Addio, o mio foulard
Non è più tempo di svolazzamenti frivoli. Così l’accessorio simbolo dell’eleganza si è trasformato in una mascherina d’emergenza
Si pensa a salvar vite. E’ emergenza, è urgenza, è disastro, pandemia, e la bellezza appare allora un libertinaggio fuori luogo, un’inutilità impudente, una meschineria sacrificabile. La tetraggine ci sembra un prezzo minimo per un bene massimo, e non ci preoccupiamo dei suoi lasciti, di come potrebbe trascolorarci e ingrigirci ben oltre la quarantena. Lo stato di necessità ci fa accettare di buon grado di circolare conciati come buste, di vederci ogni giorno in pigiama trovandolo divertente, persino liberatorio, di non truccarci o farlo molto poco, di uscire per l’essenziale, di arricchire il primario così che il secondario non ci manchi. Prendiamo la divisa anticovid come un carnevale destinato a passare e a non lasciare traccia. Ci preoccupiamo dell’introversione e recessione di tutto, lavoro, amore, amicizia, cene fuori, tolleranza, età media, democrazia, ma non sembriamo affatto allertati da come ci trasformerà l’alienazione del superfluo, l’astinenza dalla cura di sé, Chanel che anziché vestiti produce mascherine, Dior che anziché inefficace ma irrinunciabile siero antietà produce gel igienizzanti. Filosofeggiamo sulla contrazione delle nostre libertà senza fermarci a pensare allo svilimento di quel particolare mezzo d’espressione di sé che è l’abbigliarsi. La trasfigurazione dell’iconografia ci colpisce, certo, ma non ci preoccupa, e tanto basta a rilevare quanto ci ha mortificati questa pandemia. I guanti, le scarpe, gli occhiali non sono più accessori vezzosi, ma scudi. Nei giorni scorsi, il foulard è stato trasformato in un presidio medico chirurgico da ospedale da campo, una vicemascherina, e a nessuno è passato per la mente che stessimo assistendo alla capitolazione del mondo di prima, all’abrogazione della spensieratezza, alla rappresentazione più vivida di come il Covid abbia contagiato e colonizzato tutto, marchiandolo a fuoco.
Nei giorni scorsi, il foulard è stato trasformato in un presidio medico chirurgico da ospedale da campo, una vicemascherina
Domenica scorsa, il governatore della Lombardia Attilio Fontana ha diffuso una nuova ordinanza con la quale introduceva l’obbligo “per chi esce dalla propria abitazione di proteggere sé stessi e gli altri coprendosi naso e bocca con mascherine o anche attraverso semplici foulard e sciarpe”. Obbligo di foulard, abbiamo commentato tutti, tra lo sdegno e il ghigno, il cinismo e l’incredulità, tuttavia grati di assistere alla commedia all’italiana nella quale i nostri amministratori e governanti hanno avuto il talento di trasformare, in molti casi, la lotta al coronavirus.
Quando, a fine marzo, Daniela Santanché s’è presentata in occhiali e foulard sul volto in Senato, per ascoltare l’informativa di Conte sull’emergenza Coronavirus, è stata molto criticata, a molti il suo è parso un gesto sprezzante e irrispettoso, perfino provocatorio. E si capisce. Il foulard è accessorio sbarazzino, malizioso, ammaliante, a tutto è servito, nella sua lunga storia, tranne che a contenere contagi, e anzi ha sempre fatto il contrario, ha allargato fascini, espanso influenze, esportato stili, onorato tradizioni conservandone il fuoco e mai venerandone le ceneri. Ha ballato di tutto, il foulard. Libero. Svolazzante. Imprendibile. Intramontabile, o almeno così sembrava fino a che un’ordinanza della città della grida lo ha demansionato. L’ora è grave, non possiamo permetterci svolazzamenti, come in quella canzone di Jannacci che scrisse Beppe Viola nel ’74, “Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più” (sostituire fabbrica con covid per la perfetta sintesi di questi nostri giorni).
Quando eravamo liberi d’essere superficiali, c’erano perdigiorno che studiavano i nodi maschili, e l’accessorio cambiava con il contesto
“Mettetevelo senza nemmeno guardarvi allo specchio” raccomandava Diana Vreeland alle sue lettrici, spiegando che non importava come e dove lo indossassero, se annodato in testa, o al collo, o alla borsetta, bastava che ne avessero uno. Se per Chanel bisognava uscir di casa sempre con un ottimo cappello in testa perché sarebbe stato la prima cosa che Dio avrebbe visto, per Vreeland era fondamentale presentarsi in pubblico con un fazzoletto di seta che imprimesse il tono, lo squillo, il colore, che fosse la vela tascabile pronta a gonfiarsi e sulla quale contare per salpare via, o almeno elevarsi, distinguersi; il dettaglio ulteriore e fondamentale; la chicca.
