L'antivirus è il mattone

Michele Masneri

Fuga dalla città, rifugio in campagna, case sempre più avveniristiche. Che cosa è stato il Covid e quale sarà il nostro modo di abitare dopo la pandemia. Tra prototipi futuribili, invenzioni vere o farlocche, come cambieranno architettura, design e urbanistica nella (nuova) normalità

Andremo tutti a vivere in campagna, come cantava il Poeta? Come cambierà il nostro modo di abitare, la casa e la città, da oggi, dall’inizio cioè della famigerata fase 2, che non è “una fase 1 con le maniche corte” (cit.), ma qualcosa di più serio? Come torneremo cioè alla normalità? Nelle ultime settimane si sono susseguiti appelli e inviti, lettere aperte e manifesti, delle meglio archistar nazionali. Nei giorni del corona, i più noti architetti e urbanisti si sono cimentati in previsioni quasi apocalittiche. Per Stefano Boeri, papà del Bosco verticale, bisogna guardare alle aree interne, ai borghi. Massimiliano Fuksas dice che bisogna ripopolare gli Appennini e abbandonare i monolocali. In realtà le ricerche degli italiani su Internet dicono il contrario. “Non cambierà quasi niente”, dice Immobiliare.it, la più grande piattaforma italiana di compravendita. Ma andiamo con ordine.

 

Città e campagna

Per Stefano Boeri si deve guardare alle aree interne, ai borghi. Massimiliano Fuksas dice che bisogna abbandonare i monolocali

Se c’è un rapporto tra inquinamento e virus, se l’epicentro in Lombardia ha a che fare con la densità abitativa, finora non è provato; ma architetti e urbanisti sembrano tornati al vecchio adagio: è ora di abbandonare la metropoli. Stefano Boeri ha lanciato su questo giornale l’idea di un “ministero della dispersione”, cioè di un coordinamento per quella fuga verso le campagne che in tanti stanno teorizzando, verso quelle “aree interne” che non sono le grandi città. “Se dispersione dev’essere”, ha detto Boeri, “perché non gestirla invece che subirla? Se prendiamo le quattordici aree metropolitane italiane, perché non facciamo in modo che ognuna adotti un centinaio di centri appenninici che stanno in stato di abbandono? Mettiamo le città in rapporto con luoghi non centrali, prendiamocene cura come abitanti delle metropoli. Penso a un gemellaggio, un’adozione. Ci vorrebbe un ministero della dispersione”.

 

Anche Massimiliano Fuksas si è espresso in favore della campagna: in una intervista a Repubblica l’architetto della Nuvola sostiene che bisognerebbe vietare per legge le case più piccole di sessanta metri quadri, e che bisogna andare a vivere nei paesini. “Gli Appennini sono pieni di paesi abbandonati. E’ l’occasione per rigenerarli. La fuga dalla città potrebbe dare linfa a bellissimi luoghi che sono l’identità d’Italia: San Benedetto da Norcia e gli ordini monastici, san Francesco d’Assisi, Dante, Giotto, Urbino, la pittura e poi la transumanza, la lana, la ricchezza dei Medici…: tutto viene da lì”. Già, ma vivere come i Medici oggi potrebbe non essere comodissimo.

 

“Ormai andare a Gubbio è più difficile, psicologicamente, che andare a New York”, risponde Mario Cucinella, architetto che proprio alle aree interne ha dedicato il padiglione da lui diretto nella Biennale veneziana di due anni fa, quella dedicata all’Arcipelago Italia. “Di aree interne se ne parla in maniera molto vaga, anche perché in Italia aree interne vuol dire tutto, dalle Dolomiti alla Barbagia”, dice Cucinella che vive e lavora a Bologna, fuori dalle rotte delle archistar.

