Vivere dopo la quarantena
Cambierà tutto ma cambierà soprattutto il lavoro. Il boom degli avvocati divorzisti, i loft che falliranno, le massaggiatrici che si arricchiranno. Pazzo viaggio nei mestieri del dopo
Il futuro è invecchiato di colpo. I nostri piani, i progetti, le proiezioni, persino le distopie su come vivremo e lavoreremo si sono rivelati o datati e inadatti, o improvvisamente presenti, concreti.
Il 2020 è diventato il 2040 e noi non abbiamo niente da metterci.
Dobbiamo disabituarci ai pensieri di prima, alle certezze di prima, forse anche all’idea che sia possibile e sensato consolidare delle abitudini. La seconda vita delle cose, il riciclo, il riuso a cui stavamo convertendoci sono diventati impraticabili, improvvisamente sostituiti dal monouso, dall’usa e getta; una mascherina nuova per ciascuna passeggiata, un paio di guanti per ciascuna spesa al supermercato, un imballaggio sovradimensionato per ogni acquisto online. E’ un esempio piccolo, che però contiene il gigantesco cambio di prospettiva che saremo costretti ad adottare per riapparecchiare il mondo e ciò con cui ci teniamo in vita, il lavoro.
Ragionare su come saremo appare a molti inefficace, mentre vorrebbero che si ragionasse su come siamo e stiamo ora, ma poiché il mondo potrebbe ritrovarsi costretto a chiudersi in quarantena molte altre volte, per virus molto più minacciosi di questo, immaginare soluzioni per il futuro non è scardinabile dall’immaginare quelle per il presente.
Avremo, abbiamo già esigenze che richiedono competenze nuove, del tutto inedite oppure antiche, da ripristinare e riadattare. Pensate alle case, che negli anni abbiamo ristretto accorpando gli spazi, abbattendo pareti, abolendo corridoi, perché tanto credevamo che la nostra vita si sarebbe svolta preminentemente fuori, in ufficio, in coworking, in viaggio. Pensate a come ha contribuito a fare della casa poco più che un dormitorio il modello Silicon Valley, dove le grandi aziende hanno messo a disposizione dei propri dipendenti spazi enormi, palestre, piscine, divani, ristoranti, un microcosmo domestico e privato dove vivere assai meglio che a casa propria, un posto dove tornare semplicemente a dormire.
Adesso, però, i nostri striminziti appartamenti da inquilini dello spazio urbano, delle aziende, degli hub polifunzionali, si sono rivelati trappole, case di forza, e dal momento che in quarantena potrà capitare di ritrovarci molto più spesso di quello che immaginiamo, si dovrà anche, forse, ripensare agli interni domestici, a come renderli adatti ad accogliere interi nuclei familiari che, tra quattro mura, per molte settimane, lavoreranno, mangeranno, giocheranno, litigheranno, incontreranno gli altri, studieranno, si diplomeranno, festeggeranno. Oltre a spazi maggiori o almeno meglio suddivisi (sarà la fine del loft?), si renderà forse necessario che nelle nostre case ci sia un arredamento più robusto, solido, resistente (sarà la fine del fast furniture?). Architetti e designer di interni dovranno ridisegnare un nuovo modo di abitare, contingentato a un nuovo modo di vivere che, forse, avremmo dovuto immaginare da tempo. Sei anni fa, nei venti lavori del futuro segnalati dall’istituto di ricerca inglese FastFuture, compariva il guardiano dei periodi di quarantena, perché sulla possibilità che un virus più o meno pericoloso se non addirittura mortale contagiasse l’umanità gli scienziati ragionano e discutono, inascoltati, da parecchio tempo. E infatti eccoci qua, impreparati, impelagati in decreti, autorizzazioni, ordinanze, revisioni, e tutta una burocrazia dell’isolamento responsabile che è la misura del disorientamento di chi ci governa ma pure di tutti noi, che facciamo pressioni per uscire, per ottenere una deroga, per fare eccezione, indisponibili ad accettare che alla restrizione delle nostre libertà potremmo essere costretti ancora a lungo e, soprattutto, molte altre volte ancora, ciclicamente. Lo stato ci tratti come adulti, dicono in molti. E lo stato fa melina, appoggiandosi alla forza pubblica, tuttavia insufficiente. Un terzo organo di mediazione tra noi e chi ci amministra si renderà, probabilmente, indispensabile. Avremo soltanto guardiani della quarantena o anche anche guardiani di guardiani della quarantena? Saranno armati, certificati, in divisa, in borghese, in tuta di tybec, con portafoglio, senza portafoglio, ong, ogm, omg?