Niente, neanche i cappellini a crochet, ci ha messo l’estate addosso più dei foulard. Niente, neanche gli occhiali da sole alla sera, ci ha rappresentato le dive in fuga dai paparazzi più dei foulard. Niente, neanche “Le déjeuner sur l’erbe” di Manet, ha simboleggiato le innocenti evasioni più dei foulard. Non c’è donna a cui non abbiano regalato riserbo e malizia, e sul cui volto non cadano bene. Non c’è uomo nel cui taschino o al cui collo i foulard non potenzino l’eleganza. Accessori e capi unisex perfetti per sofisticarsi, certo, ma pure semplificarsi, apparire e scomparire, mimetizzarsi e distinguersi.
Nel suo “Album di vestiti”, Paola Masino si chiedeva come mai esistessero “così tante donne non comuni che si vestono in modo comune, e tante donne qualsiasi che si sono creati veri e propri costumi” (tra le donne non comuni ma comunemente vestite, metteva Natalia Ginzburg, Sibilla Aleramo, Alba de Cespedes). E si rispondeva che “essere anonimi all’esterno è un modo per sentirsi più libere e sole in mezzo alla folla, perché essere come gli altri è il miglior modo per stare nascosti, in se stessi, senza crearsi il fastidio di non venir meno al proprio personaggio”. Il foulard se ne sta, camaleontico o proprio camaleonte, tra l’omologarsi e l’evidenziarsi, in una intercapedine centrale ed è, quindi, funzionale a entrambe le cose, s’accorda alla volontà di chi lo usa, eccentrico per gli eccentrici, ordinario per gli ordinari. Non che sia semplice, non che basti posarsi addosso un foulard e aspettare che s’intoni alle nostre migliori o peggiori intenzioni, naturalmente. Bisogna, ed è parte del suo fascino, saperlo annodare, sciogliere, sistemare senza che si stropicci, agevolarlo, insomma, nel suo fare, dell’uso, la funzione. Bisogna saperne trattare il tessuto, specie quando è seta. Jean Louis Dumas Hermès, pronipote del fondatore del marchio, nel 1988 pubblicò non a caso un manuale, anche piuttosto corposo, “Come portare il foulard”. E invece adesso è arrivato il futuro, rozzo e sbrigativo, e ha decretato che i foulard sono poco più che scottex, bandane, basta stringerseli attorno al viso ed è fatta, e diventano utili, e ti proteggono (forse) da una polmonite e (di certo) da una multa di molto rigoristi carabinieri lombardi.
Che strazio. Un colpo di spugna, e pure di disinfettante, su Brigitte Bardot che in foulard passeggiava per Saint Tropez, su Audrey Hepburn che col foulard al collo girava Roma in vespa insieme a Gregory Peck, su Nicoletta Braschi che col foulard in testa ammaliava e ingannava Roberto Benigni in “Johnny Stecchino” facendo di lui un sostituto mafioso, su Bridget Jones che perdeva il foulard sulla decappottabile di Hugh Grant e arrivava alla fine del viaggio coi capelli orrendamente drammaticamente cotonati dal vento, su Susan Sarandon che scappava da un lavoro di merda e una vita di merda con la sua migliore amica a bordo di una Ford Thunderbird in “Thelma&Louise” e aveva in testa un foulard indimenticabile che sembrava il suo unico bagaglio, su Anna Karina che sovrintendeva alla distruzione di due famiglie in “Roulette cinese” e sempre con la seta sul capo, su Silvana Mangano mondina in foulard in “Riso Amaro”, ché nella sua vita ante hollywoodiana, il foulard serviva alle donne che lavoravano nei campi per coprirsi dal sole e tenere i capelli in ordine, e prima ancora era servito allo stesso scopo ai soldati. Ha un suo pragmatismo, il foulard, e infatti Zadie Smith ne ha quasi sempre uno in testa, quando non è un foulard è un turbante, lei che come Virginia Woolf non ammette che le donne perdano troppo tempo a imbellettarsi e pettinarsi – “con tutto il tempo che perdono le donne in tolette potrebbero imparare in greco”, scrisse Woolf. In “Swing Time”, Zadie Smith ha scritto che “i capelli non sono essenziali quando assomigli a Nefertiti”, e nell’economia circolare del tempo cui eravamo tutte costrette, nel mondo antecovid, quando a essere dilatato non c’era niente, a parte l’universo, il foulard in testa era funzionale anche a questo, al risparmio (che è sempre un riciclo) del tempo. Perché pettinarsi se con un lembo di seta ben annodato in testa si possono ottenere, in pochi minuti, effetti simili a quelli che Evelyn Nesbit otteneva in ore di sessione davanti allo specchio con spazzola e pettine e fermagli e chissà quali altre ingestibili suppellettili?
Bisogna saperlo annodare, sciogliere, sistemare senza che si stropicci. E invece adesso è arrivato il futuro, rozzo e sbrigativo
Sul più iconico manifesto femminista di tutti i manifesti femministi (non che siano poi molti, sapete, per non incappare nella mercificazione del corpo s’è preferita l’iconoclastia), il We Can Do It! altrimenti noto come “Rosie the Riveter” disegnato da J.Howard Miller nel 1943 ma riutilizzato soprattutto negli anni Ottanta, c’è una donna che si arrotola la camicia di jeans sull’avanbraccio, mostrando i muscoli. In testa, ha un foulard rosso a pois bianchi. Che versatilità!