 

Che succede al mercato? C’è chi teme lo scoppio di qualcosa di simile a una bolla immobiliare. E invece, pare proprio di no

Ma gli italiani, alla fine, che vogliono fare? “Siamo seri: lei andrebbe a vivere in campagna?” si chiede Carlo Giordano, fondatore e ad di Immobiliare.it, che con la montagna di dati che gestisce può conoscere come nessun altro il polso degli italiani sul real estate oggi. “Mi ricordo trent’anni fa, quando nacque Milano 3, le pubblicità, con tre bambini che correvano nei prati. Ma chi fa più tre bambini oggi? E poi a scuola dove li manda? Preferiamo una bella scuola comoda, a Milano. E non siamo certo disposti a fare un’ora di macchina al giorno”, dice Giordano. “Secondo i dati di Immobiliare.it, in questi due mesi di lockdown non c’è stato nessun cambiamento nelle ricerche delle case degli italiani. Tra gli 8,7 milioni di ricerche che si fanno sul nostro sito non abbiamo notato nessuna fuga verso la campagna, anzi”. E le famigerate aree interne? “Ma Roma è un’area interna di suo. E da Milano uno dove va? Ad Assago? In quei posti che ci metti un’ora di macchina? Poi con la tua, di macchina, perché non ci arriva neanche l’Enjoy. Poi la sera che fai?”.

 

Milano e Roma

E visto che dobbiamo rimanere in città, dove bisognerà andare? Quale il destino di Milano e Roma? La città che prima del Covid era quasi vituperata per la sua affluenza, per il suo destino brillante, che – paiono secoli fa – era addirittura accusata di rubare risorse al paese, forse per invidia. Che le succederà? E Roma, che invece sembrava avviata all’ennesima decadenza? Si fa dell’ironia, il “modello Lazio”: se fosse trovato il vaccino a Pomezia, sarebbe davvero una specie di strano paradosso. Ma intanto: che succede al mercato? C’è chi teme lo scoppio di qualcosa di simile a una bolla immobiliare. E invece, pare proprio di no. Oggi aprono le agenzie immobiliari “e noi abbiamo un sacco di clienti che scalpitano, perché non hanno potuto visitare case nei mesi del lockdown”, dice Giordano. “A Milano non se ne accorgeranno neanche della crisi. Milano ha una domanda doppia dell’offerta. Ci sono tre milioni di persone che vogliono abitarci, il doppio di quanti la città ne può contenere.

  

  

E solo 660 mila case. Perché non si è costruito molto negli ultimi anni. Così il mercato riprenderà esattamente come prima.” Ma i fuorisede, ci si chiede, quelli fuggiti al sud o nei paesi, magari non vorranno tornare nella città traumatizzata e inquinata. “Ma il lavoro sta sempre a Milano”, dice Giordano, quindi dovranno tornare. “E poi ci sono gli studenti. Anzi, dopo due mesi con i genitori, penso che tutti vogliano fuggire e tornare alla libertà della grande città”, scherza l’ad di Immobiliare.it. Meglio il Covid dei genitori, insomma.

 

“Ma se invece di continuare a costruire aree nuove facessimo un’operazione di riuso e di sostituzione? Abbiamo bisogno di case nuove, fabbriche nuove, scuole nuove. Prendiamo quelle che non vanno più bene e le sostituiamo, e avremo l’impatto zero e il consumo di territorio zero” (Mario Cucinella)

E Roma? “Continuerà il trend di prima del Covid, cioè una discesa moderata. Il mercato della capitale è molto diverso da quello milanese. La domanda è crescente, ma è un territorio enorme e difficile, centro e quartieri di lusso rimarranno richiesti, mentre i quartieri poco collegati, che sono molti, vedranno i prezzi scendere ulteriormente”. E nel resto d’Italia come cambierà il mercato immobiliare? “Io prevedo come calo di mercato un 20 per cento annuo, in linea con le previsioni di Nomisma”, dice Giordano. “Mentre sui prezzi sono ottimista, non vedo un calo generalizzato in arrivo. Non credo che i proprietari si metteranno a svendere, insomma”, dice l’imprenditore. Ma tutti quelli che perderanno il lavoro e non saranno più in grado di pagare i mutui? “Sono processi molto lenti”, dice Giordano. “Per adesso sono sospese le rate, poi per arrivare alle foreclosures ci vuole un altro anno. Quindi ne vedremmo gli effetti tra due anni. Inoltre per gli italiani la casa rimane il principale bene rifugio, per cui prima di venderla ci pensano due volte. Se pensiamo che su 10 mila miliardi di risparmio, 6 mila sono di immobili”.

