sarà vuoto. E tu uscirai di casa per andare in questo bar, e nel tragitto fino al bar incontrerai altre persone e le saluterai con due baci sulle guance, proprio come in quell’altro mondo, e non ti cospargerai immediatamente di disinfettante però un po’ ci penserai, e per imbarazzo farai una battuta scema, e poi arriverai nel bar e ci sarà il tuo amico che ti verrà incontro e ti sembrerà allegro ma impaurito, e allora lì, davanti a quel bar, sentirai la forza e anche il pericolo di tutta questa umanità che di nuovo ha scelto di vivere, e di vivere come prima. Nei miei appunti per il dopo penso intensamente al prima, e lo desidero. La metropolitana, le trattorie, i viaggi in treno, il desiderio di solitudine, i giornali di carta toccati da tutti, le dita sporche di inchiostro, stare in redazione nella stanza da quattro portandoci il caffè, parlarci da vicino, baciare anche quelli che non mi va di baciare, gli amici dei miei figli dentro casa a incasinare tutto e a starnutire, andare al cinema, andare a cena in tanti, andare dove voglio. Voglio ricominciare a pensare con più forza alla libertà che alla sicurezza.
Nei miei appunti per il dopo penso intensamente al prima, e lo desidero. La metropolitana, le trattorie, i viaggi in treno, i giornali di carta
Ho capito almeno una cosa, in queste settimane sempre più angosciose, sempre più speranzose: non aspiro a un canto nuovo, a una società nuova, a una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d’acqua in una giornata afosa. Ma non aspiro nemmeno a una vita sterilizzata, modernissima, invincibile e digitale. Non ho cambiato le mie priorità, non ho scoperto la mia vera me stessa (per fortuna, forse, la conoscevo già). Non voglio un mondo nuovo, voglio ostinatamente indietro il mio mondo vecchio.
Questo mondo ferito, attonito, desolato, convalescente, in miseria, prosciugato, da curare, da consolare, da piangere, da festeggiare. Questo mondo che, spero, non cambierà: ma è cambiato il modo in cui lo guardo, è cambiata la prospettiva delle cose, per migliaia di noi, devastati nelle perdite, è cambiato il senso stesso della vita; e per chi non è più un bambino, per chi non ha la potenza di attraversare un’emergenza mondiale come una grande avventura, io credo, ma parlo di me, che una certa leggerezza di cuore sarà, d’ora in poi, impossibile per sempre. La gioia sarà ancora possibile, la leggerezza del cuore no. Questa limitazione della libertà, unita alla preoccupazione, unita alle tragicità delle notizie e alla condivisione di questa condizione con tutti gli altri abitanti dell’Italia, evoca, in modalità diverse, altre fasi dell’esistenza dell’uomo nella Storia che io non ho mai vissuto (non distopie del futuro: persecuzioni e guerre e sciagure non troppo lontane), ma a cui è necessario ripensare, con l’esercito per strada a controllare chi esce, con l’esercito a trasportare le bare dei morti in altre città, e con la paura che romba nel nostro corpo, nel nostro sangue. Non è paura per noi, che ce la caveremo, è paura di questo sentimento che tiene insieme apprensione, nostalgia, esilio e responsabilità verso gli altri, è, appunto, la paura che non sarà più come prima: che il tempo migliore della nostra vita sia fuggito via per sempre. Se una cassiera di supermercato, quarantotto anni, ha continuato a lavorare, per dovere, per necessità, fino a quando le è venuta la febbre, e poi le sue condizioni sono velocemente peggiorate, e questa febbre alta e questo respiro corto l’hanno uccisa di notte a casa sua, a Brescia, e così moltiplicato per migliaia di persone, vecchi e giovani, non è accettabile il pensiero che tutto questo costruirà un mondo migliore. I sogni spezzati, le esistenze interrotte, i funerali non fatti, questo dolore solitario sono il peso muto che ognuno porterà sulle spalle, una volta usciti da qui. La prova della nostra fragilità: ma poiché da tutto si può imparare qualcosa, anche dai momenti bui come questo, e poiché la mente umana è sempre nella condizione di imparare, allora io vorrei imparare a stare qui dentro questa stanza, dentro questa casa, davanti a questo schermo, in un modo un po’ più utile. In nessun caso rimpiangerò le uscite con il cane nell’aria incredibilmente profumata della città deserta, in nessun caso penserò che mi manca il canto degli uccellini la mattina presto, quando sarà di nuovo sovrastato dal rumore delle auto: andrò incontro allo smog e alle furie dei tassisti come ai miei cari, vecchi amici che non vedo da troppo tempo, e proverò ad abbracciarli. Saluterò con affetto ogni manifestazione con trombe e striscioni sotto le mie finestre, e sarà bello anche non riuscire a spostare il motorino perché è chiuso da quattro automobili in doppia fila e io sono in ritardo per una riunione con quindici persone ammassate in una stanza (mai prima d’ora avrei pensato che quindici persone sono un ammasso di persone). Ma adesso vorrei scoprire che dentro questa paura, dentro questa mano intorno alla gola, dentro questo peso sul cuore che ogni mattina e ogni sera si fa sentire, c’è una dimensione più profonda, anche dei rapporti umani in questa necessaria distanza.
