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Il virus e l'uomo nero

Sergio Belardinelli

Quando abbiamo paura, dobbiamo fare i conti con la realtà, ossia con ciò che ci minaccia

La reclusione in casa cui siamo costretti in questi giorni ci restituisce qualcosa che i più fortunati di noi hanno provato da bambini: la noia, il tempo senza tempo trascorso imbambolati a guardarci i piedi dondolanti dal muretto del giardino. E’ lì che sono germogliati misteriosamente i nostri principali pensieri, le prospettive a partire dalle quali avremmo guardato il mondo per tutto il resto della nostra vita. Soprattutto è lì che abbiamo elaborato gli archetipi delle nostre paure, imparando a conviverci, a combatterle, a esorcizzarle: le stesse paure che oggi il coronavirus ingigantisce, mentre sdraiati sul divano dondoliamo a malapena la testa. Allora temevamo le soffitte, le cantine, i sottoscala, convinti che vi abitasse l’uomo nero. Per farci coraggio, vi entravamo fischiettando o parlando da soli ad alta voce. Era una paura senza oggetto; ci si appiccicava addosso in modo quasi paralizzante e scompariva soltanto una volta usciti dalla penombra di quei luoghi inquietanti. Avevamo anche paura che il compagno di giochi ci chiedesse di andare in bicicletta senza mani come sapeva fare lui: una figuraccia che avrebbe distrutto la nostra reputazione, trasformando in un incubo la persistente paura di lasciare il manubrio.

 

Oggi non saprei dire quale di queste due paure fosse più forte. Sta di fatto che già allora era chiara la loro differenza: la prima, nella sua assoluta indeterminatezza, schiudeva il lato oscuro della vita, insieme a una sorta di impalpabile, segreta fiducia che col tempo sarebbe passata; la seconda, per quanto assillante, aveva invece il carattere realistico della sfida. Dipendeva tutto da me. Potevo scegliere di rimanere tappato in casa per tutta l’estate, ma mi sarei dovuto leggere un’intera biblioteca, oppure potevo scegliere di trascorrere ore e ore in cortile, al riparo da occhi indiscreti, nel tentativo di imparare ad andare in bicicletta senza mani (come peraltro feci, conservandone nel tempo profonda soddisfazione).

 

E’ strano, ma in questi giorni di clausura mi capita spesso di associare la paura del coronavirus a queste paure infantili. Ad esempio, mai avrei immaginato che potesse rimaterializzarsi in me la paura dell’uomo nero. Per giunta alla luce del sole e con l’aggravante che il virus, anche lui invisibile, intoccabile, onnipresente, è invece realissimo. Se allora quella paura mi paralizzava, oggi mio malgrado ne vedo quasi il lato salutare. E’ lei che segnala ciò che ci minaccia, che lancia il primo appello alla nostra intelligenza affinché ci tiri fuori dalla brutta situazione in cui ci troviamo. D’altra parte, però, proprio l’esperienza insegna quanto sia difficile agire in modo intelligente quando si ha paura. E allora la mente si confonde.

 

La paura, pur essendo un campanello d’allarme per la nostra intelligenza, di per sé, non ci dice nulla su come certe situazioni andrebbero padroneggiate. Essa tende piuttosto a inibire le nostre capacità. Di fonte all’uomo nero non avevamo scampo, se non, come dicevo, la vaga sensazione che col tempo sarebbe svanito. Ma di fronte al coronavirus possiamo confidare nel lavoro dei medici e degli scienziati. La minaccia ci appare insomma padroneggiabile e questo ne mitiga di molto la portata. Il virus non si vede, ci minaccia, ma con un po’ di fiducia in quello che ci dicono i virologi e un po’ di esercizio di pazienza, abbiamo buone speranze di cavarcela.

 

Scopriamo così che esistono paure intelligenti e paure stupide, paure infantili e paure che sarebbe stupido non avere; soprattutto scopriamo che, quando abbiamo paura, dobbiamo in primo luogo fare i conti con la realtà, ossia con ciò che concretamente ci minaccia. Per fare un esempio, la paura dell’uomo nero può non essere meno intensa della paura che abbiamo di essere contagiati dal virus, eppure, non appena le commisuriamo alla realtà, sentiamo che sono due paure diverse. La realtà è il vero banco di prova delle nostre paure. Proprio per questo diciamo che esistono paure reali e paure immaginarie, rimedi reali e rimedi immaginari. Voler esorcizzare, poniamo, la paura della morte andando tutti i giorni dal medico equivale un po’ a fischiettare in soffitta per paura dell’uomo nero. Ma di certo non sarebbe più “razionale”, migliore, l’atteggiamento di colui che, pur di sopravvivere, quindi per la stessa paura di morire, fosse disposto ad accettare qualsiasi cosa.

 

E così sopraggiungono altri pensieri. Man mano che ci avviciniamo alla fase calante del contagio da coronavirus constatiamo ad esempio l’aumento della paura per le conseguenze che il virus avrà sull’economia; andando avanti diventeranno sempre più evidenti le sue conseguenze sulla politica. Nessuno può escludere che la paura dilaghi per motivi economico-politici più di quanto non sia successo nella fase che stiamo attraversando adesso di fronte al rischio di contrarre l’infezione. In ogni caso, passata l’epidemia, non saranno più gli scienziati, i virologi, a dire che cosa si dovrà fare; dovrà pensarci la politica; quella stessa politica che abbiamo visto all’opera prima che arrivasse il coronavirus. Roba da far venire i brividi. A quel punto, non fosse altro perché sarà difficile stabilire se una paura, un rimedio saranno giustificati o meno, possiamo star certi che la paura diventerà una sorta di arma politica molto di più di quanto non lo fosse prima che scoppiasse l’epidemia. Chi avrà paura pretenderà di avere ragione per il semplice fatto di avere paura. L’ottimismo ingiustificato di ieri, la pretesa di realizzare il paradiso su questa terra, lascerà il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato (ci stiamo già lavorando), tendente a trasformare il mondo in una grande soffitta abitata dall’uomo nero a da uomini paralizzati dalla paura. Una soffitta buia e senza speranza, assai più inquietante di quella conosciuta da bambini, dove finirebbe per essere inibita anche la volontà di imparare ad andare in bicicletta senza mani. Ma per fortuna questi pensieri, proprio perché dettati anch’essi dalla paura e per giunta su un flaccido divano anziché sul muretto infuocato dal sole, saranno sicuramente sconfessati dalla realtà. Magari!

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