  

Città e case green

Visto che questa fuga dalla città non si verificherà, almeno secondo le ricerche di case degli italiani, che case sognano gli italiani scampati alla quarantena? In che città vogliono abitare? “Si parla molto di green cities e smart cities”, dice Cucinella, “ma nelle nostre città in 20 minuti al massimo le attraversi e ne raggiungi un’altra, e in mezzo c’è il verde. Il green c’è già, eccolo lì. Non c’è bisogno di farlo in città”, dice l’architetto, che ha scritto una lettera aperta insieme all’Ordine nazionale degli architetti, per coinvolgere maggiormente la professione in quella che sarà la ricostruzione post corona.

  

Ma se “costruire green” è retorico, che si può fare? “Bisognerebbe fare una seria rigenerazione urbana”. Non smettere di costruire ma “anzi: possiamo e dobbiamo fare edifici che consumano meno, più efficienti: costruire è un’azione necessaria. Facciamoli col più basso impatto possibile e difendiamo la natura dove la natura c’è. A Milano invece fanno i proclami, il primo edificio con la certificazione, il primo questo, il primo quello… ma se invece di continuare a costruire aree nuove facessimo un’operazione di riuso e di sostituzione? Abbiamo bisogno di case nuove, fabbriche nuove, scuole nuove. Prendiamo quelle che ci sono e non van più bene e le sostituiamo, e avremo l’impatto zero e il consumo di territorio zero”. Cucinella è chiaro. E Giordano è d’accordo. “Abbiamo un patrimonio immobiliare vecchio. Vecchio, intendiamoci, non antico. La maggior parte delle abitazioni italiane è stata costruita negli anni Cinquanta-Sessanta, è inquinante, poco sicura, andrebbe rifatta. Se le città decidono di eliminare le auto euro 3, faccio un esempio, perché non si può fare anche con le case? Invece al massimo per le case ti fanno cambiare gli infissi. Servirebbero incentivi. Paghi più tasse se la casa è vecchia e non sicura. Ma non c’è questa cultura del buttare giù e ricostruire, anche perché l’Italia è un paese di piccoli proprietari”.

 


La casa che cambia, dentro. Il mercato nelle grandi città. Abitazioni troppo grandi o troppo piccole. La necessità di una “rigenerazione urbana”. E architetti e designer che si stanno sbizzarrendo per gli interni


   

Poi c’è un altro problema: “Ci sono un sacco di case troppo grandi dove nessuno va più ad abitare, appartamenti enormi con cinque camere da letto, che potrebbero essere divisi per creare ciò che la gente cerca, cioè bilocali e trilocali: chi ha più cinque figli?”, si chiede il boss di Immobiliare.it.

 

Questo dei bi-trilocali è un punto interessante: come è cambiata, ci chiediamo, la richiesta e la ricerca degli italiani chiusi a casa nella pandemia? L’immobiliarista collettivo suggerisce che tutti stiano dando la caccia ai terrazzi e ai balconi, diventati spazi vitali durante il lockdown. “Balle”, dice Giordano. “Certo”, continua, “siamo diventati tutti molto più attenti agli spazi; abbiamo vissuto tanto in casa; dunque quando vorremo una casa nuova vedremo con sfavore gli ingressi inutili, che portano via metri quadri, avremo imparato che è più importante un salotto grande e una camera da letto piccola. D’improvviso i miei 229 dipendenti, che hanno lavorato in smart working, mi dicono ‘ah, sarebbe bello avere uno spazio in più, una stanza dove avere il tavolo per il computer, senza appoggiarlo su quel tavolino che ti spezza la schiena’, anche perché credo che lo smart working rimarrà nella nostra cultura”. Però poi “sanno di non avere abbastanza soldi”, e al momento della verità “le ricerche non sono cambiate minimamente rispetto a prima. Gli italiani continuano a cercare trilocali, ma poi comprano il bilocale perché costa meno, questo ci dicono i dati”. Niente terrazzi o giardini. “Segno che gli italiani sono diventati più prudenti con la pandemia. Non si mettono a sognare a occhi aperti. Chi vuole il terrazzo sa che costa. E chi aveva i soldi per comprarlo se l’era già comprato prima della pandemia”. “C’è poi molta gente che sarebbe fuorilegge se fosse approvato il progetto di Fuksas, quello dei 60 metri quadri di casa minimi”, scherza Giordano. “E’ incredibile come non sia venuta in mente prima a nessuno, che le case piccole non sono il massimo!”.

