Pane, amore, fantasia
Impastare, sfornare, pubblicare sui social. Il nuovo movimento di unità nazionale è la pagnotta. E il lievito madre è la catarsi post quarantena
E’ inutile negarlo, siamo circondati. Mentre la fase due pare sarà uguale alla fase uno ma con le maniche corte (cit.), ciò che accomuna tutti, nei monolocali o sui terrazzi, è il pane. Su Instagram si vedono solo focacce, su WhatsApp le foto di parti anatomiche che un tempo si ricevevano con piacere o sdegno sono state sostituite improvvisamente da multicereali autoprodotti.
Al telefono dalla campagna bresciana mio padre mi dice: “Finalmente sono arrivate le farine!”, da un suo gruppo di acquisto segreto; mio fratello Matteo, che fa il cuoco, è blindato invece in città, e sta sfornando pure lui. E’ un impastatore riflessivo: secondo lui fare il pane durante il lockdown è l’attività ideale poiché ha una sua ritualità, tempi contingentati: l’impasto, la lievitazione, la cottura, e infine un bel prodotto da esporre su Instagram.
Poi, visto che non possiamo abbracciare nessuno a parte i congiunti, c’è tutta una fisicità nel maneggiare quella pasta che cambia forma e stato. Melissa Panarello, la celebre autrice di “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”, adesso non spazzola ma impasta pure lei, però, ammette che le escono sempre pagnotte “a forma di cazzo” (e fornisce prova fotografica).
C’è da sempre del resto tutto un immaginario erotico dietro il pane, ci aveva già pensato Fantozzi con lo sfilatino di un affetto non stabile della signora Pina. Ma adesso Instagram amplifica tutto: oltretutto mentre gli influencer generalisti sono in sofferenza. La mancanza di fashion week e design week e saloni e controsaloni ha minato infatti tutta la morfologia della fiaba dell’influencer, che non può più neanche spendersi in weekend promozionali in hotel conniventi alle prese oggi coi termoscan e i plexiglas. Rinchiuso in casa con la ricrescita e i brufoli in assenza di estetista, l’influencer generalista soffre, e perde rilevanza. Invece, secondo Forbes, siamo ufficialmente nell’epoca dei “bread influencers”. L’hashtag #bread è utilizzato 30.000 volte ogni 36 ore. Su Twitter, 80.000 volte al giorno, il doppio rispetto alla prima metà di marzo.
Visto che non possiamo abbracciare nessuno a parte i congiunti, c’è tutta una fisicità nel maneggiare quella pasta
Fabio Volo propone su Instagram la ricetta per il pane ferrarese. “Il pane non dovrebbe mai diventare simbolo di produzione ma sempre e solo di comunione”, dice Volo, discendente da una stirpe di panettieri, introducendo un tema fondamentale: che il pane in questi giorni di lockdown ha assunto anche una valenza politica.
Ecco allora che la sera del 25 aprile, preso da un raptus di ribellione, ho violato il coprifuoco e mi sono avventurato per andare a trovare una mia amica nel quartiere. Mi sono messo la tuta, così, se fossi stato sorpreso dalle volanti e camionette dell’esercito che numerosissime pattugliavano piazza Vittorio, avrei potuto dire che esercitavo il mio diritto alla attività fisica. Quindi, dotato di mascherina e autocertificazione, con emozione, mi recavo dalla suddetta amica. La quale stava sfornando, pure lei, dei pani con farine rarissime di pane saraceno integrale. Degustammo quei panini sul balcone non senza timore che gli almeno tre elicotteri che sorvolavano il quartiere a bassa quota tipo Apocalypse Now ci centrassero con dei missili aria-aria (“adoro il profumo del glutine alla sera”); con la consapevolezza che saranno momenti e sapori che ci ricorderemo e racconteremo ai nipoti da vecchi. La sera, col favore delle tenebre, dopo aver consumato i panini della Liberazione, e con orgoglio misto ad allarme nel cuore, rientravo presso la mia abitazione, camminando rasente i muri, tipo staffetta partigiana, eccitato dalle grandi quantità di farinaceo ingurgitato, lesto a evitare i checkpoint.
