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L'altro schema: isolare i giovani dai vecchi

Giuliano Ferrara

Non avranno ragione i ministri israeliani e i tecnici inglesi quando dicono che per combattere il virus con efficacia il distanziamento sociale che deve essere imposto è quello tra i più esposti e i meno esposti? Una pista da seguire, anche per il dopo

Il ministro della Difesa israeliano dice che non conta la distanza sociale gli uni dagli altri, ma la distanza dei giovani dai vecchi. E ribadisce quanto detto dagli infettivologi inglesi: l’unica immunità vera raggiungibile in tempi sicuri è l’immunità derivante dall’espansione del contagio alla grande maggioranza della popolazione, salvaguardando coloro che sono a rischio e solo loro. Ora quando queste cose le dicono autorità israeliane o britanniche, uno pensa che si tratta di affermazioni responsabili, e che nei due casi, vuoi per la condizione geopolitica di isolamento degli uni in un ambiente ostile, vuoi per l’orgoglio di una antica e coriacea tradizione degli altri, si tratta di cose legate alla condizione esistenziale di due tra le prime nazioni del mondo. La tradizione è condizione esistenziale nell’isola di Albione, la difesa esistenziale è la tradizione della nazione ebraica in Israele. Solo che questo modo di pensare, per quanto seguito da atti apparentemente contraddittori e omogenei a quelli di altri paesi in quarantena generale, pone un problema anche a noi nei paesi che hanno chiuso tutto e per tutti allo stesso modo.

  

  

Probabilmente Cina, Italia e mondo stanno facendo quel che devono per stroncare l’epidemia o esaurirla con il minore danno possibile. E’ intuitivo oltre che sperimentalmente e teoricamente dimostrabile: un virus che non trova il suo habitat alla fine muore o non si riproduce. Obiettivo: fermare il contagio, impedirgli di espandersi. Quindi chiusure generalizzate, distanziamento sociale. C’è qualche smagliatura dove le norme sono rigorose, ci sono posti in cui le norme sono meno stringenti, e naturalmente comportamenti devianti e pericolosi. Chi più chi meno, abbiamo letteralmente abbattuto, salvo eccezioni di filiera emergenziale e poco altro, e lo facciamo in misura diversa ma convergente, le economie reali, e ci reggiamo in piedi e guardiamo al futuro sperando nel cavaliere bianco della finanza e nella resistenza per sacche di lavoro e produzione. Tutti siamo più o meno nella stessa situazione, per quanto non identica, costi umani etici e d’ogni altro genere ripartiti in modo non eguale ma sulla base di eguali premesse e in vista di analoghe conseguenze.

 

La premessa generale, naturalmente, è che il mondo può ben sopportare una epidemia di tipo influenzale. E’ un fatto stagionale preceduto e seguito da una forte immunizzazione, in parte per la vaccinazione (che stavolta non c’è), in parte per la diffusione elevata, il famoso gregge che si difende. Se veniamo a sapere che un giovane atleta ha contratto il virus Corona, non pensiamo, se non per stupida suggestione e analogia, che la peste si porta via un altro di noi, pensiamo che se Dio vuole non avrà problemi diversi da quelli di chi ha contratto in passato un’influenza, magari pesante, con febbre e tremori. Quello che non si può sopportare è la diffusione di un virus che può uccidere in misura tragica i più vecchi e malandati. 

  

 

Più in generale, si nota una sproporzione: anche tra chi loda lo slancio che da un certo punto in poi ha portato alle varie chiusure e all’induzione di comportamenti immunizzanti via quarantene sociali su larga scala, anche tra chi è insofferente per strumentali pregiudizi minori e minori ribellismi rispetto alle norme imposte o richieste dall’emergenza, si insinua il dubbio sullo sforzo apocalittico di cento cittadini su cento, senza distinzione, contro un’influenza virale che può avere conseguenze di compromissione respiratoria anche fatali in un numero definito e identificabile di casi, quello dei vecchi e malati. Ci si domanda: ma non avranno ragione il ministro israeliano e i tecnici dell’eugenetica darwiniana inglese quando esortano, non già a “prepararsi a piangere la dipartita dei propri cari”, espressione come al solito lugubremente ludica o retorica di Boris Johnson, quanto a capire che il distanziamento sociale deve essere quello dei giovani dai vecchi, i quali dovrebbero essere solidalmente accuditi e aiutati con la quarantena e il servizio sanitario mentre il mondo anagraficamente in grado di reggere l’impatto del virus, giovane e adulto, si guadagna l’immunità lasciandolo diffondersi al 60 per cento della popolazione?

 

Forse è una domanda solo teorica, di principio, o forse troppo pratica. Ma è una domanda. E in una temperie di grande disdetta certe risposte facili sono imperdonabili, ma non le domande, che non sono facili né difficili, sono solo domande. Ponendocela, quel che vogliamo sapere è se sia giusto, utile, umanitario che le persone a rischio siano nella stessa situazione delle persone non a rischio, diluendo nel tempo un risultato di immunizzazione che impone a tutti lo stesso comportamento di clausura e isolamento di fronte a un male che non è eguale per tutti, e che presenta veri profili da trattare in emergenza solo per una categoria vasta e venerabile di possibili infettati. Non conosco la risposta. So che dalla risposta dipende la valutazione sull’oggi e sull’immediato futuro, sulla natura e la giustezza delle misure prese fino a ora, sulla possibilità di una gestione diversa e per certi aspetti opposta dell’emergenza, accudendo i vecchi e aiutandoli a separarsi dai giovani e dagli adulti, riducendo la sindrome ospedaliera generalizzata e avvicinando la fine dell’epidemia influenzale da coronavirus con la sua diffusione tra chi può reggerne l’impatto senza conseguenze drammatiche. E so che la risposta non deve essere moralistica, visto che si tratta di introdurre una discriminazione per età nelle procedure della quarantena, e una discriminazione per età è sempre una cosa che in principio è ributtante. La risposta deve obbedire al principio del maggior bene per il maggior numero di vecchi possibile, distinguendo “forse”, ma in quel forse c’è tutta l’incertezza sulla verità della cosa e sulla possibilità di gestirla in questo altro modo, tra i diversi oggetti possibili del contagio. Oggi siamo tutti stretti, vecchi e giovani, in una battaglia di cittadinanza uguale per tutti contro l’espansione del contagio, e qualche risultato positivo c’è stato e si intravede sia nei paesi socialmente e politicamente chiusi sia in quelli aperti, quindi sarebbe difficile cambiare strada in corsa, tuttavia quell’obiezione inglese e israeliana ha dalla sua una specie di senso comune o di intuizione della cosa che non va perso per strada in ragione della sua intrinseca difficoltà.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.