  

“Siamo diventati tutti molto più attenti agli spazi; abbiamo vissuto tanto in casa; dunque quando vorremo una casa nuova vedremo con sfavore gli ingressi inutili, che portano via metri quadri, avremo imparato che è più importante un salotto grande e una camera da letto piccola” (Carlo Giordano)

Però, seriamente, qualcosa è cambiato nella ricerca della casa in questi mesi. “C’è stato un calo, quello sì. Abbiamo mandato un questionario a tutti i nostri iscritti: avete cambiato idea sul progetto di comprare casa? In quattro ore abbiamo avuto ventimila risposte. Il 31 per cento ha risposto sì. La ragione, però, è che gli italiani temono di perdere il lavoro, e dunque di non essere più in grado di prendere un mutuo. Il problema vero è dunque l’accesso al credito. Normalmente la banca ti dà il 70 per cento dell’importo, il restante 30 lo devi mettere tu. A Milano l’immobile medio normale costa 340 mila euro, il 30 per cento sono 100 mila, la giovane coppia che cerca casa non ce l’ha. E poi oltre al 30 per cento la banca vuole garanzie. E in questo momento storico, se tu magari lavori in un bar o ristorante o impresa che è chiusa, chi ti darà mai una garanzia? Quindi non comprano, e così per paradosso vanno in affitto, e generalmente pagano di più. Allora abbiamo pensato a una proposta: visto che in questo momento tutte le categorie chiedono qualcosa al governo, anche noi chiediamo, anzi proponiamo una cosa: come il governo dà garanzie ai prestiti alle imprese, potrebbe garantire i mutui al 100 per cento. Se tutti potessero avere un mutuo al 100, con lo stato garante, sarebbe un’operazione in cui tutti vincono. Le banche perché aprono nuove posizioni, lo stato, perché entrano tasse di proprietà, e i cittadini che si comprano casa. Oltretutto per lo stato sarebbe molto meno rischioso che prestare alle imprese: poiché qui c’è l’immobile a garanzia”.

 

Visite virtuali

Ma visto che oggi riprendono a lavorare le agenzie e riprende il gran sabba immobiliare, “una cosa che è cambiata e forse cambierà per sempre sono le visite agli immobili”, dice Giordano. “Prima solo il 20 per cento delle agenzie permettevano di fare una visita virtuale, adesso lo fanno quasi tutti, anche perché i primi a non voler tanta gente per casa sono i proprietari, che non vogliono sconosciuti in giro: anche perché le visite si sa, uno ci va coi figli, l’amico architetto e il cugino muratore, e magari ne fa tre. Una folla. Pensi che gli annunci dei privati sono calati del 50 per cento in questi due mesi, perché non vogliono estranei in casa. I privati si sono messi paura. Quando vedi qualcuno per la strada che si avvicina ti viene spontaneo di spostarti. Pensa averli in casa”. “Anche il cosiddetto turismo immobiliare si ridurrà”, dice Giordano. (segue a pagina tre)

     


Foto di Qusai Akoud via Unsplash


    

“Il numero delle visite fisiche si ridurrà di molto. Una cosa che mi chiedono le agenzie è di comunicare da quanto tempo un cliente sta cercando attivamente casa; per capire se uno fa sul serio o no. Se sono cinque anni che smanetta sul sito, è facile che sia il cosiddetto ‘perditempo’, anche se è una cosa un po’ da Grande Fratello che non mi trova molto d’accordo”.