Linee lente, aree interne, bassa densità. E pane: è chiaro che l’uomo del momento, colui che deve gestire la fase 2, è Gabriele Bonci
E quel giorno, mentre post o proto-fascisti si ribellavano alle celebrazioni, mi appariva chiaro che con la pandemia il pane è diventato l’unico fattore unificante: nel paese in cui i balconisti odiano i runners, i runners odiano i portatori di cani, i portatori di cani odiano i portatori di bambini, e i virologi si odiano tra di loro, la panificazione è l’unico grande momento di conciliazione nazionale.
Non solo sono scomparsi celiaci e gluten free, infatti, ma si è smesso anche di litigare su quali farine siano corrette e quali invece no. E qui non si può sfuggire alla figura del Senatore Cappelli, austero politico-diplomatico dell’Italia degli anni Dieci, in onore del quale e nelle cui terre venne sperimentata cent’anni fa quella particolare qualità di grano che dal Ventennio ha costituito l’orgoglio del pane e della pasta italici. Mussolini onorò quella farina nutriente che doveva sfamare la patria, coltivata inizialmente dal marchese-senatore (poi venne la battaglia del grano). Figura, quella di Cappelli, come si dice divisiva.
Ci si ricorderà infatti, prima della pandemia, che polemiche, che confusione, che attriti, a tavola. Ognuno tifava la sua farina preferita, e poteva capitare di mangiare un piatto di spaghettoni o spaghettini (nelle carte i ristoranti dabbene hanno ormai solo l’accrescitivo o il diminutivo) appunto “Senatore Cappelli”, con la consapevolezza di trovarsi dunque in un locale comme il faut: ma il giorno dopo, in un altro locale, si poteva invece sentire la frase “ah, ma quelli usano la farina Senatore Cappelli”, come dire, “ma ci danno da mangiare il pangolino!”. Si sentì, anche: “Lo sanno tutti che la Senatore Cappelli ha compiuto un olocausto dei grani antichi!”, olocausto addirittura. La Senatore Cappelli era antica, almeno liberty, ma c’è sempre qualcuno più antico di te. E qui si entra nel territorio misterico dei “grani antichi”, grani pre-senatorii, pre-unitari, dunque ispirati alla bella identità territoriale dell’Italia dei comuni, delle “aree interne” dove oggi tutti dovremmo andare ad abitare.
Sul primo numero di “Pantagruel”, rivista della Nave di Teseo, dedicato proprio al pane, c’è un racconto di Gaetano Cappelli, scrittore e omonimo (ma non parente né congiunto) dell’unificatore delle farine nazionali, e fa molto ridere; narra di una famigliona del Sud più decadente, che per risolvere il problema di una discendenza impoverita e grulla decide di cambiare destinazione d’uso al palazzo avito già avviato ad associazione culturale, tra i Sassi di Matera. Ovviamente la scaltra capofamiglia a capo dell’operazione, donna Giuditta, che coglie lo zeitgeist meglio degli altri, sa già cosa farne: “Un grande forno, tecnologico e shabby, la cattedrale del pane, un inno perenne alla civiltà contadina”, una “ipertecnologica cattedrale che con spedizioni istantanee porterà il famoso pane di Matera in tutto il mondo”, in modo che la prosapia scalcagnata potrà “diventare ricca in modo equo e solidale”. Tutto sembra andare per il meglio, quando l’astuto amministratore di casa che si chiama Papagiovanni e vorrebbe mettere le mani sull’immobile solletica le corde più civiche della famiglia (famiglia assai antifascista, la nobildonna ha pure avuto una liaison nientemeno che con Carlo Levi): ricorda così che alla base del pane di Matera c’è proprio il grano Senatore Cappelli, che fu voluto appunto dal Duce. A quel punto, di fronte al richiamo civile, si rinuncia al pur interessante business plan.
