"Non siamo più cialtroni, soprattutto al sud". Parola di antropologo
Franco La Cecla racconta come l'emergenza coronavirus accompagna il tramonto dei cliché sugli italiani popolo fuori-norma, sempre anarchico e incosciente
Non c’è solo la parola “guerra” come parola stereotipo, ma c’è anche la frase tic “il virus cambierà l’antropologia degli italiani” o ancora “qui si vede il carattere di un paese” e la lotta è “al solito italiano furbo”. E se fosse invece il tramonto di tutti questi cliché (antropologici), tra cui l’accusa montanelliana del popolo cialtrone, fuori-norma, sempre anarchico e incosciente? “Oggi lo possiamo dire. Non siamo più cialtroni. In verità, non l’ho mai creduto. Ma di certo, l’emergenza, lo sta dimostrando. Eccetto pochi imbecilli, tutti gli italiani stanno rispettando le regole. Al Sud come al Nord”. Anche al Sud? “Soprattutto al Sud…”. Lo conferma (“Da Palermo, dove adesso mi trovo. Due mesi fa ero anche io in Cina”), l’antropologo Franco La Cecla che ha scritto libri come Perdersi (Laterza), La Pasta e la Pizza (Il Mulino) e Contro l’urbanistica (Einaudi), tutti testi curiosi e a volte un po’ polemici e per questo ancora più interessanti. “Cominciamo con il dire che contro questo maledettissimo virus non serve la guerra, ma la guerriglia. Doti di velocità e improvvisazione. I termini, come si vede, sono impropri”.
Partiamo discutendo delle regole, dei divieti?
“Se ci fermiamo a riflettere, ebbene, ci accorgeremmo che le regole sono oggi l’unico tranquillante dell’italiano. Non solo le rispetta, ma ne sente un disperato bisogno. Ho casa vicino a un mercato rionale e mi ha sorpreso vedere come gli ambulanti, per natura uomini sanguigni, abbiano accettato il dettato del governo. Non credete a chi amplifica e a chi gioca a mettere in fila le denuncia più bislacche. La stragrande maggioranza sta obbedendo”.
Stiamo infatti rimanendo a casa per proteggerci e torna la casa come bandiera, il mattone di Mameli. Non è che alla fine, e si spera davvero presto, anche la casa smetterà di essere il focolare gozzaniano?
“Attenzione, si dice che gli italiani che stanno a casa non fanno altro che stare sui social. Quando finirà tutto quanto, e finirà, rischiamo di assistere al ribaltamento. È probabile che si esauriranno i social e che ci sarà una voglia matta di strada. È la strada la peggiore delle rinunce a cui siamo costretti. Perdere la strada per un italiano non è lo stesso che perderla per uno svedese”.
In queste ore si compila la lista dei desideri, i pezzi mancanti e qui si torna all’identità, anzi, all’antropologia. A tutti, oltre la strada, manca il caffè (“Che pure in carcere ‘o sanno fa”) che è sempre quello del bar (“Eravamo quattro amici”, ma meglio di no).
“Per gli antropologi sarà utile studiare la famiglia italiana dopo questa prova difficile. L’amicizia sarà un vincolo che verrà sicuramente riscoperto anche come assuefazione agli affetti più stretti. E poi ci sarà il bar che per noi ha un’importanza tutta speciale. Direi unica in Europa. C’è quasi un bisogno del bar perché ci permette momenti di informalità, di allargare la socialità”.
Per allargarla, o almeno surrogarla, in quarantena, si riscopre il balcone. Ingravidabalconi erano i gagà che descriveva lo scrittore Vitaliano Brancati, uomini caricati a eros, ma solo a parole. C’è qualcosa di meridionale nel balcone, non a caso a Roma è già terrazza, mentre a Milano è bow window, bovindo.
“Senza dubbio c’è qualcosa di meridionale nel balcone. Ma nel meridione il balcone è ambiguo: deve consentire lo sguardo fuori, ma non viceversa. Sul balcone, al Sud, ci si stava per guardare passare le processioni o per assistere ai fuochi d’artificio durante le feste del patrono. C’è l’idea, o meglio c’era, fosse un angolo privato. Adesso è lo spioncino per socializzare. Qualcosa di simile accadeva nella società goldoniana. I balconi si stanno venetizzando. C’è una riscoperta di questo elemento architettonico. Fermiamoci un attimo. In Turchia, prima che scoppiasse il coronavirus, le proteste contro Erdogan partivano dai balconi”.
Per gli storici si riparte dalla patria. Il sovranismo diventa, per alcuni, sovranità buona e, almeno per il momento, i confini sono una necessità e non più la vecchia cattiveria dei nazionalisti.
“E però, è vero il contrario. C’è una solidarietà nuova che si sta riscoprendo. I meridionali, per quel che se ne dica, stanno soffrendo e sono vicini ai lombardi. Si sta soffrendo tutti insieme e, credetemi, a uscire sconfitta è proprio l’idea che da soli bastiamo”.
Intanto devono bastare le misure. Il Foglio chiede appunti per il dopo. Appunti?
“Si dovranno ripensare le città, gli spostamenti. L’epidemia non può che diventare oltre a una sfida sanitaria anche una sfida architettonica”.