 

Di sicuro però gli 8,7 milioni di ricerche consentono a Immobiliare.it di essere una grande Spectre che spia nel bene più amato degli italiani: la casa. “In questi due mesi il traffico è sceso solo del 20 per cento, da 2,2 a 1,9 milioni di visitatori unici al mese. Perché ci sono pochi annunci nuovi, è come se tu giornalista non pubblicassi pezzi nuovi per un po’, e allora io lettore magari vado a cercare tuoi vecchi articoli ma dopo un po’ mi stufo e non ti leggo più. Così abbiamo trovato un sistema, grazie all’algoritmo: vediamo se sei stato attivo nell’ultimo mese, e se sì andiamo a vedere non solo le ricerche che hai salvato, ma anche le caratteristiche degli annunci che hai visitato, e ti spediamo automaticamente una mail con altri annunci simili che magari ti erano sfuggiti”.

  


Un progetto innovativo di sanificazione per vestiti. E il gancio di gomma per non toccare con le mani le superfici. L’ospedale in forma di container componibili. Come cambieranno il carrello e l’architettura della spesa. Diventeranno plausibili i negozi senza cassieri, il supermercato per un cliente alla volta


 

Dentro le case

Ma ora che abbiamo una casa, cosa ci mettiamo dentro? Architetti e designer si stanno sbizzarrendo. Lo studio Carlo Ratti Associati ha presentato un progetto innovativo di “sanificazione” per vestiti, per usare l’orribile neologismo covidico, si chiama “Pura-case”, una specie di armadio-porta abiti che grazie all’ozono purifica e sterilizza gli abiti (per ora un prototipo). “Mentre il mondo si prepara ad abituarsi a nuovi standard in termini di salute ed igiene, Pura-case si propone di realizzare standard di igienizzazione come cardini tra noi e l’ambiente circostante”, ha detto Ratti. “E’ un’alternativa a strumenti molto più grossi che vengono utilizzati negli ospedali. Può avere un ruolo centrale nel mondo che ci attende, quello in cui riguadagneremo la nostra vita sociale”.

  

“Per il design italiano serve un ripensamento. I mobili non venderanno per un bel po’. A nessuno interessa comprarsi mobili, al momento. Più importante è salvaguardare la filiera produttiva. E oggi si rischia di perdere una cultura del fare”, dice al Foglio il designer Aldo Cibic, allievo di Ettore Sottsass

Un altro strumento anche più semplice è “Handy”, un progetto open source per una specie di gancio di gomma per aprire porte, digitare sul bancomat, prendere le buste della spesa, una serie di attività che si possono fare senza toccare con le mani altre superfici. E’ il progetto di Matteo Zallio, un designer italiano di stanza a Stanford. Stampato in 3D, può essere di gomma oppure anche di cartone. Insomma, la fantasia dei designer si potrebbe sviluppare molto nei prossimi mesi soprattutto perché ci saranno interi settori da reinventare, basta pensare all’aerazione, al disegno dei luoghi di lavoro, agli ascensori.

  

E gli ospedali: Ratti, insieme a Italo Rota grazie a Unicredit ha realizzato “Cura”, acronimo di Connected Units for Respiratory Ailments, un sistema di unità intensive componibili a container che si montano e si smontano come Lego. “E’ un progetto in open source, che chiunque può dunque prendere e usare” ha detto Rota al Foglio.

 

“L’abbiamo studiato anche per proteggere il personale sanitario ed evitare il contagio tra i medici, non solo tra i pazienti. E’ un oggetto molto complesso tecnologicamente”, dice l’architetto. “Negli ospedali capisci molto. Trovi molta umanità e sostegno. E tanta tecnologia. Un ospedale di oggi rispetto a un ospedale di trent’anni fa è molto diverso. Anche con le degenze; oggi ti fanno cose incredibili e dopo tre giorni sei già fuori”.

