La vanagloria di chi affronta l'epidemia a colpi di io-io-io. Quando basterebbe un “che ne so?”

Pietrangelo Buttafuoco

Il colpo letale di Merlino nel duello di magia della “Spada nella roccia”. La pietra della peste e il miracolo della Madonna del Carmelo. Narrazioni del virus

Sembra nemesi. Prima ci si ritrova coperti di macchie rosse seguite da vampe di calore e da brividi di freddo. Poi da violenti starnuti. E’ il Malacliptonopterosis, un coronavirus versione Walt Disney. Ed è, appunto, il colpo letale nel celeberrimo duello di magia in La spada nella roccia. Merlino – vecchia subdola canaglia – lo infligge a Maga Magò, e così vince. Le regole della sfida tra due contendenti che si trasformano in cose diverse per distruggersi a vicenda sono chiare. E le enuncia la stessa strega.

 

 

Regola numero uno è: “Niente minerali o vegetali, solo animali”.

 

Ne consegue la seconda: “Non cose immaginarie come draghi verdi o roba simile”.

 

C’è la terza, quindi: “Non scomparire” – e però Merlino che la sa lunga, ne aggiunge una quarta: “Non barare!”.

 

Maga Magò – manco a dirlo – dopo solo pochi fendenti, bara. Si trasforma in un mostro alato, unghiuto, cornuto, zannuto e schiumante di vampe dalle narici. All’obiezione del suo sfidante – “suvvia, Magò, abbiamo detto niente draghi” – la strega, forte di codicillo, replica: “Abbiamo forse detto niente draghi viola?”.

 

Semola e Anacleto, ovvero il giovane Artù e il suo precettore pennuto – un gufo – sono i testimoni di cotanta battaglia e vedono già spacciato Merlino quando questi, d’improvviso, sparisce. Niente sparizioni, si era detto. Ed è un po’ come quando ci si aspetta dai conflitti un dispiego di missili, di droni, di incrociatori attrezzati da testate nucleare e, invece, c’è tutto intorno al perimetro del conflitto il beato niente.

  

La guerra è nel suo pieno ma il nemico non ha due gambe, due braccia, una testa e un paio d’occhi. Il nemico, piuttosto, non c’è. Getta in campo l’assenza di sé, si fa spavento tutto imprendibile e Maga Magò si vede perduta. Non poteva saperlo della possibilità di farsi virus. Prima della sfida non ha avuto modo di dirsi “non lo so”.

 

Niente sparizioni, in ogni modo. Al più c’è la messa in atto della distruzione: “Madame”, la rassicura Merlino, “non sono sparito, sono solo molto piccolo. Sono il germe di una malattia molto rara. Il mio nome è Malacliptonopterosis e tu – Magò – mi hai preso.” Non lo sa, Maga Magò, ma l’ha preso. A saperlo, l’avrebbe evitato. Come la strega, anche noi l’abbiamo preso. E ne siamo distrutti.

 

L’intera epoca sta per compiersi nel molto piccolo germe immaginato da Merlino e se mai ne saremo fuori, costretti a muoverci come chi deve imparare a camminare, non avendo avuto barbieri saremo tutti con i capelli lunghi, le signore avranno le ricrescite nella scriminatura ma una benedetta nemesi, infine, dovremo pur procurarcela.

 

Ci vedremo ricoperti di macchie rosse, seguite da vampe di calore, da brividi di freddo e poi costretti da violenti starnuti ad arretrare a nostra più consona natura: quella di un essere soltanto niente. E si capisce come le cose si siano tramutate in cose diverse per distruggersi, come accade a noi – per distruggerci – una volta per sempre.

 

Così il buon senso, come il senso comune. Giusto per abusare del già troppo citato Alessandro Manzoni che non è mai abbastanza ascoltato nel suo monito contro l’uso smodato delle “trufferie di parole”.

 

Parole, appunto. Flatus vocis. Ed è un restituirsi alla sarcastica semplicità dell’assurdo.