Ed ecco allora che cosa sarà, di nuovo, una festa, quando ci riprenderemo il nostro mondo, impauriti ma speranzosi
Ma vorrei, quando si potrà, andare a una festa, e vorrei farlo nel modo in cui ci andavo prima. Ho cercato le pagine che Simone de Beauvoir ne “L’età forte” su che cos’è una festa, mi ricordavo soltanto “apoteosi del presente”, e in fondo bastava. L’apoteosi del presente in questo momento non è possibile, non è ammissibile, ma aspettare il futuro in fondo non significa altro che desiderare l’apoteosi del presente. Ed ecco allora che cosa sarà, di nuovo, una festa, quando ci riprenderemo il nostro mondo, impauriti ma speranzosi. “Per me, la festa è anzitutto un’ardente apoteosi del presente di fronte all’inquietudine dell’avvenire; un calmo scorrere di giorni felici non suscita festa: ma se, in mezzo all’infelicità, rinasce la speranza, se si ritrova una presa sul mondo e sul tempo, allora l’istante si mette a fiammeggiare, ci si può chiudere e consumare in esso: ecco la festa. L’orizzonte, in lontananza continua a essere cupo, le minacce vi si mescolano alle promesse, ed è per questo che ogni festa è patetica: essa affronta quest’ambiguità e non la evita. Feste notturne degli amori nascenti, feste massicce dei giorni di vittoria: v’è sempre un sapore mortale nel fondo delle vive ebrezze, ma la morte, per un folgorante momento, è ridotta a nulla. Eravamo minacciati, dopo la Liberazione molte smentite ci attendevano, molte tristezze e l’incerta confusione dei mesi e degli anni; non c’illudevamo: volevamo soltanto strappare a questa confusione qualche pepita di gioia, e ubriacarci nel suo splendore in barba ai domani che deludono.
L’esercito per strada a controllare chi esce, l’esercito a trasportare le bare dei morti in altre città, e la paura che romba nel nostro corpo
Vi riuscivamo grazie alla nostra connivenza; i particolari di quelle notti contano, poco: ci bastava di essere insieme. Quell’allegria, vacillante dentro ciascuno di noi, sui volti che ci circondavano diventava un sole che c’illuminava”. L’allegria vacillante, le pepite di gioia, l’istante che fiammeggia, il sapore mortale delle vive ebbrezze: penso che sarà questo, il dopo. Cammineremo, all’inizio, come Amos Oz ha raccontato che si cammina a Gerusalemme: prima si mette un po’ avanti la scarpa, e si tasta prudentemente il terreno. Poi, con la gamba ormai posata per terra, non si ha troppa fretta di muoverla. E se il piede è già levato, non ci si precipita a farlo scendere, perché potrebbe esserci un nido di vipere, là sotto il marciapiede, o insidie di ogni tipo, o un’altra, l’ennesima, punizione per la nostra tracotanza di passanti. La tracotanza di vivere uno accanto all’altro, la tracotanza di pensarci liberi.
Nei miei appunti per il dopo, c’è questa nota: non devo accettare mai l’idea che siamo stati puniti, da qualcosa che toglie il respiro, per riequilibrare l’universo troppo gonfio della nostra tracotanza, per ricordarci la nostra misera condizione di mortali in balia della ferocia della natura. A meno che sia tracotante il desiderio di vivere, di cercare di capire, di amare. A meno che, per essere umili, per restare al sicuro, sia necessario rimanere al buio, con gli occhi bassi, e non desiderare niente. Annichiliti. Era questa la lezione? Se sì, non l’abbiamo imparata. In questo tempo, e in queste settimane che ancora verranno, le persone continueranno con ostinazione, e sempre di più, a esercitare il loro desiderio, quindi a disubbidire alla lezione.
Ubbidirò a tutte le regole, e contribuirò a farle rispettare, non uscirò di casa senza un motivo validissimo, non incontrerò nessuno, mi laverò le mani cento volte al giorno, laverò anche le zampe del mio cane, farò attenzione a tutto, guarderò il sole e la luna dalla finestra, starò lontana tre metri dal fornaio e indosserò la mascherina anche in casa se non dovessi sentirmi bene, non bacerò neanche i miei figli, conterò i giorni, comunicherò i sintomi, se dovessi averne. Ma disubbidirò a tutto il resto: non smetterò neanche per un momento di desiderare, e di chiedermi perché.
“Ieri mi sono comportata male nel cosmo. Ho passato tutto il giorno senza fare domande, senza stupirmi di niente”, ha scritto Wislawa Szymborska. Ventiquattro ore, 86.400 secondi, 1.440 minuti di occasioni perdute. Adesso mi dico, mentre aspetto e mi struggo: dopo, nella vita nuova, non sprecherò neanche un minuto. Ma non è vero: ne sprecherò moltissimi, come prima, come sempre, e non vedo l’ora.
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