 

Foto di Blake Wheeler via Unsplash


  

Per il design italiano la pandemia pone sfide, anche, di sistema: “Quello che sta succedendo”, dice Rota, “è più profondo: tutti stanno valutando gli oggetti che hanno in casa: funzionano, li hanno pagati troppo, vanno davvero sostituiti? Cambierà completamente il panorama. E ci sarà un grande problema anche col Salone del Mobile di Milano. Ma non per gli slittamenti”. Secondo l’architetto milanese la crisi è più profonda. “Ci saranno proprio aziende, anche famose, che non riapriranno”. Un po’ per la crisi di adesso, un po’ anche perché il settore andrebbe ripensato con nuove idee. “Prendono vecchi pezzi, li aggiornano alle nuove normative, e li rimettono sul mercato. Ma uno alla fine si comprerà sempre l’originale, ed è normale, perché una certa sedia a quei tempi rappresentava il top del design. Ma oggi il top del design non sta certo nei mobili. Sta nell’elettronica”. “Così oggi – dice Rota – devi essere seduto su una poltrona degli Eames degli anni Cinquanta, con l’ultimo modello di iPhone in mano. Non conta che la sedia sia dell’anno scorso”.

  

Anche Aldo Cibic, designer famoso nel mondo, allievo di Ettore Sottsass, è d’accordo. “Per il design italiano serve un ripensamento”, dice al Foglio. “I mobili non venderanno per un bel po’. A nessuno interessa comprarsi mobili, al momento. Più importante è salvaguardare la filiera produttiva. “Io viaggerò molto meno, starò molto di più in Veneto, dove ho casa. Negli ultimi anni ho esplorato molto, ho lavorato e vissuto in California nella Silicon Valley, poi in Cina, ma adesso mi interessa molto di più stare in Italia, vedere le possibilità di sistemi produttivi come quello del Friuli Venezia Giulia”, dice Cibic. “E anche qui però saltano fuori le criticità: ormai il mondo del design italiano è in mano ai fondi di investimento. Ed è un cambiamento che a volte è negativo. Quando si ragiona per numeri e non per prodotti, i manager prendono decisioni che rischiano di bruciare la cultura aziendale di imprese italiane gloriose, non hanno la sensibilità di capire e aiutare la filiera”. “Si rischia di perdere una cultura del fare”, dice Cibic. “Una cultura che è parte fondamentale del made in Italy. I designer internazionali hanno sempre apprezzato il tessuto italiano perché consentiva che tu, designer, facessi uno schizzo, poi il lavoro proseguiva insieme all’imprenditore. Ai tempi di figure come Cesare Cassina o Pierino Busnelli, il design italiano è nato così: Vico Magistretti faceva un disegno e poi andava in azienda, e l’imprenditore ti diceva ‘fai l’angolo così, fai la gamba del tavolo in questo modo’, perché l’imprenditore era parte integrante, c’era un rapporto personale”. Adesso invece ci sono grandi capitali pronti a portarsi via tante realtà, e questo sarebbe un disastro, perché trasformerebbe molti marchi italiani in terzisti”. Bisogna che lo stato si impegni a “non far morire un sistema che è sofisticato e delicato”, dice Cibic. Invece si percepisce un certo scollamento tra chi governa e il made in Italy. Servirebbe un comitato anti predatori per difendere il sistema”.

 

Nel frigorifero

E nei nostri frigoriferi di casa nostra cosa ci sarà? Come cambieranno i consumi? “Due fenomeni guideranno il cambio del carrello: una minor disponibilità di soldi e una evoluzione dei gusti dei consumatori verso i prodotti più salutari come frutta e verdura, fenomeno che era già in atto anche prima del Covid 19”, dice al Foglio Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad. “Si rafforzerà anche il bisogno di sicurezza e la ricerca della garanzia offerta dalle grandi marche commerciali, tra cui sono ormai stabili anche le Mdd (marche del distributore). Chi non avrà soldi si rivolgerà ai discount, ma penso che il risparmio che si farà con la riduzione di altri consumi consentirà alla gente di acquistare i prodotti delle marche e delle insegne che meglio conoscono”. Inoltre per Pugliese , si consumeranno più prodotti “dei territori, con un maggior rispetto della stagionalità”. “Si ridurrà poi il consumo dei prodotti che sono in pieno boom da lockdown, come la farina e il lievito, lo scatolame e i surgelati”. “Nel non food, diventerà stabile l’interesse per prodotti per la sanificazione e la protezione di casa e persone, come alcool e disinfettanti”.