Non solo sono scomparsi celiaci e gluten free, ma si è smesso anche di litigare su quali farine siano corrette e quali invece no
Adesso invece, davanti alla pagnotta pandemica, è cessata ogni polemica. Semmai, sorgono altri interrogativi. Il racconto di e su Cappelli si intitola “Mater panis”, e incrocia un’altra esiziale faccenda, anche relativa a Papagiovanni: sarà il pane e la sua sostanza originaria, il lievito, madre, o non invece padre, visto che è “il”, maschile, per di più? La faccenda non è affatto scontata. Su Repubblica Paolo Rumiz traccia un diario della sua resistenza covidica, in cui la panificazione ha un ruolo centrale. “Pane e poesia, le nuove armi della resistenza”, titola un pezzo. “Fare il pane non è un lavoro”, scrive Rumiz. “E’ un rito, fatto di attesa e cura amorevole. Per non parlare dell’incubatrice, della gravidanza, e del parto di quella creatura calda tra le mani, cui manca la parola. Impastare, che godimento: specialmente ora che non puoi toccare anima viva e tra te e il mondo ti hanno inflitto un’intercapedine di caucciù. E poi, quella trepidazione guardinga che ti dà il rapporto con il Grande Fecondatore, il lievito madre, che non a caso lo chiamano ‘madre’ anche se è maschile. Levare... e tu ti senti levatrice”.
Qui tra fecondatori, levatrici, impastamenti, è tutta una roba gender fluid e incestuosa degna del Gadda più contorto ed edipico. Come la questione di Dio che è anche madre, che non portò bene a Papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani. Nel 1978, appena eletto, affermò nello sconcerto generale: “Dio è papà; più ancora è madre” (e poco dopo perì, misteriosamente).
Ma tornando a noi, oggi è chiaro che la panificazione è civile o non è. Nel “manifesto del pane coraggioso” che trovo in Rete, ecco una serie di interrogativi “necessari”: “Cosa sai del pane che mangi tutti i giorni? Del pane che ti danno al ristorante o che servono ai tuoi figli a scuola? Cosa sai di quella farina, di quel grano?”; si chiede quel manifesto, che potrebbe prestarsi a essere la nuova Costituzione repubblicana della fase due o tre: al primo punto: “Recuperare: Abbiamo recuperato e selezionato sementi antiche, quasi dimenticate, abbandonate dal mercato perché poco produttive e con un glutine troppo debole”; (il glutine troppo debole in questa nuova costituzione repubblicana ha le fattezze degli ultimi); poi “mescolare”, “Abbiamo mescolato tra di loro diverse varietà lasciandole libere di incrociarsi, sostenersi e adattarsi spontaneamente al cambiamento del clima, obbedendo solo all’intelligenza della Natura” (mentre la questione dei migranti è stata prontamente accantonata, le farine libere e antiche sono diventate i nuovi migranti). I nuovi partigiani poi saranno “agricoltori giovani e consapevoli, liberi dal giogo delle multinazionali del seme e della chimica, che le coltivano rispettando la nostra idea di agricoltura pulita”. Poi, però, “liberati dall’obbligo innaturale del lavoro notturno, perché secondo noi sia il pane che il fornaio di notte devono riposare”, e qui si fondono le istanze del negozio chiuso la domenica e del santificare le feste, in un compromesso tra precetti della sinistra e della Chiesa degno dei padri costituenti.
A questo punto però è chiaro che serve un leader a questo nuovo movimento della panificazione nazionale; e chi meglio di Gabriele Bonci, “panettiere e pizzaiolo tra i più celebri del pianeta” come lo definisce la rivista del Gambero Rosso. “Enfant prodige dell’ultimo quindicennio. Inventore della pizza al taglio gastronomica. Volto televisivo. Seguitissimo esempio e ormai maestro per schiere di giovani artigiani e punto di riferimento insostituibile per un network arrembante di contadini, allevatori, casari, agricoltori”. Ha “aperto il Pizzarium, una serie di panifici a Roma, punti vendita in Nord America”.