Secondo il London College of Fashion il foulard aiuta l’uomo a guardare la donna che lo indossa dritto negli occhi, senza perdersi nelle scollature e avvantaggiando la comunicazione. Tutto perduto, tutto finito in mascherine. Quanta utilità! “La cosa che mi commuove sempre è la mia infanzia con le stalle, i carrozzoni di fieno, i ragazzi che sognavo di sposare. Quel foulard in testa, el riòtt, non è snob e non copre la calvizie, ma cita il fazzoletto che tenevano le campagnole”, ha detto una volta Valetina Cortese, attrice inseparabile dai suoi foulard. Perduta Cortese, orologio d’un tempo andato, abbiamo ora a profile pic dello Zeitgeist l’immortale Jane Fonda, che da quando è in quarantena non ha smesso di brigare contro il governo, solo che anziché far sit in sui gradini del Campidoglio di Washington, si fa dei selfie imbavagliata da foulard – naturalmente – sui quali sono scritte le sue istanze politiche e poi condivide lo scatto su Instagram. Prendete voi le misure di quello che abbiamo perso e di quello che, invece, abbiamo guadagnato, se qualcosa abbiamo guadagnato.
E i maschi? Ah, caro Fontana, se lei avesse saputo, se lei fosse stato informato, se lei avesse avuto minimamente contezza di cosa gli uomini hanno fatto con addosso un foulard ci avrebbe forse pensato meglio prima di sminuirli come indegni sostituti di mascherine, mai e poi mai li avrebbe pensati come soluzione residuale, ultima spiaggia, magro rimedio; altro che “piuttosto che niente, meglio piuttosto”.
“Il tempo è un foulard”, ha scritto qualche anno fa Vittorio Sgarbi sul Giornale, dicendosi assai dispiaciuto per l’estinzione del foulard dal guardaroba maschile (da quello femminile, modestamente, non se n’è andato mai) e spiegando che “il foulard, meglio della cravatta, ordinaria e borghese, connotava un atteggiamento un po’ dandy, snob, ed era sinonimo di eleganza affettata, voluta”. I vezzi di prima, com’erano belli. E però stiano domi i contenutisti e gli essenzialisti, giacché in foulard al collo i garibaldini han fatto il paese (ma che splendido era Alain Delon in giacca rossa e tenuta garibaldina nel “Gattopardo”, tutto merito proprio di quel fazzolettino sul colletto) e certi penitenti trasportano statue di santi, della Madonna e del Cristo morto nei periodi pasquali (tranne quest’anno, perché quest’anno si sta a casa), in Calabria i pellegrini di Bagnara Calabra che si caricavano in spalle la madonna di Polsi per portarla in processione (il “simulacro portatile” lo chiamava Corrado Alvaro), avevano sempre una tuta celeste e un foulard bianco al collo, per significare che erano gente di mare, “ricchi audaci migratori, pescatori accaniti di pescespada e tonni”.
Secondo il London College of Fashion il foulard aiuta l’uomo a guardare la donna che lo indossa dritto negli occhi
E’ in foulard Bob Dylan sulla copertina di Desire, erano in foulard quasi sempre Pavarotti, Truman Capote, Franco Zeffirelli, Mick Jagger, Fred Astaire e nella Hollywood degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta erano in foulard i seduttori, gli omosessuali e gli erotomani. Quando eravamo liberi d’essere superficiali, e inquinavamo il mondo attraversandolo con addosso vestiti straordinari che però non commuovevano quanto fanno ora mandrie di macachi in giro per strade deserte, c’erano perdigiorno che studiavano i nodi maschili per il foulard, che cambiavano a secondo del contesto in cui li si andava a indossare, del colore dell’accessorio, del colore della giacca sottostante, del tessuto della camicia e si scrivevano meravigliose vacuità che a leggerle adesso, per via del senso di colpa che nelle grandi tragedie s’impossessa dei sopravvissuti, sembrano ceffoni in faccia alla Protezione civile, provocazioni inaccettabili, rievocazioni spiritiste di fantasmi vecchi di millenni. Un esempio: “Il volume è il nemico del foulard elegante. Non c’è niente di più effeminato che una spessa nuvola di seta svolazzante da una camicia a collo aperto, soprattutto nel caso non si cerchi di assomigliare a un gangster degli Anni ruggenti”.
Saremo liberi quando potremo tornare a occuparci di ammalianti quisquilie, ed è stato un crimine piuttosto efferato (ma comprensibile, via, siamo in regime emergenziale) sacrificare un pezzo così importante dell’iconografia di quella seducente libertà. A Fontana, come che vada, bene o male o chissà, migliori o peggiori che saremo, non faremo pagare il prezzo di averci tolto dagli occhi Catherine Deneuve con un foulard Hermès in testa, mentre aspetta di imbarcarsi al JFK, fumando una sigaretta infilata in un lungo bocchino. Sarà stata colpa nostra, come tutto.
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