   

Uno degli aspetti più interessanti poi è come cambierà l’architettura della spesa: una volta tanto quando si dice che le conseguenze si sono sentite sui “mercati” non si intendono lo spread e le Borse ma proprio il mercato sotto casa. Abbiamo visto file enormi davanti ai supermarket tradizionali, ricorso di utenti “newcomers” alla spesa online (che non regge il sovraccarico) e riscoperta dei negozietti locali, che sembrano i veri vincitori della pandemia. Progetti considerati visionari all’estero cominciano a diventare plausibili: i negozi Amazon Go, quelli senza cassieri, che da qualche anno hanno aperto negli Stati Uniti, con vari sensori e la possibilità di pagare con la app, senza dover scaricare la merce alla cassa. O il progetto del fondatore di Uber, Travis Kalanick, che, cacciato dall’azienda per essersi comportato male in tema di MeToo e dintorni, aveva salutato per fondare una sua compagnia di “ghost kitchen”, cioè di ristoranti senza sala, che cucinano ad alto livello per riders che poi trasportano i piatti a casa degli acquirenti (sembrava l’idea di un disperato, adesso mica più tanto).

   

Si consumeranno più prodotti “dei territori, con un maggior rispetto della stagionalità. Si ridurrà poi il consumo dei prodotti che sono in pieno boom da lockdown, come la farina e il lievito, lo scatolame e i surgelati. La crisi ha accelerato l’e-commerce, un movimento già in atto” (Francesco Pugliese)

Adesso arriva anche il supermercato singolo, studiato per un solo cliente alla volta che si trova circondato dalle merci in perfetta solitudine, dall’entrata all’uscita. Questa trovata però non è stata realizzata, non ancora almeno; è la provocazione di un giovane architetto, Fabrizio Esposito, che sul suo Instagram l’ha postata già a febbraio. Esposito, 26 anni, napoletano che lavora in uno studio di Amburgo (ma in questi giorni è quarantinato nel capoluogo campano), racconta al Foglio di essersi ispirato al radical design e a quei “monumenti continui” e a quel ciclo “Italia Vostra” con cui il gruppo di architetti fiorentini negli anni Sessanta aveva proposto soluzioni surreali per le grandi città italiane (Venezia carrabile con coperture di plexiglass, eccetera). “Ovviamente in una scala molto più piccola rispetto ai monumenti continui, una dimensione adeguata all’epoca e alla crisi che stiamo vivendo”, dice. L’idea di un supermercato singolo gli è venuta già a febbraio, “e sembrava ovviamente un’assurdità, ma in situazioni assurde come oggi l’assurdità potrebbe diventare normale”, dice Esposito.

   

Chi invece progetta “veri” supermercati, sta già cambiando: “Dovremo ripensare gli spazi di vendita e i servizi per i clienti”, dice Pugliese di Conad. “Avevamo già iniziato a ridisegnare le grandi superfici e a potenziare i negozi di prossimità, ora dovremo anche ragionare sulla disposizione delle merci nei negozi, sui metodi di pagamento per evitare code alle casse, sulle modalità di regolazione del numero di persone in negozio, evitando code in entrata. Poi dovremo pensare a come riorganizzare i magazzini e tutta la logistica per avere sempre disponibili i prodotti più richiesti”.

    

Intanto è cresciuto di brutto l’e-commerce: “La crisi ha accelerato un movimento già in atto. Tre mesi fa vi avrei detto che l’e-commerce nell’alimentare sarebbe arrivato a pesare per il 5 per cento del totale in dieci anni. Oggi vi dico che ci arriveremo in tre anni”, continua Pugliese. “Ma non credo che, fatta eccezione per qualche area metropolitana, possa arrivare a superare questa dimensione. Durante questa crisi abbiamo visto che i consumatori sono diventati digitali, ma abbiamo anche visto come siano impazienti e come i ritardi nelle consegne possano avere un impatto negativo sulla reputazione dell’insegna”.

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