 

Nell’Italia che non legge manco a bastonate esplode questa moda del #restoacasaeleggo il cui ceppo virale è sempre e soltanto uno: la retorica. Compunti somari, e altrettante somaresse, danno dimostrazione di vivo entusiasmo. Tutti sono primi al traguardo della lettura, e tutti, armati – e ci mancherebbe – di cancelletto ma quando necessità s’impone, non resta che il torto. E ciò a soccorso del buon senso se il senso comune – il piacevole diversivo di cui s’incaricano i vip – è la prosecuzione del pelo lisciato dalla parte giusta in altre mascherine. Loro si prestano a fronteggiare l’epidemia a colpi di io-io-io, lo fanno via web, e ai cinici – lo suggerisce Antonio Iannizzotto, matematico e cattedratico – viene facile il gioco. Si scrolla l’apparizione di cotanti vips e, di volta in volta, per ogni appello, si dice: “E questo chi è?” Giusto per depotenziarne l’ego nel frattempo che la contesa di tutti con il coronavirus, il nostro trasformarci di tutti in qualcosa di diverso da ciò che si è stati, allerti un qualunque Merlino.

 

I convenzionalisti che fanno dell’etica un’etichetta, si profondono nell’autolettura con ancora più sapienza e davvero, allora, il paragone si ferma un gradino sotto all’onanismo. L’autoerotismo che è benemerito sempre nel fuoco della viva fantasia, in questa foga dell’assolutamente epocale – per dirla col maestro Peppino Sottile – è solo mestizia e rassegnazione. Altro che donne & champagne. Solo seghe & gazzose al tempo del Malacliptonopterosis che ci prende e ci costringe alla trasvalutazione dei valori: il gregge che sopravanza sull’ethos di ciò che è nobile e magnanimo.

  

Questo è, il gregge, se poi non si fa nemesi. E questo c’è se poi Giuseppe Conte in un niente diventa un Churchill, Ursula von der Leyen fa il verso a John Kennedy mentre il Papa, intervistato da Repubblica, facendo la ruota alla vanità del ressentiment cita nientemeno Fabio Fazio. L’uso smodato – va da sé – di trufferie di parole.

 

E poi dice l’immunità di gregge. D’improvviso si sparisce. Ci si ritrova tutti nella vanagloria del “chi poteva mai saperlo?” in luogo di un più severo “che ne so?”. Chi poteva mai saperlo che ci saremmo ritrovati nell’apnea di una doppia verità in questo infinitesimale del contingente, chi? Sono cose immaginarie come draghi verdi e robe simili. Ma in questa contesa dove ci si trasforma tutti in cose diverse per distruggersi, ci sono minerali in attesa di un destino.

 

Ogni Venerdì Santo, al paese, a Leonforte, si fa tappa dentro la chiesa della Madonna del Carmelo. In un angolo, sul muro, accanto all’uscio laterale, c’è un riquadro di grata in ferro, fissata al muro a custodia di un sasso. E’, appunto, un minerale: è la pietra della peste. Si racconta che nel 1624 una nave approda a Palermo portando con sé il morbo. Tutta la Sicilia è toccata dalla morte, lo stesso viceré – Emanuele Filiberto – non si salva.

  

La popolazione dell’isola è decimata e soltanto in pochissime città, Enna, per esempio – e poi Leonforte – grazie al cordone sanitario imposto dalle autorità non si registrano morti. Qualcuno però paga un untore che immerge nell’acquasantiera della chiesa una pietra intrisa nei liquami di un appestato affinché il morbo prenda tutta Leonforte. L’untore consegna Leonforte alla peste ma la Madonna, misericorde, s’impone col miracolo: prosciuga l’acqua nella sacra pila e così salva la città. Qualcuno ha forse detto “niente miracoli?”.

  

E “chi poteva mai saperlo” ci diciamo ogni volte, ogni anno, io e Pierfrancesco – mio cugino – osservando da vicino quella pietra. Per la prima volta, da secoli – come lamenta Fabrizio D’Esposito, memoria delle confraternite della Passione in tutto il sud – non sarà celebrato il Venerdì Santo.

  

Sembra nemesi. D’improvviso si sparisce e con mio cugino, non potendo esserci lì, quest’anno, alla Madonna del Carmelo, ad accendere la vampa innanzi alla Gran Fonte, avremo solo di fare domanda della più straziante delle risposte: “Che ne so?”.

  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.