Le città semideserte saranno attraversate da mezzi militari che trasporteranno guardiani di quarantena e pastori urbani, altra possibile nuova professione, che dovranno occuparsi di gestire il traffico faunistico che si riverserà per le strade quando noi umani saremo costretti a starcene rintanati in salotto (avrete senz’altro visto le famiglie di cinghiali e caprioli a spasso per il centro di Genova e le puzzole dietro Palazzo Vecchio a Firenze, un piccolo Madagascar o, se preferite, l’avverata profezia di “Elefante” dei Booda, “Spostiamo noi la terra, pensi di condurre il gioco lì dalla tua sedia, è inevitabile che tanto esploderà la teca”). Gli animalisti hanno reagito con giubilo, finalmente la natura si prende il suo spazio, hanno detto, e forse stavolta hanno ragione, e chissà se gli amanti degli animali sono consapevoli che questa epidemia ha mostrato l’importanza di lasciare in pace gli animali il più possibile, di mantenere una distanza tra noi e loro. Esperti di zoonosi di oggi, Burioni di domani, quanto bisogno avremo di voi.
In bicicletta tra furetti e pastori urbani ci saranno rider, rider per tutto, ci porteranno a domicilio la colazione, il pranzo, la cena, la merenda, l’aperitivo. Abbiate fede: queste prime settimane di incertezza, di consegne rimandate o addirittura annullate finiranno. Organizzeremo, dovremo necessariamente farlo, la consegna di beni di prima, seconda, terz’ultima e ultima necessità. Pane, croissant, rossetti, libri, vestiti, cyclette, quadri, suppellettili, tutto. Le grandi catene e le piccole botteghe avranno un sito online per l’e-commerce, altra nuova frontiera occupazionale non da poco. Un gruppo di ragazzi di Roma sta già raccogliendo fondi su gofoundme per fornire un negozio online gratuito e visibile a tutte le piccole attività italiane, con possibilità di confronto prezzi tra tutti i venditori presenti in città (servono duemila euro, il progetto si chiama FindAround, magari potrebbe servire come progetto pilota per strutturare una rete che regga anche in futuro, a emergenza passata o – ottimismo – finita). A domicilio arriveranno fattorini, e in casa faremo entrare parrucchieri, estetisti, massaggiatori, fisioterapisti, debitamente imbustati, sigillati dentro mimetiche anti contagio, anti contatto diretto, anti panico, anti infezione, anti mondo prima del febbraio 2020. Tuttavia, esiste la possibilità che la cura di sé a domicilio si riveli un azzardo, e che un bagno di servizio privato diventi focolaio di contagio, quindi dovremo ricorrere al fai da te, naturalmente guidati da tutorial, nei quali i lavoratori del beauty faranno bene a eccellere prima di subito. Pagheremo corsi online su come massaggiarci i polpacci, le tempie, la faccia, il cuore, e come scalarci, arricciarci, allungarci i capelli, e come pulirci, illuminarci, ringiovanirci il viso. Pagheremo corsi su come fare corsi online, non ci sarà categoria professionale che potrà fare a meno di uno o più tutorialisti di riferimento, ce ne saranno di pubblici e, naturalmente, di privati. I più frettolosi, pagheranno per tutorial già pronti. E parliamo del già pronto nell’alimentare. Perché presto o tardi (presto, molto presto) la voglia di panificare, tirar sfoglia, disossare agnelli, capare broccoli, infornare lasagne, produrre lievito madre, far la birra in casa e insomma trasformarsi in Bimby con i piedi, passerà. Passerà e rivaluteremo le zuppe pronte, il dado, i quattro salti in padella, l’insalata in busta, i risotti liofilizzati, i timballi di glutammato, i croissant surgelati con un cuore di nutella che nutella non è mai. Il tempo non sarà dilatato ancora a lungo, metteremo a regime anche la quarantena, lo smartworking diventerà peggio che andare in fabbrica, e torneremo a fare la pausa pranzo davanti al pc, solo che non avremo paninari da cui correre a farci un hot dog con le cipolle fritte, da una settimana o da un’ora o da un minuto, un attimo ancora. Niente cibo da strada, tutta nostra non sarà la città, non potremo che servirci di un già pronto, un precotto, un postfritto, un frullato proteico, una miscela pasto sostitutiva (nel mondo di prima tutti abbiamo avuto un collega che, mentre noi ingollavamo carboidrati grondanti grassi insaturi, sorseggiava sbobbe alla fragola spiegandoci che valevano come un piatto di pasta: lo irridevamo, scettici e disgustati, e invece lui era il futuro, e adesso ci toccherà anche riconoscergli qualità divinatorie, o almeno scusarci). Il salutismo alimentare, spiace, sarà un regime più duro dell’isolamento a Whuan, e non tutti saremo in grado di osservarlo, quindi ci ammaleremo di gastrite, reflusso, colite, e i nutrizionisti e gastroenterologi d’oggi saranno i premi Nobel di domani. Dovremo tenerci allenati, se non vogliamo accorciare le appassionanti vite che ci si parano davanti fatte di interstellari viaggi tra la Coop più vicina e il garage di casa, ma non potremo andare in palestra, quindi i produttori di cyclette, specie se ellittiche, pedaliere, sedie romane, stepper, pedane vibranti, pesetti, micropiscine per terrazza e balcone saranno gli Agnelli del futuro.
