Quant'è difficile ma prezioso fare niente
La contemplazione non è opposta all’azione, ma è la sua espressione più alta, la creatività, che consente di essere pienamente vivi. Un saggio della Civiltà Cattolica
Pubblichiamo in anteprima un estratto di "Fare niente. Un'attività preziosa e ardua", saggio di padre Giovanni Cucci S.I. presente sul numero 4075 della Civiltà Cattolica, in uscita sabato 4 aprile
Per secoli gli uomini hanno vissuto, e bene, senza le attuali distrazioni. E hanno riconosciuto nell’assenza di distrazione la via verso la felicità. Pascal notava che la gran parte dei mali e delle passioni dell’uomo "derivano da una sola cosa, dal non saper stare senza far nulla in una stanza". L’addestramento alla mente, notato dagli autori della ricerca sopra riportata, era chiamato dagli antichi l’arte di vivere, la sapienza, l’attività più importante e preziosa, perché consente di partecipare della felicità (eudaimonia), la condizione propria di Dio. Per Aristotele, il piacere di questa attività è perfetto, non conosce gli eccessi, la mancanza, la fatica, il dolore, e questa è l’azione più alta e degna dell’uomo libero. Il filosofo greco precisa tuttavia che l’uomo può giungere a tale stato solo per qualche breve momento: “Una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana”.
Ma la consapevolezza di questo limite non costituisce una obiezione. Il fatto di essere un’attività provvisoria e instabile non la rende meno bella; perciò la persona respinge con sdegno l’obiezione di lasciarla perdere in quanto ritenuta troppo ardua da raggiungere. Ciò significherebbe mortificare la dimensione più alta e nobile dell’uomo: “Non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Infatti, sebbene per la sua massa sia piccola, per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero che è la sua parte principale e migliore [...]. Questa vita, dunque, sarà anche la più felice”.
Questo tema sarà ripreso ampiamente in ambito cristiano. Scrive ad esempio sant’Agostino: “Il diletto che si prova nella contemplazione della verità è così grande, così puro, così sincero, e dà tanta certezza della verità, che chi lo prova ritiene di non aver mai saputo le cose che prima credeva di sapere; e perché l’anima possa aderire integralmente alla Verità totale, non teme più la morte che prima temeva, anzi la desidera come un sommo acquisto”.
E’ tuttavia importante non equivocare questo termine, quasi fosse riservato a una ristretta comunità di eremiti o incoraggiasse la passività a scapito dell’azione. Quando parla di contemplazione, lo Stagirita intende qualcosa di differente da come potrebbe sembrare oggi. L’esame degli endoxa, cioè delle opinioni correnti, lo porta a concludere che la felicità può essere raggiunta esercitandosi in due attività apparentemente agli antipodi tra loro, come appunto la contemplazione e le relazioni, grazie alle quali l’uomo raggiunge il suo fine proprio, che lo differenzia dalle bestie e dagli schiavi, rendendolo partecipe della vita propria di Dio, e conferendo un tratto di gioia e di bellezza a quanto compiuto.
La contemplazione non è opposta all’azione, ma è la sua espressione più alta, la creatività, che consente di essere pienamente vivi. Lo psicologo Abraham Maslow chiama questi momenti peak-experiences, nelle quali il tempo si è come fermato, l’esistenza viene percepita nella sua bellezza e l’Assoluto fa il suo ingresso, investendo il soggetto. In questo modo si avverte una gioia profonda, uni- ta a sorpresa e stupore, insieme a un senso di gratitudine per un tale dono ricevuto inaspettatamente. In seguito a ciò, la persona diventa più tollerante, capace di perdono, di empatia, e sa reagire maggiormente di fronte alla sofferenza e alle difficoltà. Il termine peak-experiences può comprendere una gamma fenomenologica di accadimenti estremamente variegata, come la poesia, l’ispirazione letteraria, l’opera d’arte, una relazione d’amore, uno stato mistico.
Chi sperimenta tali momenti non ha l’impressione di essere inerte, ma, al contrario, li considera come i più intensi della propria vita. Queste caratteristiche di pienezza comprendono anche l’attività professionale, la quale, se è in sintonia con il proprio desiderio profondo, può essere considerata un anticipo di beatitudine. E’ questa, ad esempio, la maniera con cui uno psichiatra statunitense, Irvin Yalom, in un romanzo autobiografico, descrive il proprio mestiere: “Fortunato colui che ama il proprio lavoro. Ernest si sentiva fortunato, certo. Più che fortunato. Benedetto. Era un uomo che aveva trovato la propria vocazione, che poteva dire: 'Esprimo perfettamente me stesso, sono al culmine dei miei talenti, dei miei interessi, delle mie passioni'. Ernest non era religioso, ma, quando ogni mattina apriva l’agenda degli appuntamenti e vedeva i nomi delle otto o nove persone che gli erano care e con le quali avrebbe trascorso la giornata, era sopraffatto da un sentimento che avrebbe potuto definire unicamente con il termine religioso. In quei momenti provava il desiderio più profondo di rendere grazie – a qualcuno, a qualcosa – per averlo guidato fino a comprendere la propria vocazione”.