Bonci lo sto corteggiando da anni, gli ho scritto varie volte sul sito ma non risponde: finalmente son riuscito a trovare un ufficio stampa che mi mette in contatto col suo ufficio stampa, ma lì, prima lunghe trattative – “se vuole potrei farla parlare con uno che è un suo allievo, della scuola di Bonci”, tipo gli allievi del Giorgione (il pittore, non l’oste televisivo). Ma no, vogliamo il maestro, osiamo, puntiamo al massimo, dunque ce l’ho quasi fatta per un’intervista telefonica; le trattative continuano frenetiche; “lunedì no, lunedì il maestro impasta”, mi dicono. Poi abbiamo quasi chiuso per martedì, ma il giorno prima il suo ufficio stampa dice che Bonci ha la febbre, e annulla tutto, mannaggia.
Il manifesto del “pane coraggioso”. A questo punto serve un leader a questo nuovo movimento di resistenza
Bonci è tatuato e barbuto, come si addice alla figura del sexy panettiere, che ha sostituito quella del sexy chef. Sempre secondo il Gambero Rosso (l’house organ dei nuovi partigiani, altro che il nuovo giornale di sinistra che vorrebbe De Benedetti), Bonci è andato sui monti, abbandonando la città, dunque con tempismo perfetto per questa sfida anche urbanistica del Covid, coi meglio architetti che dicono che insomma la città è morta, finiremo tutti nelle aree interne o borghi o insomma in campagna. Bonci si è dato alla macchia e lo si immagina in un mulino, come Alberto Sordi in “Una vita difficile”. Sta lì, in cattività, partigiano del lievito madre (o padre). Lì, ai fortunati intervistatori che l’hanno braccato, raccontava, meglio di un Rem Koolhaas e di qualunque archistar, che “qui ho trovato i ritmi, qui ho trovato le stagioni, ho trovato il paese. Qui c’è tutta la verità che serve alla nostra professione. Qui c’è solo avanguardia. Altro che la falsa avanguardia di Roma”. La verità l’ha trovata a Careggine, “simbolo dell’Italia delle aree interne”, paesino sulle Alpi apuane, lontano anche da una stazione ferroviaria che consente di raggiungere Milano o Roma “su linee lente” (perché la linea ferroviaria dev’essere lenta, come la lievitazione).
Linee lente, aree interne, bassa densità. E pane: è chiaro che è l’uomo del momento, è colui che deve gestire la fase due. Bonci “immerso tra questi boschi di castagno, leccio e conifere” rappresenta insomma lo scenario venturo, quello in cui tutti abbandoneremo le città italiane ormai disabitate perché i negozi saranno falliti e i ristoranti pure, e ci troveremo sui monti. Ma intanto nel suo rifugio Bonci progetta “un grande laboratorio con produzione, accademia e tutto il resto. Un edificio in bioedilizia, trasparente, vetro e legno. Deve diventare la casa di tutti i panificatori del mondo che la pensano in un certo modo. Possono venire qua, confrontarsi con la montagna, panificare utilizzando le erbe spontanee e le acque delle nostre sorgenti”. Queste cose Bonci le diceva un anno fa, poi ci ha ripensato ed è tornato a Roma, e ha aperto una friggitoria di pollo, ovviamente “sociale” e “gourmet”; però prima che riparta per qualche area interna sarebbe il caso di affidargli subito la fase due: o almeno facciamogli affiancare Conte nelle sue conferenze stampa serali, impastando. Gioverebbe alla comunicazione: comunque, è chiaro che è lui il padre della patria (e anche, volendo, la madre).
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