“Le sfilate? Non saranno mai virtuali, impossibile sostituire l’emozione di quei momenti”, ha detto Domenico Dolce al Corriere. E speriamo prevalga non l’emozione, ma la possibilità di farla prevalere. Intanto, la moda s’attrezza come può, la produzione di mascherine griffate è iniziata, pochi giorni fa The Cut titolava che “Chanel is designing Face Masks”, ed è quindi prevedibile che il fast fashion si muoverà di conseguenza. Visto lo sconsiderato numero di ore che spenderemo in diretta Skype, Instagram, PartyHouse, dove ci vediamo a mezzobusto, ed è assai probabile che il capo che ci appare in giacca e cravatta, sotto indossi i pantaloni del pigiama, sarà bene confezionare più camice, maglie, bolerini, coprispalle, giacche che gonne e braghe. A proposito di lusso, da metà marzo diverse case cosmetiche si sono organizzate per produrre gel igienizzanti e, in moltissimi casi, visti i non edificanti episodi di inusitato rialzo dei prezzi dell’Amuchina, li hanno donati. Davines (Parma) distribuisce il Gel Del Buon Auspicio in Emilia Romagna; in Francia i laboratori di Christian Dior hanno brevettato idroalcolico battericida, griffato e gratuito – tra Chiara Ferragni e questi qua, uh, come ne escono sacrosanti, meravigliosi, benedetti coloro che accusiamo di vacuità, inutilità, inconsistenza, schifoso attaccamento al denaro, incuria verso i veri problemi dell’umanità, non è vero?
A proposito di solidarietà. Gli avvocati matrimonialisti saranno presto invasi da richieste di divorzi brevi, tutti consensuali, per carità, consenso delle parti, dei rispettivi familiari, del vicinato, perché in quarantena gli italiani si sono ritrovati a convivere con gli estranei che hanno sposato per quiete e per una serie di altre stupide ragionevolezze, che tuttavia se pure resistono alla prova del tempo, non resistono a quella della cattività, e non uno che abbia fatto marcia indietro su scappatelle, adulteri, infedeltà, tutte abitudini facilmente perpetratili online. Le mogli e i mariti avvezzi alle corna del coniuge per storia e tradizione, tuttavia, potrebbero non reggere, gli effetti psicologici della quarantena non sono soltanto la tendenza alla depressione, all’isteria, all’ennui, ma pure una drastica riduzione della pazienza, della disponibilità a chiudere occhi, orecchie, bocca, tutto. Divorzi brevi su Skype: avvocati, questa è la vostra occasione per riprendervi dalle lenzuolate di Bersani di cui vi lamentate da un decennio e passa. Forza. Non fatevi rubare il futuro dagli psicoterapeuti di coppia, che già nel mondo ante coronavirus vi hanno ben scippati.
Dove manderemo tutti i single e divorziati e divorziandi desiderosi di nuovi amori? Andremo ancora ai concerti, a ballare, a passeggiare, e insomma a fare tutte quelle cose dove, con la scusa dell’arte e dell’intrattenimento, nel mondo di prima, si tentava, naturalmente con il sostegno del dating virtuale, di rimorchiare? Ma certo che sì. Però senza assembrarci. Entrando a uno a uno, mantenendoci a distanza di sicurezza, aiutati da buttafuori che saranno sempre più richiesti e che collaboreranno fianco a fianco (si fa per dire) con i contapersone, altra figura professionale del futuro. Misureremo la capienza degli spazi sulla base di quante persone debitamente distanziate potranno contenere, e sarà una misurazione molto delicata, soggetta a mutevoli disposizioni governative, competenza unica e indifferibile dei contapersone, cui sarà richiesta imperturbabilità e impermeabilità ai sentimenti, assenza totale di empatia, inflessibilità, professionisti del “se fossi stato al vostro posto ma al vostro posto non ci so stare”.
Per i momenti di quarantena, invece, quando i concerti ce li suoneremo da soli sui nostri balconi si renderanno necessari muratori specializzati nella ristrutturazione e nel rinforzo di balconi, finestre, verande. Ripristineremo i cantastorie e gli aedi, e speriamo che si offrano a prezzo scontato su notabili piattaforme di streaming, così che intrattengano indemoniati bambini provati da professori non proprio a loro agio nell’e-learning.
Non saremo avidi di buoni sentimenti, anzi. Della solidarietà faremo un mestiere, e anzi molti, primo fra tutti questo: corsi accelerati (online, of course) di disoccupazione agli amici del nord Europa, che anche se non intendono sganciare eurobond per noi zecche del Mediterraneo, sono comunque meritevoli del nostro soccorso, e poiché sono piuttosto impreparati ad affrontare la crisi occupazionale che già comincia a falciare posti di lavoro (+10,4 per cento di disoccupati la scorsa settimana in Norvegia), offriremo loro pacchetti su come gestire, assai dignitosamente e con un certo divertimento, la cassa integrazione, arte nella quale eccelliamo e che contribuisce a fare di noi il popolo di poeti, santi, navigatori che la storia dice che siamo.
Avanti, quinto stato.
I guardiani del bene presunto