La scena della "pioggia di rane" in Magnolia, un film drammatico del 1999, scritto e diretto da Paul Thomas Anderson

La fine psicologica della pandemia e il senso di noi umani per il rischio

Simonetta Sciandivasci

Non buttiamo le buone abitudini che abbiamo preso e adattiamoci

Tutte le epidemie finiscono, ognuna a modo suo. I virus s’attenuano, scompaiono, ricompaiono, vengono sconfitti; i contagi scemano, i morti anche. E questa è la “fine medica”, alla quale concorrono la scienza (i vaccini, le cure) e il caso (le mutazioni dei virus). Può intanto accadere che i virus vengano dimenticati, così che a scemare sia la paura di contrarli, e questa è la “fine sociale”: ci si stanca delle precauzioni, si va incontro al rischio, si torna alla vita di sempre. Naturalmente, questa seconda condizione è possibile solo quando si sia configurata una situazione simile alla nostra, e cioè quando l’incidenza dei contagi si disponga su una curva asintotica.

 

La nostra seconda fase, se fatta bene, potrebbe essere propedeutica alla fine sociale del coronavirus. Dobbiamo augurarci, in sostanza, che convivere con il nemico sortisca il medesimo effetto che sortisce convivere con chi amiamo: l’abitudine, che non è sempre e soltanto il prologo di un amore che trascolora. Franco Locatelli diceva ieri a Repubblica che gli italiani stanno continuando a mostrare comportamenti molto consapevoli e disciplinati, che “ormai, indossare mascherine è un riflesso incondizionato”. E questa è una conseguenza positiva di quell’abituarsi.

 

Poi ce n’è un’altra, cruciale per la fine medica, ma più rischiosa, che è stata ben evidenziata dal New York Times: a un certo punto, delle misure restrittive potremmo stancarci, potremmo credere, e non a ragion veduta, che ne abbiamo abbastanza e meritiamo di tornare alla nostra vita di sempre. In questo senso, ragionare non su quando finirà la pandemia (è complesso stabilirlo, forse addirittura impossibile) ma su come, può aiutarci a evitare di cedere all’istinto, che per parte sua può indurci a reagire per esasperazione o per ottimismo, che è anch’esso un prodotto istintuale. La storica Naomi Rogers, accademica di Yale, ha detto al New York Times che sta già configurandosi, nelle persone, un conflitto tra questi due estremi, e che a portarlo in essere in modo piuttosto critico è in primo luogo il timore della catastrofe economica e finanziaria. Come ne veniamo fuori? Come da tutto, nella vita: con equilibrio – bella sfida in tempi di emotività come i nostri, e come si fa poi a non dire che questo virus ci conosce da vicino, e che per sconfiggerlo dovremo superare un immane stress test psicologico.

  

Potrebbe succedere che il Covid non venga debellato, ma questa non è un’evenienza che deve terrorizzarci: anche la peste non è mai stata debellata, ogni tanto qualche pulce contagia un essere umano e non succede per forza che da lì si accenda un focolaio. Dobbiamo elaborare, allora, una coscienza del rischio, e mettere in conto che tornare alla normalità comporterà un’esposizione al contagio, così come uscire e vivere hanno sempre comportato un’esposizione a incidenti più o meno gravi. La fase due non è soltanto la fase della responsabilità personale intesa nel modo poliziesco e auto inibitorio che abbiamo discusso finora. La fase due è quella nella quale dobbiamo tornare a uscire accettando, e cioè dimenticando, che potrebbe cascarci la proverbiale tegola in testa. Sapete com’è: vivere, prima o poi, uccide, e questo è il solo dato certo che abbiamo.

 

Scriveva nei giorni scorsi The Conversation: “La nostra specie si estinguerà? Risposta breve: certo che sì, ma la domanda non è tanto se, bensì quando”. La buona notizia è che la nostra specie ha diverse caratteristiche (l’adattabilità, il fatto che abita tutto il pianeta, l’onnivorismo) in virtù delle quali secondo gli scienziati è assai più probabile che a mettere fine alla razza umana sia la razza umana stessa, anziché un asteroide.

 

Diversamente da quello che s’è letto su Facebook, è piuttosto improbabile che il preallarme della fine del mondo sia stato il terremoto che l'altra notte ha svegliato noi focosi abitanti della capitale. Quindi ricomponiamoci. Se anche dovessero piovere rane, risponderemo come in quella canzone che fa: “Piovono rane dall’alto del cielo, la gente in strada che dice ancora, piovono rane all’alto del cielo, non voglio perderne neanche una”. L’adattamento, più ancora dell’abitudine, ci farà salvi. Com’è stato sempre.

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